Manuale dell'uomo di mondo
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Manuale dell'uomo di mondo

  1. 400 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Manuale dell'uomo di mondo

Informazioni su questo libro

Tre bestseller in Italia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d'America. La prova che i caratteri nazionali esistono, resistono, ma cambiano. Ogni viaggiatore deve imparare a riconoscerli, capirli e rispettarli. L'uomo di mondo moderno non è uno snob, ma un osservatore che combina chilometraggio, cultura, passione e ironia. Questa è la lezione di Severgnini: attenzione ai dettagli e osservazione antropologica, occhio implacabile e cuore generoso. In queste pagine il racconto, informato ed esilarante, della vita tra gli Inglesi, che cambiano fingendo di rimanere uguali. L'avventura familiare di Un italiano in America, alle prese con le mance obbligatorie e la dittatura dell'aria condizionata. E il viaggio di ritorno dentro La testa degli italiani, continente esotico e affascinante, rivisitato nel 2012 per questa nuova edizione.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817055864
eBook ISBN
9788858625132

INGLESI
(1990)

PREFAZIONE

di Indro Montanelli

Beppe Severgnini è un ragazzo di poco più di trent’anni, che scribacchiava delle note di costume su un giornaletto di Crema, quando mi fu segnalato da un comune amico. Lessi quelle note, mi piacquero, chiamai l’autore, che si preparava agli esami di notaio, e lo arruolai nel «Giornale». Dopo qualche mese venne a dirmi che voleva tornare a casa e riprendere i suoi studi. Ma dopo qualche altro mese mi chiese di riprenderlo. Così feci, e per sottrarlo ad altre tentazioni, lo mandai a fare il corrispondente da Londra. Mi tirai addosso molte critiche, più che fondate: a fare il corrispondente, e specialmente da una capitale come Londra, ci vogliono giornalisti di esperienza, e Severgnini non ne aveva nessuna. Ma io avevo puntato sul suo naturale talento, e vinsi la scommessa. Prima ancora di averne imparato la lingua, il piccolo provinciale Severgnini aveva capito il Paese, le sue grandezze, le sue miserie, i suoi vezzi e i suoi vizi.
Severgnini è rimasto in Inghilterra quattro anni, di cui questo libro è il frutto. Ma tengo subito a dire che non si tratta di una raccolta di articoli: operazione che ha sempre, nei confronti del lettore, qualcosa di truffaldino. Può darsi che questo lettore vi ritrovi alcuni pretesti e spunti già adombrati da Severgnini in qualche suo articolo. Ma il libro è tutta una riscrittura delle sue esperienze, e ne conosco poche che siano andate tanto in fondo. Io ne ho affrontato il manoscritto con una certa diffidenza perché sull’Inghilterra e sugl’inglesi si è talmente scritto che è difficile ormai dirne qualcosa di nuovo e originale.
Ebbene, Severgnini c’è riuscito, forse grazie proprio a quell’inesperienza di provinciale che gli ha consentito di cogliere con assoluta genuinità e freschezza quel complesso Paese. Si sente che vi è sceso dentro, e il ritratto che ne offre probabilmente piacerà anche agl’inglesi: che vi ritroveranno tutte quelle bizzarrie e contraddizzioni di cui si fanno una civetteria per sottolineare la propria «diversità».
Qualcosa ne è rimasto addosso anche a lui, com’era fatale che avvenisse. Non si conosce ancora il caso di qualcuno che sia vissuto un po’ a lungo in Inghilterra senza restarne inquinato, specie quando questo càpita da molto giovani. Molti diventano addirittura scimmie degl’inglesi: una famiglia zoologica che gl’inglesi sono i primi a detestare. Ma non è il caso di Severgnini, che da loro ha preso ciò che tutti dovrebbero, ma pochi sono capaci di prendere: l’understatement e quel sommesso umorismo di cui specialmente gl’italiani avrebbero tanto bisogno.

Indro Montanelli
autunno 1989
Per Ortensia, che mi ha accompagnato

PER EVITARE I MUSEI

(Introduzione)

Sono vissuto per quattro anni in Gran Bretagna e conosco l’importanza delle visite dall’Italia. L’esperienza mi ha insegnato che si dividono in visite gradite e visite meno gradite, visite lunghe e visite brevi, visite impegnative e visite rilassanti. Tra le meno gradite, le più impegnative e, di solito, le apparentemente interminabili ci sono quelle degli esperti, ossia di coloro che mancano da anni, ma arrivano armati di teorie molto precise e mentre ancora trascinano la valigia attraverso l’aeroporto di Heathrow cominciano a spiegare l’Inghilterra a chi ci vive. Costoro sono la dimostrazione ambulante di una mia vecchia convinzione: il guaio di Londra – uno dei pochi guai di Londra – è che gli italiani credono di conoscerla bene. Non solo Londra, naturalmente, credono di conoscere, ma anche l’inglese, gli inglesi e l’Inghilterra.
Ricordo, tempo fa, la visita di un esperto particolarmente temibile. Costui, oltre ad avere idee molto circostanziate sulla decadenza post-imperiale britannica e lo sviluppo urbanistico nella cintura di Londra, arrivò fornito di un’arma micidiale: una guida del Touring Club, anno 1969. Molti la ricorderanno: si trattava di un libro grigio, con la copertina rigida, della serie «Grandi città del mondo» e aveva per titolo Qui Londra. Questa pubblicazione, nel 1969 e anni immediatamente successivi, era inoffensiva: i ricercatori del Touring Club, oltre che scrupolosi, sono galantuomini, e non intendono fornire al pubblico un mezzo per torturare i residenti all’estero. Quando il mio ospite la trasse dalla valigia, la guida Qui Londra era diventata invece pericolosissima, e spiego subito perché: l’esperto pretendeva che gli venissero mostrate le cose di cui aveva letto, anche se non esistevano più da quindici anni.
Particolarmente impegnativa si rivelò una gita lungo il Tamigi fino a Greenwich. L’esperto, ritto a prua con la sua guida in mano, insisteva nel voler vedere «lo sciamare imperterrito e monotono dei vaporetti, delle chiatte e delle navi» nel porto di Londra (pagina 19), ed esibiva uno sguardo insofferente quando gli veniva spiegato che le navi sarebbero sciamate se ci fossero state, e ci sarebbero state se fosse esistito ancora il porto, scomparso invece negli anni Settanta e sostituito dagli appartamenti di lusso delle docklands, dove abitano architetti facoltosi, il cui hobby è guardare con il binocolo i turisti italiani che passano in battello con in mano la guida Touring del 1969. Allora ho capito: poteva essere opportuno fornire qualche aggiornamento.
Mi è venuto in aiuto, a questo punto, un grande giornalista americano di nome John Gunther, il quale molti anni fa suggerì cosa fare per descrivere con qualche efficacia un Paese diverso dal proprio. Occorre «scrivere per l’uomo di Marte», le cui domande sono molto basilari: Come vive la gente? Di cosa parla? Come si diverte? Chi comanda, qui? Non bisogna mai dare nulla per scontato, in altre parole. Soprattutto in un Paese come la Gran Bretagna: gli stranieri arrivano carichi di luoghi comuni – gli inglesi sono riservati, amano le tradizioni, leggono molto e si lavano poco – e si accorgono nel giro di qualche giorno che è tutto vero: la scoperta genera una sorta di euforia, che impedisce di andar oltre. Gli inglesi di fine secolo, invece, vanno esplorati con attenzione, perché ancora costituiscono un continente misterioso, e il Paese che abitano andrebbe affrontato come si è sempre affrontata l’America, con un po’ di stupore e un certo disagio.
Occorre ricordare, tanto per cominciare, che nessuna nazione al mondo si riduce a una città, e perciò l’Inghilterra non è Londra; che anche quello che crediamo di conoscere – dai taxi neri alla famiglia reale – cambia costantemente; che della Gran Bretagna esistono aspetti affascinanti e trascurati: la spettacolare piramide delle classi; la malinconia della costa; le bizzarrie degli young fogeys, vecchi a vent’anni; le corse dei cani e i vezzi della «stagione» (torneo di Wimbledon, corse di Ascot, opera con picnic a Glyndebourne), con la quale gli inglesi fingono di avere, anche loro, un’estate.
Possiamo assicurare l’esploratore che sarà premiato, a patto che si metta d’impegno. Sessant’anni fa l’autore – inglese – di uno degli innumerevoli libri di viaggio attraverso l’Italia, E.R.P. Vincent, mostrò ad esempio d’essere un visitatore perspicace con questa semplice annotazione: «Italia is not Italy», intendendo con quest’ultimo termine il Paese immutabile, pieno di Botticelli e pergolas, che generazioni di viaggiatori inglesi avevano descritto prima di lui con gli occhi umidi. «L’Italia» proseguì «ha sviluppato il senso del futuro; Italy non ha futuro, poco presente e un immenso passato. L’Italia ha stagioni di venti freddi e maligni; Italy possiede un clima perennemente incantevole. L’Italia è una terra strana, dura e pulsante; Italy è familiare, limitata e defunta.» Possiamo rovesciare il punto di vista e ripetere l’osservazione, oggi, per la Gran Bretagna: il Paese dei parchi, dei bus rossi e dei poliziotti in nero ci sembra uguale ogni volta; Britain, piena di periferie silenziose e di minoranze inquiete, di nuovi ricchi e di vecchie abitudini è un’altra nazione, e merita di essere indagata.
Descriverla non significa compilare una guida turistica. Vuol dire invece, prima di tutto, fornire qualche onesta informazione su quanto è accaduto agli inglesi, che negli ultimi dieci anni – alle prese con un passato importante e due primi ministri imprevisti – sono cambiati come in nessun altro periodo della loro storia recente. Vuol dire parlar bene di loro, perché hanno capito che non è sufficiente essere stati, ieri, una grande potenza imperiale; occorre essere, oggi, una normale nazione europea. Vuol dire, quand’è il caso, non prenderli troppo sul serio, come loro non hanno preso troppo sul serio il resto del mondo per secoli in fila. Come ogni autore, ho un’illusione: chissà che tutto questo non possa tornar utile a chi continua ad attversare la Manica per lavoro, per studio o per comprare un pullover, ed è finalmente deciso a evitare i musei.
Una annotazione di carattere lessicale: parleremo di «inglesi» e non di «britannici», sebbene quest’ultimo termine sia più preciso. È noto infatti che chiamare «inglesi» gli abitanti della Scozia è scorretto nonché – in Scozia – pericoloso. Parlare di «britanni» sarebbe certamente appropriato se oggetto di questo libro fossero le imprese degli avversari di Giulio Cesare; è meno appropriato volendo descrivere le avventure, non meno affascinanti degli attuali abitanti del Regno Unito. L’aggettivo «britannico», invece, verrà usato appena possibile. Ai puristi, e agli scozesi, ricordo che noi europei del Continente conosciamo – si fa per dire – gli inglesi, die Engländer, les Anglais e los Ingleses. Può non essere giusto, e certamente non è esatto, ma è così.

DOVE VA LA GRAN BRETAGNA

RINGRAZIATE LA BAMBINAIA

Gli anni Ottanta sono stati per la Gran Bretagna gli anni di Margaret Thatcher, come gli anni Sessanta furono gli anni dei Beatles. Il paragone non deve sembrare irriverente – né agli amanti dei Beatles, né agli ammiratori della Thatcher. La signora, come i giovanotti di Liverpool, ha segnato la storia del Paese in modo indelebile, e gli inglesi la ricordano con un misto di ammirazione e orrore. Possiamo star certi: non verrà dimenticata tanto presto.
Nel novembre 1990, subito dopo le dimissioni, quando in corsa per il numero 10 di Downing Street erano John Major, Michael Heseltine e Douglas Hurd, una scolaresca di bambini di nove anni scrisse a un giornale chiedendo: «È possibile che il primo ministro sia un uomo?». Ebbene sì, abbiamo scoperto. Ma John Major – il nuovo capo tranquillo, figlio di un acrobata da circo – è al potere da troppo poco tempo per esser certi che lascerà il segno. Alcuni suoi predecessori, infatti, sono stati allegramente dimenticati: la fama di Leonard James Callaghan, ad esempio, è legata soprattutto al fatto di aver reso obbligatori i catarifrangenti al centro delle strade.
Margaret Hilda Roberts sposata Thatcher appartiene, invece, alla categoria dei grandi leader, quella di Churchill e Elisabetta I. Eroica come lo statista e turbolenta come la regina, lascia un’impronta maestosa nel dopoguerra britannico. Il fatto non dipende soltanto dal tempo considerevole in cui la signora è rimasta al governo, ma anche dal modo in cui c’è stata: dopo sei anni di Harold Wilson non c’era il wilsonismo, ma solo un po’ più di caos; dopo quattro anni di Edward Heath nessuno parlava di heathismo, ma soltanto dell’ultimo tentativo di un governo conservatore di puntellare un Paese cadente. Dopo tre mesi di Margaret Thatcher c’era già il thatcherismo. C’è ancora oggi, sostiene l’interessata, che nella primavera del 1992, con un articolo sul settimanale «Newsweek», ha smentito decisamente «l’esistenza di una cosa chiamata majorism».
Nel 1979 la signora piombò sulla Gran Bretagna come un tornado, e per quasi dodici anni ha trattato la nazione con equivalente delicatezza. Durante la recessione del 1980-82, unica al mondo, tentò una mossa rivoluzionaria: invece di stimolare la domanda, come la teoria economica dominante imponeva, prese di petto spesa pubblica e inflazione e ignorò il numero dei disoccupati, considerandolo un male inevitabile e passeggero. Gridò che occorreva produrre ricchezza, prima di poterla distribuire, e questo era compito degli individui. Lo Stato doveva farsi da parte, e lasciare loro più responsabilità e più decisioni.
In Italia, dov’eravamo abituati a primi ministri che aspiravano solo a passare l’estate, restammo allibiti davanti a un leader che intendeva passare alla storia. In Gran Bretagna, gli avversari subirono un trauma dal quale cominciano a riprendersi solo adesso: i laburisti compresero con orrore che la signora non si accontentava di sconfiggerli a ripetizione, ma intendeva convertirli; molti conservatori non si capacitavano di aver nominato leader un personaggio del genere, e cominciarono a invocare Disraeli e la sua visione di una «società caritatevole». Gli elettori l’hanno invece scelta tre volte (1979, 1983 e 1987) e – a pensarci bene – non l’hanno mai licenziata.
Ci hanno pensato i parlamentari conservatori, come è noto, a espellerla da Downing Street, e solo il tempo dirà se hanno fatto bene o hanno fatto male. Se è vero che la Thatcher era autoritaria e poco misericordiosa, e difendeva con veemenza imbarazzante gli interessi della Gran Bretagna, è anche vero che soltanto lei ha avuto il coraggio di dire in faccia alla nazione quello cui mai un primo ministro aveva osato accennare. Innanzitutto, che la Gran Bretagna aveva vinto la guerra, ma era come se l’avesse perduta. Nel 1945, povera e stremata, aveva smesso di essere una grande potenza: a quel punto doveva diventare qualcos’altro. Con i suoi metodi da bambinaia manesca, la signora ha costretto il Paese a guardare in faccia la realtà. Gli ha insegnato che non è vergognoso, per uno dei più grandi imperi della storia, competere con la Corea del Sud nella produzione di posate da tavola; che, per un operaio, volersi comprare la casa non è un’infamia, come sostenevano i laburisti, ma una scelta di buon senso; che aver battuto i nazisti per venir poi sconfitti dai sindacati non è soltanto folle, ma è ridicolo.
I risultati degli undici anni di thatcherismo sono sotto gli occhi di tutti. Oggi la Gran Bretagna è una nazione moderna, moderatamente ricca, ragionevolmente tranquilla. Ha lasciato un impero, ma non l’ha abbandonato: i presidenti degli staterelli di mezzo mondo, a Londra, hanno sempre Buckingham Palace per far da sfondo alle fotografie. Il nuovo ruolo è stato scelto, non subìto: i generali argentini, che non l’avevano capito, furono puniti duramente nelle acque gelide delle Falklands. La catarsi, per il Paese, venne durante «l’inverno dello scontento» tra il 1978 e il 1979, quando a causa degli scioperi i morti restavano insepolti e l’elettricità era razionata. Margaret Thatcher seppe cogliere al volo the changing mood, l’umore che cambiava: annunciò che i suoi valori – iniziativa economica individuale, orgoglio nazionale, ordine e rispetto per le leggi – erano i valori della classe media, e i valori della classe media sarebbero stati i valori del Paese. Il proclama risultò convincente, perché la signora, per dieci anni almeno, ha mostrato di possedere una fortuna rara per un politico: quello che diceva era quello che credeva. Quello che credeva, per tre volte consecutive, è risultato essere nel suo interesse elettorale.
I segnali del tornado in arrivo, per chi sapeva coglierli, erano chiari già nel 1975, quando Margaret Hilda Thatcher venne eletta leader del partito conservatore. Qualche giorno dopo la nomina, uno degli sconfitti descrisse la prima riunione del governo-ombra (i conservatori allora erano all’opposizione): «Mentre la signora si sistemava i capelli e appendeva la borsetta alla sedia, i presenti ebbero la netta sensazione che il partito andasse incontro a un destino calamitoso». Si trattava di una profezia accurata: il Tory Party, così come lo avevano conosciuto Macmillan e Heath, era destinato a scomparire. In quindici anni Margaret Thatcher ne ha completamente stravolto le regole e lo stile, seducendo e arruolando la piccola borghesia – da cui proviene – e ignorando l’élite tradizionale, che diceva di detestarla, ma la amava come i nobili di un tempo amavano il proprio fattore: poteva non essere simpatico, ma era utile e necessario.
Oggi i tre partiti maggiori si considerano ormai «interclassisti», ma non è vero. I laburisti pescano ancora soprattutto nella working class (classe operaia), e tra la gioventù ansiosa di giustizia sociale in attesa di un buon stipendio. I liberaldemocratici di Paddy Ashdown attraggono soprattutto eccentrici, giovani e intellettuali scontenti. Solo i nuovi conservatori – plasmati dalla figlia di un droghiere e consegnati al figlio di un trapezista – hanno sconfinato con decisione: consapevoli dei limiti numerici dell’upper class che li ha prodotti, cercano – e trovano – voti dovunque. Le elezioni dell’aprile 1992, se ce n’era bisogno, lo hanno confermato.
Le dimostrazioni di questo fenomeno sono numerose. Se nella sede centrale del partito in Smith Square le impiegate – ben truccate, ben vestite, ingioiellate con noncuranza – sembrano essere state sequestrate tutte insieme durante una festa da ballo, altrove in Inghilterra le cose non stanno così. Nel quartiere di Ealing, periferia di Londra, il candidato conservatore Harry Greenway osservato in azione durante una campagna elettorale somigliava a un commerciante di auto usate, parlava come un commerciante di auto usate e i suoi elettori, senza dubbio, compravano auto usate. Si trattava però di inquilini che avevano riscattato la casa d’abitazione grazie a una legge voluta dai conservatori, coppie in pensione convinte che i laburisti disprezzassero la polizia e commercianti di origine pakistana che di Margaret Thatcher amavano soprattutto un comandamento: guadagnate e il conto in banca vi renderà uguali.
A Liverpool, un...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Prefazione
  5. Inglesi - (1990)
  6. Un Italiano in America - (1995)
  7. La testa degli Italiani - (2005)