L'alfabeto delle relazioni
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L'alfabeto delle relazioni

  1. 400 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'alfabeto delle relazioni

Informazioni su questo libro

«Famiglie, io vi odio!» gridava André Gide alle soglie del XX secolo, denunciando l'ipocrisia e gli odi che avvelenavano quell'istituzione da sempre considerata il rifugio affettivo di ogni essere umano. Molto tempo è trascorso, ma la situazione non è certo cambiata. La cultura attuale muta vertiginosamente distruggendo antichi valori e sostituendoli con il nulla, e così le famiglie si possono trasformare in inferni di solitudine o di violenza. Ma è ancora possibile salvare questa istituzione che è alla base stessa del consorzio umano? Sì, afferma Vittorino Andreoli, a patto che ognuno di noi sappia riconoscere la sua sfera d'azione e di intervento, rispettando quella degli altri e cercando di ricostruire tutti insieme un sistema di relazioni affettive in cui l'amore prevalga sui falsi idoli alla quale l'attuale pseudo-cultura dell''apparire' impone di sacrificare.

Domande frequenti

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Informazioni

Introduzione

L’esistenza è oggi rappresentata da una fitta rete di relazioni e l’uomo è colui che si relaziona con altri esseri umani.
L’ampiezza e l’intensità di tali relazioni hanno differenziato i vari momenti storici e certamente il tempo presente ha portato i confini di questo spazio esistenziale oltre ogni nazione mentre l’accelerazione dei sistemi di vita ha intrecciato questa rete fino a rendere il nostro stare nel mondo un continuo adeguarsi al tipo di relazione che quel determinato momento richiede. Relazioni all’interno della famiglia, dell’ambiente di lavoro, dei luoghi di svago. Ogni specifico contesto richiede norme relazionali che cambiano e devono tenere conto dello scopo di questo o quell’incontro, di questo o quel legame.
Da una parte, dunque, lo spazio sconfinato di azione possibile per ciascuno, con sempre minori barriere e sempre maggiori stimoli di richiamo, dall’altra, il bisogno di legami sentimentali sui quali soltanto si fondano le nostre sicurezze. Insomma, una escursione che va dal nido fino a un volo che spazia dappertutto e che si fa avventuroso al punto di perdersi nell’infinità dell’universo.
A me sembra che questo nuovo stile impresso alla esistenza, fondato su relazioni interumane enormemente allargate, ci veda del tutto impreparati e ci mostri incapaci proprio di relazionarci, ben più di quando lo spazio esistenziale era chiuso in una cascina di campagna isolata entro il pezzo di terra (territorio) da cui si traeva l’alimentazione per il proprio gruppo familiare che rappresentava il mondo intero.
Per questo ho sentito il bisogno di un Alfabeto delle relazioni, di iniziare un corso elementare di apprendimento o di consapevolezza di che cosa siano e di come viverle.
Non c’è certo più necessità di un’alfabetizzazione per leggere e scrivere, ma di una per vivere in questo mondo. Necessità di parlare delle relazioni che ciascuno di noi attiva con l’altro nei differenti spazi.
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E nella mia mente si sono disegnate una grande grammatica e una sintassi relazionali con distinzione dei legami biologici da quelli culturali, dei legami essenziali da quelli di pura decorazione della vita: i legami culturali e sociali che riportano dentro le professioni, vecchie e nuove. Per rivisitare con gli stimoli del tempo presente gli àmbiti relazionali con le loro dinamiche, per accendere l’attenzione su quei punti da tenere in osservazione per garantirne il funzionamento, il raggiungimento cioè della gratificazione che deve sempre derivare da un legame. Ci sono legami profondi e altri puramente formali, le relazioni d’affari e quelle dell’amore.
Insomma, ho sentito il bisogno di analizzare i termini di queste relazioni in una sorta di consapevolezza degli strumenti che poi entrano nel legame, in un duo musicale se il legame è di coppia, e devono produrre una musica che non è la somma di due solisti. Ma si può mettere insieme un trio, un quartetto d’archi e via via realizzare un concerto da camera fino alle grandi sinfonie che necessitano di organici mastodontici.
Ho l’impressione che ormai ci si metta insieme senza mai provare, senza prepararsi a un lavoro d’insieme e allora mi è sembrato importante analizzare i singoli elementi di una relazione, e poi gli strumenti e quindi anche come metterli a punto perché esprimano al meglio le capacità di ciascuno dentro un piano che è quello dell’ insieme.
Nella scuola vorrebbe dire non occuparsi solo del singolo alunno, ma di ciascuno in relazione agli altri perché la classe divenga una unità. Nella famiglia ciascuno con le proprie abilità deve seguire uno spartito senza il quale non è possibile fare musica e nemmeno improvvisarla: ha bisogno almeno degli accordi di base e del fraseggio principale.
L’Alfabeto delle relazioni è anche, dunque, l’alfabeto della nostra vita con gli altri e forse semplicemente della vita.
Ho iniziato questo manuale di alfabetizzazione con le relazioni che si definiscono biologiche e naturali (anche se non è facile definire ciò che appartiene alla natura e alla cultura), e quindi mi sono subito occupato degli elementi e fattori che fanno parte della famiglia: del rapporto tra un padre e un figlio, tra un componente la coppia e l’altro (marito e moglie), tra un nonno e il proprio nipote.
Mi pare si parli troppo di famiglia senza un’analisi elementare, senza un alfabeto dei comportamenti e dei legami che si vengono a stabilire all’interno della casa. E a sostegno di questa affermazione sta certo la verifica di quanta violenza si sprigiona all’interno di questo luogo che romanticamente veniva definito il nido, e cioè lo spazio delle certezze.

Questo lavoro è cominciato quando mi sono proposto di scrivere Lettera alla tua famiglia. Ho sentito il bisogno di prepararmi con un’analisi dei suoi componenti e delle sue relazioni elementari pur sapendo che la famiglia è un insieme e quindi una unità. Parlare di famiglia poneva come necessità di fame un’anatomia al suo interno, per andare a vedere grammatica e sintassi che poi avrebbero garantito una scrittura e un periodare proprio.
I capitoli di questo libro sono stati composti a partire dal gennaio del 2004 e per tutto quell’anno che io considero di preparazione alla nascita e alla pubblicazione di Lettera alla tua famiglia.
Usciva ogni settimana su l’«Avvenire», nella per me famosa pagina del martedì, proprio questa alfabetizzazione.
Solo dopo aver condotto un lavoro analitico, ho pensato che potevo parlare dell’insieme, una preparazione utile perché la sonata orchestrale risultasse originale e ben accordata.
Se vogliamo, sono le carte preparatorie che tanto valore hanno avuto nella epistemologia scientifica del passato. Carte preparatorie che finiscono per essere il vero strumento e la vera logica dell’ insieme.
Mi sono fermato all’alfabeto della famiglia, ma confesso che serbo sempre il sogno di estenderlo alle relazioni di comunità inserendo anche quelle dei ruoli sociali per alfabetizzare anche le professioni.
Questo «tomo» si riferisce all’analisi dei componenti e delle relazioni per una orchestrazione familiare. E ogni prova d’orchestra, metafora della vita, richiede sempre fatica per migliorare la propria partecipazione, ma è anche un gioco e quindi un divertissement che aiuta a insistere per esprimersi meglio e quindi per ottenere una sonata che renda tutta la famiglia contenta di averla prodotta. Emersa dall’insieme.
Confesso di aver capito quanto interessanti siano le prove di orchestra e di aver compreso il perché si corra il rischio di provare sempre e di non mettere mai in cartellone la prima. (Penso in questo momento alla Prova d’orchestra di Federico Fellini.)
Ecco, in questo libro sono riportate le prove per mettere in scena una famiglia e per viverla, per una prova d’insieme. Chi volesse invece lasciarsi andare solo alla sonata, e quindi indossare un abito elegante e andare in platea, allora lo invito a leggere Lettera alla tua famiglia che nasce da queste carte.

Padre

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Il padre che non c’è

Sono padre e porto un padre dentro di me. Ne ho bisogno per vivere e per esercitare, a mia volta, la funzione di padre. Lui non c’è più, ma è dentro di me. E mi parlava sempre di suo padre. Anche lui faceva il padre nel ricordo del proprio padre.
È un errore separare troppo le funzioni della vita quotidiana tra padri e figli, come se essere padre non fosse compatibile con la funzione di figlio e come se un figlio non dovesse immaginarsi nelle future vesti di padre: un piccolo padre che cresce pur vestito da figlio. Si prepara a diventarlo, a essere padre anche quando il suo non ci sarà più.
Se cerco dentro di me la dimensione del mio essere padre, la ritrovo subito, mi incontro con mio padre che mi fa sentire figlio, anche se subito devo ammettere di essere un figlio divenuto padre. E sento che avere mio padre dentro di me mi aiuta a fare il padre e forse ho bisogno di un padre per esserlo fortemente. E lo ripeto, lui, mio padre, parlava del proprio e questi ancora di un padre che si allontanava da me pur rimanendo legato nella storia delle generazioni familiari.
Il padre serve a vivere ed essere padre aiuta i figli a vivere, a diventare padri.
Certo, nel viaggio dentro di me rivedo subito i volti dei miei figli, quel loro bisogno di me e nello stesso tempo quella voglia di fare senza di me, poiché un padre insegna anche ai figli a farsi padri, per poi fare figli.
In questa giostra dell’esistenza, mi piace perdermi nella percezione di essere padre, mescolandola con il sorriso di mio padre, che mi porto dentro assieme alle sue fatiche. Mi sento padre incontrandolo come figlio.
Viene voglia di pensare alla finzione delle distinzioni e delle separazioni nette.

Credo sia utile tenere distinti due termini, genitore e padre, anche se nella nostra lingua e nell’uso comune non accade. Il genitore è colui che genera, che fa un figlio e oggi sappiamo che questo scopo lo si raggiunge con un atto d’amore, ma persino con un gesto di violenza, se viene espropriato un ventre di donna. Sono portato a pensare che il generare si leghi a una esperienza di piacere, a un orgasmo, a un vissuto dunque straordinario, in cui un uomo e una donna diventano altro da sé mentre sono legati insieme senza distinzione. Ma so che non è sempre così, talvolta si è genitori della violenza, del dolore e provocando dolore.
Nel depositare quel seme e nella sua congiunzione con un uovo di donna, nasce la storia di una vita. Generare è questione di un attimo, di un gesto, di un atto d’amore, ma anche di una ginnastica d’organi che poi finisce.
In questa distinzione un genitore non è padre, non lo è ancora.
La paternità è un’acquisizione continua, è una conquista che si esprime nella relazione con chi è stato generato. E si può diventare padre persino di un figlio che non si è generato. Se l’essere genitore dipende da quella congiunzione, essere padre significa invece conquistare ed espletare un ruolo e farlo con continuità e con certi presupposti e coerenza. La paternità è una conquista.
Un genitore, insomma, non è automaticamente padre, ma lo deve diventare e per farlo deve agire e agire in una certa maniera. Ognuno da genitore deve diventare padre attraverso una metamorfosi ben più grande di quella che, durante la crescita, fa di un bambino un adolescente.
Temo che il mondo sia pieno di genitori ma che siano pochi i padri. È bello però sapere che tutti possono avere un padre pur non conoscendo il proprio genitore, e l’adozione ne è un esempio. Chi non ha generato non pensi per questo di essersi tolto dal problema della paternità: c’è così bisogno di padri che sono chiamati a esserlo anche coloro che non generano.
E mi piace pensare alla figura di chi ha la denominazione di «padre» proprio avendo rinunciato a un legame per generare. Chiamare «padre» il curato della mia infanzia era bellissimo. Proprio perché non aveva generato, poteva essere padre di quei giovani che andavano all’ombra del campanile per giocare e per sognare una vita celeste. Potenzialmente padre di tutti perché non ha generato nessuno. Come il monaco: monos sta per solo, ma non per voglia di misantropia, ma per poter andare con tutti.
La grandezza non sta nel generare, ma nel diventare padri. Il gesto del generare è un meccanismo automatico e la natura ci ha condotti a farlo non diversamente da altre specie viventi, non è così per la paternità.
E allora mi interrogo se io sia un padre e se lo sia in maniera compiuta. Non lo sono, se mi confronto con quel padre che mi porto dentro; non lo sono, se mi misuro con il padre che vorrei essere: quella figura ideale che si mette come un’ombra vicino a quella che ho storicizzato e la fa impallidire. Io continuo a «studiare» per fare il padre, sono per questa mia dimensione in crescita.

Nella storia dell’antropologia, che racconta lo sviluppo delle relazioni e quindi dei legami sociali, si nota che la scoperta della genitorialità è stata molto tarda. Mentre la genitrice è di conoscenza immediata poiché partorisce il proprio bambino, quella maschile è mediata. E letta in termini di causa ed effetto, tra gesto generante e nascita, vi è una distanza di nove mesi e certo non è stato facile per l’uomo capire questa sequenza.
È accaduto inizialmente presso una etnia, quella dei Natufiani, vissuti circa diecimila anni fa in Mesopotamia. Eravamo all’inizio dello sviluppo dell’agricoltura e quindi di una cultura che da nomade (fondata sulla caccia e sulla pastorizia) diventava stanziale con la coltivazione della terra e dunque non solo con la raccolta di prodotti spontanei. In questo periodo nasce anche la casa nel suo significato attuale, come luogo stabile che passa da una generazione all’altra e quindi deve possedere via via caratteristiche di maggiore resistenza. In questo periodo nascono i prodotti agricoli, i frutti della terra seminati e raccolti.
È, per intenderci, il periodo delle «bionde messi» e di una vera rivoluzione rispetto alla pastorizia e quindi al vagare con le greggi seguendo i pascoli. In una lettura in chiave puramente umana, questa è la cornice del dramma tra Caino e Abele. Caino offre al Signore le bionde messi, Abele invece un pingue agnello e Dio gradisce questa offerta, quasi non cogliesse il significato della novità. E Caino era il primogenito che, così, perde il suo ruolo di capo rispetto ai fratelli.
È in questa nuova organizzazione sociale sedentaria, con la possibilità di una continuità e di una osservazione più attenta, che si scopre che a generare è quell’uomo che si è unito con la donna; e così si svela che il generare si coniuga anche al maschile. Si tratta di una scoperta straordinaria poiché sconvolgerà l’assetto precedente, fondato completamente sulla donna. Era la donna a dare la linearità e l’aggancio tra una generazione e l’altra. L’uomo legava la propria significatività solo attraverso lo zio (lo zio materno) a cui la madre faceva riferimento per aiuto e per essere difesa: il fratello di lei e dunque a lei legato.
Questa cultura obbligava a inserire il nuovo nato esclusivamente nella storia della madre e a restare identificato nel nucleo di lei.
Presso i Natufiani si fa questa straordinaria scoperta e da allora il ruolo del genitore maschio si impone, e i genitori diventano due: un uomo e una donna.
In precedenza la nascita era un evento «spirituale» e tale dottrina è ancora presente, in varie forme e completezza, negli animismi diffusi in Africa e soprattutto in Nuova Guinea. A entrare nel ventre della donna è lo spirito e per poter generare – la funzione più importante nelle società cosiddette primitive – occorre che la donna sia «amata» dallo spirito e che lo attragga e per questo giace sovente con il ventre aperto e dunque lasciando la porta spalancata per riceverlo.
Pratiche distruttive come la clitoridectomia e la infibulazione, che consistono nell’asportazione di parte della vulva, hanno questa recondita origine: aprire le porte agli spiriti.
Durante la mia permanenza in Africa, andavo negli «ospedali» della sterilità e vedevo le donne tristi invocare l’arrivo degli spiriti passando giorni e giorni in quella posizione di accoglienza e di attesa, sottoposte a pratiche manipolatorie per favorirne l’esito.
Con questa scoperta nasce la coppia e a generare sono i due genitori.

Il genitore è necessario per nascere, il padre è indispensabile per vivere.
Il padre o un padre. Come guida, come riferimento, come sicurezza. E oggi il mondo è pieno di insidie, anche se la foresta della mitologia, piena di serpenti e di ragni, è diventata la città, in cui i serpenti hanno il volto umano e i nemici talora sorridono e, a differenza dei ragni, non avvelenano, ma rompono un bambino e godono nel distruggerlo.
Una società in cui ci sono i pedofili, ci sono gli sfruttatori di bambini che li usano per fare denaro attraverso l’elemosina, la prostituzione o il lavoro nero. Bambini che nemmeno hanno conosciuto il gioco e la gioia di stare al mondo, che non vedono mai il mondo bambino, ma sempre quello popolato di cannibali.
La foresta della malvagità umana.
C’è bisogno di un padre, di un padre che ti guardi e ti sorrida e ti dica: «Ci sono io, non aver paura». E non importa se anch’egli ha paura e se poi deve rivolgersi al padre che porta dentro di sé, dentro un bara e che forse è andato a finire in cielo. C’è bisogno di un padre che ti protegga, che ti dia coraggio e si può fare coraggio anche avendo paura.
Il padre che porto dentro di me calpestava la terra con la leggerezza di chi teme di disturbare, eppure sapeva infondere coraggio, poiché egli stesso ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L'alfabeto delle relazioni