Piccoli naufragi
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Piccoli naufragi

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Piccoli naufragi

Informazioni su questo libro

Florence ha un piano, per la sua estate parigina. Ma per attuarlo le servono solitudine e silenzio. Anche Speck culla un progetto: una mostra per la sua galleria. Lo ossessiona, non lascia spazio ad altri pensieri. E gli rivelerà su se stesso più di quanto desideri sapere. Irina invece sa bene di non essere ciò che sembra, e nella casa moderna e luminosa dei suoi anni da vedova coltiva con disincantata passione i sogni di una gioventù che non ha vissuto. Al contrario di Mathilde, che forse sbaglia a scegliere i propri uomini, accecata com'è dall'invidia per il loro passato. Queste storie minime, quotidiane, sono tutte segnate da un appuntamento ineluttabile con la verità, sospesa tra gelo e poesia. Mavis Gallant prende le loro vite qualunque e lascia che fugaci sprazzi di luce ne svelino dettagli inattesi. La nuova messa a fuoco che ne deriva è spesso tanto intensa da apparire sovrumana: "Rivivere il passato con la piena consapevolezza di ciò che doveva venire sarebbe stato troppo per chiunque, e loro non avevano poteri magici; erano solo esseri umani".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817048484
eBook ISBN
9788858626924

Irina

A Natale mandarono da Irina uno dei suoi nipoti, che tutti chiamavano Riri. Sua madre doveva entrare in ospedale, ma a lui nessuno l’aveva detto. Il vero motivo di quella visita era un altro: da quando Irina era vedova, i suoi figli si preoccupavano perché viveva sola. I ragazzi, come Irina li avrebbe chiamati per sempre, erano sposati e avevano raggiunto la trentina e la quarantina. Non pensavano di essere persone come tutte le altre, perché il loro padre era stato un grande vecchio. Era uno scrittore svizzero, Richard Notte. I figli portavano la sua fama e il ricordo del suo senso puritano della giustizia come un immenso vaso pieno d’acqua del quale avessero ricevuto l’ordine di non versare nemmeno una goccia. Amavano la madre, ma fino a quel momento non avevano mai dovuto dedicarle un solo pensiero. Non si erano mai preoccupati di dove potesse cadere la sua ombra, e se dovevano rimanere in quell’ombra o uscirne, diventando eccentrici e coraggiosi. C’erano due maschi e tre femmine, con quattordici figli in tutto. Solo Riri era figlio unico. Le ragazze avevano sposato un disegnatore industriale, un pastore luterano (forse una mossa insolente, dopotutto, per la figlia di un ateo militante) e uno storico dell’arte a Parigi. Uno dei ragazzi era diventato banchiere e l’altro insegnava tradizione musicale tedesca. Erano questi i figli castrati e le figlie leali ai quali Irina era sempre rimasta fedele, le cui fotografie avevano viaggiato con lei e vissuto accanto al suo letto.
Fra i necrologi di Notte, pochi accennavano a una famiglia. Qualche suo conoscente nel mondo letterario fu sorpreso di apprendere che c’erano dei figli, anche se tutti resero omaggio alla moglie dolce e silenziosa alla quale lo scrittore aveva dedicato i suoi libri, la protagonista delle sue prime appassionate poesie. Queste poesie, per la maggior parte versi convenzionali, raramente tradotte dal tedesco tranne che da ricercatori privi di senso poetico, erano tuttavia destinate a diventare la sua opera giovanile. Per la precisione, Notte aveva quarant’anni quando alla fine si era deciso al matrimonio, e Irina neppure diciannove. I necrologi definivano Notte l’ultimo della sua razza, il termine di una linea tolstojana di parafulmini morali; una simile estinzione probabilmente era ardua per gli scrittori che venivano dopo di lui, e ancor più ardua per i suoi figli. Comunque sia, anche agli occhi della propria famiglia il vecchio appariva come l’archetipo del rispettabile romanziere europeo – profetico, dissuasore, disperatamente opposto al male, la voce incrinata per i troppi ammonimenti. D’altra parte, non era per niente il classico tipo dello svizzero, o dell’europeo occidentale, progressista e protestante, perché non aveva mai risparmiato, investito, nascosto o occultato i suoi guadagni materiali.
«A che serve il denaro, se non per distribuirlo?» diceva spesso. Aveva una moglie, cinque figli e una vecchia segretaria che si era trasformata in dipendente. Era vero che per sé non voleva quasi niente. Abitava in case in affitto malandate e fatiscenti, impossibili da riscaldare e da tenere pulite. Il possesso era contrario alle sue convinzioni, e non voleva essere intrappolato dietro un cancello chiamato casa. La sua stanza era arredata con una branda, una lampada, una scrivania, due sedie, una carta geografica del mondo, una piccola libreria; nient’altro, neppure tappeti o tende. Come gli altri componenti della famiglia, portava maglioni pesanti sia in casa che fuori, e si curvava su focolari elettrici che non scaldavano abbastanza. Mangiava pochissima carne – anche se non ne privava i figli – e a tavola beveva acqua. Si era sposato una volta sola – una volta per tutte. Di tanto in tanto gli piaceva godersi il vino, gli elogi, un pasto al ristorante e le belle donne, ma quelle gioiose trasgressioni erano ai margini della sua vita vera, tanto lontane dai suoi figli – così strane e così distorte per loro – quanto una guerra coloniale di qualche altro paese. Era invecchiato in fretta, come se si aspettasse che la vecchiaia fosse adatta a lui. A sessant’anni aveva gli occhi come infossati in tasche di pelle di lucertola. I capelli erano diventati bianchi e lucidi, come il brandello dell’abito da sposa che Irina conservava nella scatola di un gioielliere. Era stato fotografato con addosso un abito scuro e uno scialle scozzese da donna – a quell’epoca ormai aveva sempre freddo, anche d’estate – e con in testa un cappello di feltro sbarazzino che gli metteva in ombra metà del viso. Nell’ultimo periodo la moglie faceva ancora entrare in casa qualche fotografo, ma non molti. Per decenni la frase mormorata: «Sta lavorando» aveva funzionato da doppia mandata. Lui era forte come Rasputin, dicevano i suoi nemici; era andato avanti a scrivere, a parlare e a viaggiare finché letteralmente non era più riuscito a mettere a fuoco niente o a salire su un treno, neppure con un aiuto. Quando era stato vicino alla fine, lui e Irina avevano rinunciato al loro ciclo stagionale di viaggi a Venezia, a Roma, alle città dove vivevano i loro figli sposati, a Liegi e a Oxford per ritirare riconoscimenti e onorificenze. Il suo posto nella sala da pranzo degli alberghi si riconosceva fin dall’entrata per l’esposizione di pillole, gocce e polverine, che occupavano lo spazio di un piatto da portata. Da anni l’ipocondria di Notte era famosa, e oggetto di una satira gentile. I suoi figli avevano ormai comprato la maggior parte delle vignette originali: Notte, vestito da neonato, che trangugiava le medicine come un adulto (aveva mancato il Nobel); Notte che litigava con Aragon e vomitava il Surrealismo; una sinistra figura femminile chiamata «Esistenzialismo» che gli sentiva il polso; Notte che prendeva l’influenza asiatica durante un viaggio culturale a Pechino. Negli ultimi mesi della sua vita i figli avevano notato che la madre aveva iniziato ad acquistare medicine per sé, come sperando di attirare su di sé i disturbi del marito in un gioco di specchi magici.
Se lui cedeva alla malattia, pensavano i figli, era solo perché era devoto ai rituali – perfino al terribile cerimoniale del dolore. Ma Irina non era fatta per la malattia e la sofferenza; il suo destino era di essere prosciugata e consumata dai rituali del marito. I figli erano convinti che la fine di Notte avrebbe significato sicuramente la morte della madre. Non che si aspettassero sul serio che Irina girasse la faccia contro il muro e morisse, ma sembrava che la sua ragion d’essere fosse un’alleanza esclusiva, perfino egoistica, con Notte. Man mano che il padre diventava vecchio, e poi vecchio sul serio, poi vecchio nella mente, e querulo, e ingiusto, osservavano la tenerezza paziente con la quale lei si occupava dei suoi bronci e dei suoi capricci, dei suoi ordini quasi folli. Immaginavano che quell’ardente sottomissione avesse a che fare con l’amore, ma non un genere d’amore che avessero mai sperimentato o cercato di suscitare. Uno dei figli vide Notte piangere perché Irina gli aveva imburrato il pane tostato, mentre lui lo voleva senza burro. Lei aveva accarezzato i capelli setosi del vecchio, sorridendo. Il figlio odiò quell’atteggiamento. Irina stava sminuendo un uomo forte e orgoglioso, facendone un bambinone senile, proprio come Notte la stava schiavizzando e umiliando. Allo stesso tempo il figlio avvertì che fra i due c’era un segreto, un mistero. Si chiese, ma solo in quell’occasione e poi mai più, se non potesse essere un’invenzione e una segreta conoscenza solo di Irina.
Notte aveva lasciato un testamento molto preciso, per essere una persona così poco attaccata ai beni materiali. La moglie era tranquilla per il resto della vita. Alla sua morte, il rimanente dei proventi delle opere di Notte sarebbe stato spartito tra figli e figlie. Non c’erano regali o lasciti. Il testamento era accompagnato da una lettera contenente le ultime volontà che i figli avevano fotocopiato per la bellezza della grafia e il fascino del testo. Irina, esordiva Notte, apparteneva a una generazione di donne tenute al riparo dalle decisioni, a cui era stato consentito di crescere al sole e all’ombra della protezione maschile. Questo fiore, il suo fiore, scriveva, adesso doveva essere amato e custodito come se fosse la figlia dei suoi figli.
«In parole povere» commentò Irina quando la lesse per la prima volta, nello studio di un avvocato di Zurigo «l’erede universale sono io.» Portava gli occhiali scuri perché aveva gli occhi stanchi, e un cappello rigido. Aveva un’aria ansiosa e straniera.
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Ebbene sì, così era, anche se Notte aveva posto la questione con più grazia. La sua figlia preferita era nominata esecutrice testamentaria, e a lei erano affidati i manoscritti incompiuti e i diari che Notte aveva tenuto per sessantacinque anni. Ma divenne presto chiaro che Irina non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi. I ragazzi adoravano la loro madre, ma anche senza l’elemento dell’amore non ne avrebbero fatto una questione; l’avvocato di Notte aveva già raccontato loro di dispute finite in vertenze giudiziarie labirintiche, famiglie divise, contenuto della scrivania sequestrato, diari che marciscono nel caveau di una banca mentre gli eredi litigano. Per di più, il lavoro di redazione sulle carte di Notte avrebbe tenuto impegnata Irina, e adesso era fondamentale che avesse un’occupazione. Quando muore qualcuno il problema è sempre lo stesso, nelle famiglie affiatate come in quelle litigiose: cosa fare della vedova?
Irina sistemò in parte la faccenda comprando un appartamento in una cittadina sulle Alpi. Scelse un edificio alto, pieno di vetrate, molto urbano, del tipo per cui i gruppi di conservatori inviano petizioni, corredate di fotografie incriminanti, ai giornali di Losanna. L’appartamento era composto di un ingresso, una cucina modernissima, una camera da letto per Irina, una stanza per gli ospiti con un letto piccolo, un bagno e un soggiorno con un divano. C’era anche una veranda racchiusa da un cubo di vetri dove in caso di emergenza si poteva sistemare una branda, ma Irina vi mise invece un tavolo con le sedie. Ordinò paralumi rossi e tende spesse e i mobili chiari che di solito comprano le giovani coppie. I figli pensarono che in quell’appartamento piccolo e neutro Irina sembrava a casa sua. Lessero alcune interviste concesse dalla madre, e approvarono: diceva, in inglese e in italiano, in tedesco e in francese, che non aveva intenzione di essere la classica vedova dell’uomo di lettere, detestata dai critici e antipatica ai lettori di Notte. La sua rigida diffidenza fece sorridere i figli, che lessero con orgoglio le descrizioni della dignitosa bellezza della madre. Ma quanto alla sua intelligenza… be’, la loro idea era che gli intervistatori avessero confuso la parlantina sciolta con l’arguzia. I punti di vista di Irina e il suo modo di esprimerli erano una maschera, facevano semplicemente parte della scarsa istruzione sul modello delle signore bene, forti nelle lingue e nel portamento, scarse in storia e matematica. Irina aveva origini russe e svizzere, e probabilmente veniva da un ambiente religioso; i figli non erano attratti da quella parte della famiglia. La leggendaria infanzia contadina del padre, il paesino isolato in una valle, avevano colmato la loro fantasia e il loro passato condiviso. Adesso nelle lettere della madre c’era un’improvvisa leggerezza primaverile che li faceva sentire sollevati e preoccupati allo stesso tempo. Sapevano che era una felicità contraffatta. Un espediente della natura per proteggere i sopravvissuti dal dolore immediato. La crisi sarebbe arrivata in seguito, quando i suoi istinti più segreti avessero costruito un frangiflutti. A turno invadevano la sua casa per Pasqua e d’estate, una coppia alla volta, portando un bambino alla volta, poiché non c’era spazio per più persone. In inverno però era un problema, perché lì le piste di sci non erano buone, e nessuno di loro voleva smembrare la famiglia a Natale. Non solo nell’appartamento di Irina mancavano i letti, ma non c’era assolutamente spazio per l’albero di Natale. Alla fine si offrì di andare lei da loro, seguendo un ordine regolare. E così sistemarono la cosa. Irina andò a Berna, a Monaco, a Zurigo, e poi, inevitabilmente, arrivò il Natale in cui non era che nessuno la volesse, ma semplicemente tutti avevano programmi diversi.
Nel novembre di quell’anno Irina aveva scritto che un amico, che lei aveva chiamato, con espressione d’altri tempi, «una persona», era arrivato per fermarsi a lungo. A loro la notizia era piaciuta. Una visita significava compagnia per l’inverno, le lampade accese alle quattro, tè nelle tazze di porcellana, conversazione, il profumo pungente dei garofani (i suoi fiori preferiti) in una stanza calda. Durante la visita, per una settimana o due le sue lettere furono allegre, ma poi i figli notarono che «la persona» sembrava avere un effetto deprimente sulla madre. Irina scrisse che ormai stava lavorando sui diari di Notte da tre anni. Chi avrebbe voluto leggerli, a parte i vecchi? Le sue idee morali e politiche erano fossili del liberalismo. Notte aveva individuato le crepe nella repubblica di Weimar. Aveva capito fin dall’inizio che cosa significava Hitler. Se in principio si era sbagliato su Mussolini, aveva cambiato idea perfino prima di Croce, e si era rifugiato al sicuro dalla parte della democrazia in tempo per denunciare Pirandello. A parte la vita, aveva dato tutto ciò che poteva alla causa dei repubblicani spagnoli. La sua analisi di Stalin era stata tanto intelligente e incontestabilmente esatta che non era mai stato messo all’indice dai comunisti – cosa rara per un socialista occidentale. Nessuno avrebbe potuto affermare, mai, che Notte avesse tergiversato o avesse mantenuto il silenzio quando era necessario che si levasse una voce. Be’, diceva Irina, e allora? Aveva scritto, si era impegnato, aveva ammonito, firmato, dichiarato. E cos’aveva cambiato, dirottato, fermato? Inviò la stessa lettera contemporaneamente a tutti e cinque i figli: «Questo Natale non voglio andare da nessuna parte. Intendo restare qui, a casa mia».
I figli sapevano che la crisi era arrivata e che non dovevano lasciare che la madre l’affrontasse da sola, ma quello era proprio l’inverno in cui tutti i loro progetti erano andati a monte, quando una delle figlie stava per entrare in ospedale, un’altra avrebbe traslocato in una città diversa, la terza probabilmente era sul punto di divorziare. Il figlio maggiore era impegnato a trascorrere il Natale con i suoceri, il minore insegnava in Sudafrica – un paese dove Irina, come riflesso duraturo di Notte, non avrebbe certo mai voluto mettere piede. Si scambiarono lettere, telefonate, telegrammi: Che facciamo? Tu puoi? Ci vai tu? Io non posso.
Irina non aveva un figlio preferito, tranne forse un maschio che da bambino aveva sofferto di febbri reumatiche e aveva avuto bisogno di una lunga assistenza. A lui confidò ora che certe volte aveva nostalgia della propria infanzia, quando poteva evitare di dare giudizi su di sé. Aveva nostalgia di un tempo in cui nulla si era cristallizzato ed era concesso sbagliare. Adesso, con la vecchiaia, non aveva scuse per i suoi errori. Ogni pensiero aveva una portata troppo vasta, ogni motivazione angoli e spigoli e dimensioni precise. Eppure tutto ciò che vedeva e pensava e tentava di fare era ancora fluido e vago. La forma di un tavolo stagliata contro la luce del pomeriggio conteneva un mistero, era in attesa di una spiegazione finale. Cerchiamo la chiarezza, scriveva, e la risposta che riceviamo è il pallore, lo stampo bianco e piatto, senza contrasto, che il cielo da neve proietta in una stanza.
Una parte di quel figlio sapeva della morte e del morire, ma il resto di lui era un banchiere ed era votato all’attività. Era convinto che, in una situazione ideale, bisognerebbe essere in grado di passarci attraverso, a un tavolo, per risparmiare tempo e decisioni tortuose. Tuttavia, come tutti i figli di Notte, era stato allevato anche nella consapevolezza di tutte le questioni pratiche. La lettera di sua madre, giovanile, bramosa e probabilmente religiosa, lo fece sentire moderato e vecchio. Riferì a sua moglie quello che pensava fosse il contenuto del messaggio, e questa disse a una cognata ciò che pensava che il marito avesse detto. Irina era stanca. Le era calata la vista, forse per colpa del lavoro prolungato sui diari. Irina non aveva bisogno della compagnia degli adulti, che avrebbe potuto condurre a discorsi morbosi; quello che adesso desiderava ardentemente era un simbolo della vita che continuava innocente. Un animale, forse. Ancor meglio: un bambino.

Riri non sapeva che sua madre sarebbe entrata in ospedale nell’istante esatto in cui lui avesse girato le spalle. La prospettiva di un barboso Natale con una nonna era controbilanciata dalla promessa di una vacanza più avanti nell’anno, per sciare ad alta quota con suo padre. Ci fu anche un ulteriore ricatto riguardante compiti delle vacanze, e poi quella vaga condizione chiamata «comportarsi in modo ragionevole» – solo quello gli chiedevano. Celebrarono un finto Natale il 23, e il giorno dopo Riri infilò in valigia i regali (un orologio e un registratore) e fu messo su un aereo a Orly Ovest. Volò da Parigi a Ginevra, dove trascorse la vera vigilia di Natale in uno strano appartamento spoglio nel quale una zia e una numerosa famiglia di cugini avevano appena traslocato. Il mattino dopo lo svegliarono che era ancora buio e lo portarono al treno delle sei. Salutò la zia alla stazione, e aggiunse: «Se chiedi al controllore o a qualcun altro di badare a me, io…». Qualunque fosse la minaccia che aveva in mente, sembrava pronto a metterla in atto. Sulla giacca aveva un distintivo della Raf e in tasca un emblema delle SS. Aveva avuto il buonsenso di non tenerlo in vista. A casa gliene avevano già portato via uno e lui se n’era procurato un altro a scuola. Si era portato un fumetto di Asterix da leggere, una barra di cioccolato alle nocciole da sgranocchiare, e aveva uno zaino piuttosto grande per le sue cose. Cambiò treno da solo e scese alla fermata giusta.
Gli avevano detto che conosceva quel posto, ma i suoi ricordi, ammesso che fossero ricordi autentici, riguardavano prati e picnic. Ad accoglierlo non c’era nessuno. Divise un taxi con due donne nella neve soffice, e pagò la sua quota – in realtà più della sua quota, il che irritò le donne; non potevano certo lasciare una mancia inferiore a quella di un bambino. Il taxi lo lasciò davanti a una torre scura e scintillante sollevata su palafitte, con i gradini di granito. Nell’atrio un pannello di marmo, simile a quello con i nomi dei caduti che c’era nella sua scuola, gli disse che la nonna era all’ottavo piano. L’ascensore, come la facciata del palazzo, era fatto di specchi scuri nei quali si guardò serio. Gli restituì lo sguardo una persona compatta e pensierosa. Si tolse gli occhiali, e il viso sfocato diventò ancor più interessante. Sulla porta della nonna c’erano un campanello e un batacchio. Provò con tutt’e due. Per un tempo abbastanza lungo non accadde nulla. Bussò e suonò di nuovo. Non era nervosismo quello che sentiva, ma una sensazione nuova che riguardava una porta estranea, chiusa. Sua nonna aprì, giusto uno spiraglio. Aveva i capelli corti e bianchi, il viso pallido e gli occhi azzurri. Portava una vestaglia abbottonata fino alla gola. Spalancò la porta ed esclamò: «Caro Richard, ti aspettavo molto più tardi! Oh» aggiunse «devo sembrarti spaventosa. Farmi trovare così, in vestaglia!». Piegò la testa da un lato e parlò attraverso le dita, come a lui avevano detto di non fare mai, perché solo i bugiardi si coprono la bocca. Vide un ingresso buio, una cucina illuminata e un po’ in disordine, e di fronte alla cucina una stanza grande e buia con le tende tirate. Questa stanza sapeva di chiuso, di sigarette e di adulti. Ma poi nonna tirò i tendaggi e arrotolò le veneziane e gli oggetti che prima erano monticelli scuri si trasformarono in un divano e un paravento di bambù, e un tavolo rotondo e un certo numero di sedie. Su uno scaffale c’era un dipinto con tre tulipani che dovevano essere caduti fuori dal vaso. Dietro i tulipani c’era un cielo completamente nero, a parte un arcobaleno. Tirò fuori una parte delle cose che aveva nello zaino – regali incartati per la nonna, il suo nuovo registratore, due libri di scuola, un quaderno e una biro Bic. L’inizio del suo Natale era alle sue spalle, a ore di distanza, e l’effetto della colazione svanito da tempo.
«Hai fame?» chiese nonna. Riri sentì squillare un telefono mentre lei gli portava una tazza di latte bollente macchiato con poco caffè e due croissant freschi su un piatto. Era chiaro che sua nonna non era tipo da correre a rispondere ai campanelli. «Il mio amico, che si alza sempre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Piccoli naufragi
  4. Postfazione