L'inizio del buio
eBook - ePub

L'inizio del buio

Alfredino Rampi e Roberto Peci sotto l'occhio della tv

  1. 278 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

L'inizio del buio

Alfredino Rampi e Roberto Peci sotto l'occhio della tv

Informazioni su questo libro

Walter Veltroni denuncia la debolezza della politica di fronte al ricatto dell'opinione pubblica, il cedimento dell'etica e del pudore sotto i colpi della società delle immagini e della comunicazione totale, riportandoci con la memoria al giorno in cui il nostro sguardo perse l'innocenza. L'11 giugno del 1981, un grido disperato paralizza l'Italia davanti ai teleschermi. Alfredino Rampi, sei anni, è precipitato in un pozzo e sta chiamando disperatamente sua madre. Gli italiani ascoltano agghiacciati il suo lamento, mentre iniziano i tentativi di salvataggio: nessuno immagina che quello sarà soltanto il primo di tre lunghi giorni di agonia in diretta. In quelle stesse ore Roberto Peci viene sequestrato dalle BR, processato e condannato perché colpevole di essere il fratello del primo pentito brigatista. I cinquantaquattro giorni della sua prigionia, così come la sua esecuzione, verranno scrupolosamente documentati, con filmati e fotografie, dai suoi assassini. Due innocenti sotto l'occhio della telecamera, due pubbliche solitudini che ci ricordano come, molto spesso, è proprio quando si accendono i riflettori che ha inizio il buio.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a L'inizio del buio di Walter Veltroni in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storia italiana. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817055888
eBook ISBN
9788858627631
Argomento
Storia
A Vittorio,
che non ha fatto in tempo a raccontarmi
quello che raccontava agli altri
Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra,
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore.
Alda Merini,
La Terra Santa, 1983

L’inizio del buio

Uno

Penso a quando tutto è finito. Penso al momento in cui sono arrivati i netturbini del comune di Frascati. È l’alba calda di un giorno caldo di quel giugno caldo. A loro tocca lavorare, non saranno stati contenti. La temperatura è già oltre i trenta gradi e il punto di rugiada solo a 16.6. Non si prevede pioggia e all’orizzonte non c’è neppure un temporale. L’erba è secca, come bruciata.
I netturbini sanno che non è solo il caldo ad averla ridotta così. Sono state le scarpe – mocassini e zoccoli, infradito e adidas – che hanno calpestato mille volte un diverso fazzoletto di terra. Ventimila persone, quarantamila scarpe, in uno spazio ridotto, piccolo come un giardino di casa in città. Ci saranno passate e ripassate, su ogni metro quadrato. E ora che sono andati via quasi tutti, ora che sono rimasti solo vigili del fuoco amareggiati e carabinieri che si detergono il sudore togliendosi il berretto, ora quella terra che non si vedeva, che bruciava in silenzio, senza fiamme, per l’attrito di piedi vagabondi, appare nuda e solitaria. Un vento fastidioso, caldo e inutile, agita e solleva migliaia di pezzi di carta. Frammenti di confezioni colorate di gelati, involucri argentati di sigarette, fogli con appunti, calcoli e disegni approssimativi, giornali con titoli cubitali e fotografie di quel luogo dove essi stessi, stropicciati, volano. Come un film nel film. Come un quadro che raffigura il pittore che dipinge quel quadro.
Il caposquadra, al quale la pensione deve apparire come il traguardo al maratoneta Dorando Petri, afferra uno dei fogli che volteggia nell’aria. C’è scritto, su tutta la pagina, «Basta, non ce la faccio più». L’uomo si appoggia alla ramazza e fissa quei due buchi nella terra arsa. Sono diversi da come li aveva immaginati, nelle lunghe ore trascorse con sua moglie, giorno e notte, davanti al televisore. Immaginati, perché non si vedevano. C’erano solo tante persone, un mare disordinato di persone, teste che si giravano, si piegavano, si scuotevano. Gente inutile, perché contava solo uno, di quelle migliaia, il più piccolo.
Un bambino che ora, mentre l’uomo riprende a fatica a ripulire l’area, è ancora lì sotto. E a lui sembra assurdo stare a spazzare via le carte delle gomme americane e raccogliere i vetri rotti delle bottiglie di aranciata mentre poco lontano quella creatura dorme a sessanta metri di profondità, più vicino all’acqua che alla terra. Il caposquadra si scopre, come uno stupido, a raccomandare ai suoi ragazzi di far piano. Come se si potesse svegliare, il cucciolo Alfredo.
Come era finito là sotto? Nella sua caduta non c’è nulla della gioiosa sorpresa di Alice che, guardando le pareti del pozzo in cui era precipitata, «si accorse che erano piene di credenze e di scaffali» e si domandò: «Chissà se attraverserò tutta la terra. Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù! Mi pare si chiamino gli Antipati». Alice, che quando si fermò lo fece nel modo più dolce: «D’un tratto – bum bum – arrivò proprio al fondo e si trovò sopra un mucchio di foglie secche. Aveva finito di cadere». Ma questa è una favola, una delle più belle che siano mai state immaginate.
Non c’erano scaffali e credenze, né marmellate di arance, nel pozzo dove cadde Alfredo. Era il peggior luogo dove qualcuno potesse trovarsi. Le pareti erano di pietra dura e quando il bambino si fermò, non lo accolse un mucchio di foglie ma fu uno spuntone di roccia a incastrarlo, in una posizione insopportabile, tanto lo spazio era stretto. Non attraversò tutta la terra, si fermò a trentasei metri. Sotto, l’acqua che scorreva. L’unica cosa simile alla favola di Alice è che, a un certo punto, anche là in fondo arrivarono gli Antipati. Erano degli uomini a testa in giù. Avevano i piedi legati, cercavano di salvarlo, condivisero il suo buio e il suo freddo. Ma furono sconfitti. Come tutti, proprio tutti, in questa vicenda. Perché quella di Alfredo, il cui nome in ordine alfabetico arriva poco prima di Alice, non è una favola a lieto fine. È una orrenda storia vera.
Sono trent’anni che, come tutti gli italiani, ho la sofferenza di quel bambino nella mente. E la sua voce nelle orecchie e nel cuore. Sono trent’anni che non riesco ad accettare il destino che ad Alfredo è stato riservato.
Ognuno ricorda quel bambino, ognuno ricorda quel luogo. Ognuno è in grado di rammentare dove era, cosa faceva. Ed è semplice. Perché un Paese intero si fermò, la vita di tutti si sospese. Perché in quei giorni non si parlava d’altro. Perché in ogni casa il televisore restò acceso per tutto il giorno e per tutta la notte. Perché Vermicino è diventato un luogo della nostra coscienza e Alfredino un nostro senso di colpa collettivo.
Quel bambino solo, piccolo, rannicchiato in quel mondo di un nero inconcepibile è stata la nostra moderna Caporetto. Non migliaia e migliaia di soldati sventrati dalle baionette o feriti a morte dal fuoco nemico. No, un bambino di sei anni, con una canottiera a righe bianche e blu e un paio di pantaloncini corti a scacchi bianchi e blu, caduto in un pozzo.
In quelle interminabili ore ci siamo resi conto che non eravamo invincibili. Che la nostra positivistica fiducia nel progresso, il sogno che razionalmente avevamo cullato ritenendoci in grado di dominare la natura e di poter aspirare a un mondo perfetto, fatto solo di scoperte e possibilità, era una illusione. Magnifica da vivere, terribile da stracciare.
Commentando su «Epoca» lo choc di tutta la nazione, Leonardo Sciascia scrisse: «È stata una notte come quella del primo sbarco sulla Luna: anche chi, come allora, non accese il proprio televisore, dalle esili pareti, dai sottili soffitti e, questa volta, anche dalle finestre aperte per il caldo, diventava il punto di convergenza degli audio intorno messi a tutto volume: assediato e da ogni parte colpito. Ma veniva, nel ricordo di quell’altra nottata, insistente il pensiero che si stava dolorosamente assistendo a una specie di contrappasso, di pena del contrappasso: il trionfo della tecnologia allora; la sua tragica sconfitta ora, davanti al pozzo di Vermicino. Si può andare sulla Luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo. Si possono annientare milioni di vite umane in un attimo; non si riesce a salvarne una sola in trentasei ore. Ne veniva un senso di angosciosa impotenza, di disperazione. Lo spavento che provava Pascal di fronte al silenzio degli spazi infiniti noi lo sentivamo ora davanti a un pozzo da cui la voce di un bambino invocava la salvezza. Il pozzo era il nostro infinito».
Il nostro infinito. Seguiamo la direzione dello sguardo di ciascuno, in quelle due diverse notti che gli italiani, tutti, passarono davanti a uno schermo acceso, in una specie di rito collettivo. Perché ognuno di quei due eventi aveva dentro di sé un colore prevalente, un significato, un messaggio. Perché in quelle due notti tutti abbiamo compiuto un viaggio della coscienza. Dalle nostre case verso la Luna. Dalle nostre case verso un pozzo. Ma quello che conta, come sempre, è la direzione dello sguardo.
Si aprivano le finestre, mentre la televisione costruiva la magica attesa. Entrava aria calda, in quella notte di luglio del 1969. E credo che mai come in quelle ore la Luna sia stata riempita di sguardi. In ogni parte del mondo ci si accorse che era bello guardare in su, sapere che nulla era impossibile, neanche la realizzazione di un sogno che era stato coltivato per generazioni. Potevamo colonizzare la Luna, uno di noi avrebbe messo il suo piede lì, dove Ariosto, Verne e gli antichi greci avevano proiettato i loro sogni e impegnato la loro fantasia. Eravamo cavalli alati, cavalieri invincibili ai quali tutto è permesso.
La notte di Vermicino, invece, il nostro sguardo si abbassò. Scese verso un pozzo invisibile agli occhi. E si fermò, desolato. Perché quel bambino indifeso e solo, che avremmo voluto raggiungere e portare con noi in superficie, alla salvezza, alla luce del sole, era ancora più giù. Era a contatto con il ventre profondo di madre terra. Il luogo più inesplorato, misterioso, inquietante che il nostro pensare potesse pensare. Era nel nero, non nell’azzurro del cielo.
Remo Bodei ha dedicato una sua magnifica opera al rapporto tra gli umani e il sublime. Raccontando come il desiderio di conoscenza e di scoperta dei vulcani, delle foreste, dei deserti sia stato mosso, nella storia, non solo da una crescente coscienza della loro bellezza ma dall’idea di una nuova relazione tra l’essere umano e lo spazio, tra l’essere umano e la natura. Quei luoghi erano originariamente il territorio delle paure: il timore dei vulcani, l’imponderabilità degli oceani, l’invivibilità dei deserti. Erano loci horridi. La storia, come storia di scoperte, conquiste e viaggi, ha sostituito al terrore il fascino, al timore l’attrazione. Ha scritto Bodei: «Quando scalo ripide e alte montagne, quando affronto la navigazione o i viaggi di scoperta in mari e territori sconosciuti, quando mi inoltro in foreste primordiali e fittissime, quando attraverso sterminati deserti, quando mi avvicino a vulcani in eruzione, io misuro le mie capacità di resistere all’avvilimento e alle intimidazioni».
In cielo c’è Dio, in fondo alla terra il diavolo. L’iconografia religiosa e letteraria ci rimanda queste due dimensioni opposte. Colori opposti, sentimenti opposti. E in ciascuna di quelle due notti che gli italiani hanno trascorso idealmente insieme, si è viaggiato proprio in queste due dimensioni. E il contrasto le rende, l’una e l’altra, indimenticabili. Milioni di esseri umani hanno vissuto la stessa esperienza di conoscenza e di emozione. E l’hanno vissuta nel buio, nella straordinarietà di un evento capace di sottrarre chiunque alla più necessaria delle pause, il riposo. Una notte in bianco si ricorda per un tempo lungo. Perché è il tempo senza linea d’ombra, senza la scansione del chiaro e dello scuro, dell’inizio e della fine. Perché è una sfida con se stessi, che solo qualcosa di grande, come un amore, una prova, un dovere assoluto, riesce a giustificare. Qualcosa di grande, come un bambino piccolo.
Quel mercoledì 10 giugno, l’anno era il 1981, verso le sette di sera Alfredo Rampi correva attorno al padre. Era felice, leggero come può esserlo un bambino di sei anni che ha terminato la scuola ed è libero di muoversi in spazi aperti, senza alcun obbligo. Alfredo era un bambino allegro. Tutti me ne hanno parlato così. È difficile immaginare tristezza a sei anni, lo so. Ma lui avrebbe avuto qualche ragione per coltivare paura e malinconia. Di lui si erano occupati, da quando era nato, dei signori austeri col camice bianco. Tante volte gli avevano preso il sangue dal piccolo braccio, lo avevano messo davanti a una strana macchina che fa delle fotografie tutte nere, gli avevano appoggiato sul torace dei minuscoli apparecchi che facevano sentire il battito del suo cuore. Qualche volta, lui se ne era accorto, scuotevano la testa e aveva sentito uno di loro mentre diceva a sua mamma: «Alfredo può avere bisogno di aiuto». Una volta i suoi genitori gli avevano parlato di un viaggio in un posto lontano dal quale sarebbe tornato guarito e i signori col camice bianco non avrebbero più dovuto occuparsi di lui. C’erano già andati lì, a far visitare il bimbo, quando era più piccolo, e gli avevano detto che bisognava aspettare che il suo cuore diventasse grande, ma questo non sarebbe mai successo. Secondo la mamma, la signora Franca, «Alfredo si doveva operare a settembre anche se io avevo sempre qualche riserva in quanto lo vedevo vivere bene e mi era stato detto che l’operazione comportava un certo rischio, nell’ordine del 30 per cento. Ero talmente preoccupata che reperii dei libri alla Biblioteca nazionale e poi al Gemelli, nonché al Policlinico, per poter meglio scegliere il luogo in cui farlo operare e anzi decidere se farlo operare».
Era magrolino, mangiava poco. La mamma lo ricorda ancora oggi come un bambino dolce e gentile, a cui piaceva andare alto e veloce sull’altalena. Visse senza nessuna gelosia l’arrivo di un fratellino, Riccardo, nato quattro anni dopo di lui. La signora Brunetti, la maestra della scuola materna Fratelli Bandiera, rammenta che ogni tanto le labbra gli diventavano scure. Aveva una malattia dal nome complicato. Era afflitto, fin dalla nascita, dalla tetralogia di Fallot. Che sembra un’opera musicale o uno spettacolo teatrale in quattro recite. Ma in verità è una sindrome, individuata alla fine dell’Ottocento da un medico francese, che si compone di quattro elementi di anomalia che interessano il cuore e che hanno conseguenze sulla ossigenazione del sangue. Per gli effetti che determina nelle sue fasi acute è nota come «Sindrome del bambino blu». Un medico al quale ho chiesto di spiegarmi nel modo più semplice di cosa si trattasse mi ha detto: «Si respira male, tutto fa fatica. È come se si portasse sulle spalle uno zaino di trenta chili». È una malattia che si riscontra in tre persone ogni diecimila nati vivi. Tre, solo tre.
Correva piano, ma felice. Lo immagino mentre zompetta attorno al padre. Un brav’uomo, Ferdinando. Un operaio dell’Acea che si era fatto in quattro per diventare impiegato, e ci era riuscito. Andavano l’estate a Vermicino, un luogo sospeso tra Frascati e Roma, per far prendere ad Alfredo «un po’ di aria buona». L’aria buona, lontano dal rumore della città, lontano dallo smog, dai tubi di scappamento, dai riscaldamenti a carbone. L’aria buona di quella campagna che stava diventando città, a forza di costruire case abusive, di cercare acqua e luce in maniera estemporanea, di praticare ciò che poi sarebbe diventato legge non scritta: le regole, la programmazione, la contemperazione dei diritti sono un orpello, una noia, una pretesa ingiustificata. Ognuno ha il diritto di fare ciò che ritiene essergli utile, magari con l’autoassoluzione di un titolo morale contraffatto. È così che si può pensare di costruire un pozzo artesiano, in pochi giorni, per cercare l’acqua e averla subito e gratis. Lavori furtivi, approssimativi, senza che nessuna delle regole previste sia rispettata. Pozzi lasciati ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Qualche riflessione di Eugenio Borgna