La furia dell'azteco
eBook - ePub

La furia dell'azteco

  1. 660 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La furia dell'azteco

Informazioni su questo libro

Il Messico all'inizio dell'Ottocento fa ancora parte di quel territorio chiamato "Nuova Spagna": un luogo in cui gli spagnoli frustano a sangue gli indios che si oppongono al loro dominio e solo i diritti dei padroni sono rispettati. A Guanajuato il caballero Juan de Zavala vive nel lusso, seduce le donne più belle, è presuntuoso e spregiudicato. Fino al giorno in cui scopre di non essere fi glio di nobili spagnoli, bensì di indios. Accusato di crimini che non ha commesso, Juan fugge in Spagna e si unisce ai patrioti che combattono Napoleone. È solo l'inizio di una serie di audaci avventure che lo porteranno, di ritorno in America, a lottare al fi anco degli indios contro gli oppressori, e a scoprire che la nobiltà vera non sta nel nome che si porta, ma nelle azioni che si compiono

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817016247
eBook ISBN
9788858625750

Premessa storica

In un’epoca in cui padroni brutali frustavano a sangue chi si opponeva al loro dominio, due eroi straordinari si distinsero.
Il primo era un prete guerriero che accese le passioni di milioni di aztechi oppressi.
L’altro era un famigerato bandito, ben noto su due continenti per la sua fama di spadaccino e donnaiolo.
Insieme questi due uomini fecero vacillare le fondamenta di un impero, e accesero un calderone di fuoco e sangue.
La storia del prete è illuminata dalla luce della verità, ma neppure gli angeli sanno se davvero Don Juan de Zavala, principe dei ladri, abbia detto la verità quando si vantava che nessun hombre stesse dritto in sella, brandisse la spada o accendesse il desiderio donne meglio di lui.
Per comprendere come questo furfante abbia trovato la propria redenzione e come il prete abbia potuto accendere la torcia della rivoluzione, bisogna tornare indietro nel tempo, fino all’epoca in cui l’Europa si inginocchiava di fronte al corso Buonaparte e solo lo zar di tutte le Russie governava un territorio più ampio di quello del viceré della Nuova Spagna.


Dopo la scoperta e la conquista del Nuovo Mondo, la Spagna divenne la più grande potenza militare della terra, un impero su cui non tramontava mai il sole. Ma poi tre secoli di guerre e di sovrani inetti fecero sì che l’impero finisse sotto assedio su entrambi i continenti.
«Nuova Spagna» era il nome dato dalla madrepatria alla più ricca delle sue colonie, una vasta regione che comprendeva quasi tutto il Nord America.
Nei primi anni del diciannovesimo secolo, la Nuova Spagna raggruppava ciò che oggi è l’ovest e il sud-ovest degli Stati Uniti (California, Nevada, Arizona, Nuovo Messico, Texas eccetera), oltre al Messico e alla maggior parte dell’America centrale.
Il cuore economico, politico e finanziario della Nuova Spagna era Città del Messico, la regina del Nuovo Mondo, in grado di rivaleggiare con Madrid, Parigi e Roma per ricchezza e cultura. L’intera provincia della California nel suo complesso comprendeva quindicimila anime, mentre la capitale della colonia ne raccoglieva dieci volte di più, e ben un milione e mezzo di persone vivevano nella valle circostante.
Nella lontana Madrid il re nominava il viceré della Nuova Spagna scegliendolo tra i nobili del regno. Il viceré era un autocrate che governava con il pugno di ferro.
Oltre al viceré la colonia giaceva sotto il tallone dei gachupínes, «coloro che portano gli speroni». Quel nome si riferiva al potere detenuto sulla colonia dagli spagnoli nati in Europa. In genere costoro arrivavano in Nuova Spagna, si trattenevano il tempo necessario per fare fortuna e poi ritornavano nella madrepatria con il bottino accumulato.
Mentre i peones della Nuova Spagna soffrivano sotto il giogo di chi portava gli speroni, il popolo spagnolo si sollevò per scacciare gli invasori francesi dalla propria terra, creando un nuovo tipo di guerra in cui uomini e donne combattevano eroicamente contro l’esercito migliore del mondo: la guerriglia.
Mentre la Spagna vampirizzava le colonie per finanziare le proprie guerre, le voci di pochi uomini coraggiosi si levarono per mettere in discussione un sistema politico nel quale i tiranni gachupínes detenevano tutto il potere e colpivano a sangue chiunque osasse opporsi. Ma quel grido di libertà non sarebbe arrivato dai ricchi mercanti e dai proprietari terrieri.
La guerra che avrebbe trasformato la Nuova Spagna in un calderone di fuoco e sangue fu una rivolta degli aztechi.
L’uomo che riuscì a suscitare le passioni degli indios, e ad accendere la loro rabbia dopo tre secoli di violenta oppressione, non era un soldato, ma un semplice parroco di campagna.
Ironia della sorte, l’uomo che cavalcò a fianco del prete coraggioso era un caballero che si vantava di non aver mai letto un libro in vita sua, e di avere avuto come maestri di vita cavalli, spade e puttane.
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Le avventure di questo eccezionale cavaliere errante, dai campi di battaglia e dalle alcove d’Europa a quelle del Nuovo Mondo, dalle antiche rovine circondate dalla giungla alla splendida Barcellona, perla del Mediterraneo, sono raccontate da Juan de Zavala in persona.
Tuttavia il lettore è subito avvertito: molti sostengono che Don Juan fosse nato per finire sulla forca, e che lui e la verità siano sempre stati due estranei.

Chihuahua

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«¡Cornudos! ¡Hijos de la chingadas!» gridai attraverso lo spioncino nella mia cella. Dare dei cornuti e dei figli di puttana alle guardie attirava quasi sempre la loro attenzione.
Assestai anche un bel calcio contro la porta.
«Portatemi la colazione, cabrones.» Quello era il mio insulto preferito. Cabrón vuol dire «caprone», un uomo che permette ad altri uomini di fornicare con sua moglie. Un insulto del genere è un colpo al cuore di ogni macho, non vi pare?
Diedi un altro calcio alla porta.
Be’, non è che avessi proprio fame. In realtà avevo appena sentito i passi di un plotone di esecuzione nel cortile della prigione appena oltre le mura della mia cella, e quel rumore mi aveva accelerato il battito del cuore. Mi aveva ricordato che presto anch’io avrei ballato una cilena de muerte, una danza d’amore e di morte, ma i miei volteggi e il turbinio dei miei fazzoletti sarebbero stati a beneficio del boia invece che di una bella señorita.
Oltre lo spioncino apparve il volto di una guardia. «Bastardo, mangerai merda per colazione.»
«Señor caprone, portami un piatto di carne e una caraffa di vino, se non vuoi che tua moglie sappia finalmente cos’èè un vero uomo, prima che io ti bruci la casa e ti rubi il cavallo.»
La guardia corse via e io tornai a sdraiarmi sul pagliericcio. Nella cella ristagnava un odore di vino stantio. I monaci che l’avevano abitata quando la prigione era un convento dovevano aver tracannato troppi boccali.
Come Città del Messico – la capitale della colonia, a diverse settimane di viaggio verso sud – la città di Chihuahua sorgeva in mezzo a una pianura, circondata quasi completamente dalle montagne. Il suo nome ufficiale era San Felipe de Real el Chihuahua, ma era nota semplicemente come «la Signora del deserto».
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A quasi millecinquecento metri di altitudine sul livello del mare, la pianura non era umida e verde come la Valle del Messico, bensì bruna e arida, coperta di arbusti spinosi, nonostante le cime incombenti della catena della Sierra Madre fossero imbiancate di neve. In nahuatl, la lingua degli aztechi, Chihuahua significava «luogo asciutto e sabbioso».
Una fossa dei serpenti asciutta e sabbiosa, per un uomo condannato a morirvi.
Attraverso le inferriate della finestra udii il singhiozzo di un uomo proveniente dal cortile. Mi tappai le orecchie con le mani. Odiavo sentir piangere un uomo.
Alcuni spari rimbombarono. Sussultai, avvertendo la vibrazione prodotta dalle palle di moschetto che colpivano la parete di pietra. Attraverso le inferriate mi arrivò l’odore acre della polvere da sparo.
Con un salto, mi aggrappai alle sbarre della finestra e gridai: «¡Cabrones! ¡Cago en laches de madres!». Cago nel latte di vostra madre.
Quei caproni non avrebbero mai avuto la soddisfazione di sentir piangere Don Juan de Zavala.
Mi sedetti di nuovo e mi asciugai il sudore dalla fronte con una lurida manica della camicia. L’afa di agosto penetrava nella mia cella attraverso la stessa finestra da cui provenivano i rumori della sofferenza e della morte.
Mi chiesi chi era l’uomo appena morto dall’altro lato del muro. Era forse un compañero che aveva cavalcato con me?
Avevamo messo a ferro e fuoco il mondo intero.
Chiusi gli occhi, mi presi la testa fra le mani e ascoltai i passi cadenzati di un altro plotone di esecuzione.
Avevo visto la guerra su entrambi i continenti, gente comune animata da grandi passioni ergersi a petto nudo contro il bagliore assassino delle raffiche di moschetto. Avevo sentito la terra tremarmi sotto i piedi per l’avvicinarsi fatale dei cannoni, il sole oscurato da nuvole turbinanti di fumo nero di polvere da sparo che alla fine si posa su campi di morte cremisi...
Ovunque dolore e morte.
Udii di nuovo il crepitio dei moschetti, e tornai alla finestra. «Mirate dritto, orbi figli di puttane sifilitiche! Io ci sputo sulla morte!»
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No, nessun uomo di buonsenso vuole morire. Ma io lascerò questa vita sapendo che il mio nome e le mie gesta non moriranno con me, ma continueranno a risuonare nei secoli. Gli uomini scriveranno canzoni sulle mie ultime ore. Le donne piangeranno per le ingiustizie commesse ai miei danni e per il mio indomito coraggio nello sfidare la morte, sputando in faccia mille volte alla grande Mietitrice, senza conoscere la paura.
«Don Juan de Zavala era mucho hombre» grideranno, con gli occhi pieni di lacrime.
E io sono davvero mucho hombre. Nessun uomo nella Nuova Spagna sta più dritto in sella, abbatte un falco in volo con un’unica pallottola, para un colpo di spada o soddisfa i desideri più segreti di una donna meglio di me.
Certamente confessare tutte le mie colpe richiederebbe moltissime ore. Non sarebbe la prima volta che un prete concede il perdono divino alla mia anima carica di peccati mentre il boia prepara i suoi strumenti. Ma il loro errore sta nel credere che io abbia un’anima da salvare o da dannare; dicono che sono un avanzo di galera, nato con il cappio al collo, e i piedi sopra la botola del capestro.
Le mie nefandezze sono infinite, ma la macchia più nera sulla mia anima è quella di essere rimasto a marcire nella cella dimenticata da Dio di un monaco ubriaco morto mentre i miei carcerieri tentavano di estorcermi un segreto. Né i noiosi interrogatori delle guardie, né le feroci sentenze dei giudici, né gli strumenti di tortura degli inquisitori sono riusciti a sciogliermi la lingua.
Ma le pareti di questa cella mi hanno impedito di ottenere la vendetta che mi spettava. Ed è quest’ultima faccenda lasciata in sospeso ad accendere la mia ira, non le pallottole che tra poco mi trapasseranno il cuore.
Nonostante i miei crimini, sono un uomo d’onore: non ho mai rubato ai poveri, non ho mai preso una donna contro la sua volontà e non ho mai ucciso un uomo disarmato. Ho vissuto secondo il codice del caballero, un misto di briganteria e onore cavalleresco. Secondo quel codice non posso scendere nella tomba prima di aver ripulito il mio onore da quella macchia.
Statene certi: prima che io muoia, qualcun altro renderà l’anima al diavolo. Qualcuno che mi ha tradito. Una volta sistemata questa faccenda, andrò incontro con gioia ai moschetti del plotone di esecuzione: forse acchiapperò addirittura le pallottole tra i denti e le risputerò fuori.
Come è potuto accadere che Don Juan de Zavala – gentiluomo e caballero, abile nei duelli con la pistola quanto nelle stanze delle donne – sia finito in gabbia come una bestia, dentro una cella umida, in attesa del rullo dei tamburi e del plotone d’esecuzione? Come è stato possibile che un uomo di desideri e passioni mondane, un noto furfante autore di mille imprese infami, si sia ritrovato a marciare spalla a spalla con un prete che sognava di liberare tutti gli uomini? Come è possibile che la mia spada insanguinata abbia combattuto a fianco della sua santa croce?
Se devo dire la verità – molti obietterebbero che il più delle volte io e la verità siamo due estranei – mentre il buon padre piange per la rovina di una nazione, i miei rimpianti sono di natura più carnale. Mi mancherà giacere a letto accanto a una donna e contemplare il suo seno nudo che si alza e si abbassa mentre dorme... un buon sigaro Avana e un sorso di Jerez... il vento sul viso, la potenza di un grosso stallone sotto le mie gambe... ah, amigos, mi mancheranno molte cose...
Ma basta così, i rimpianti li lascio alle vecchiette. Volete sapere in che modo un parroco di villaggio si è trasformato in un feroce rivoluzionario e un bandito fuorilegge è diventato un visionario idealista? Come un prete dentro il confessionale, avete voglia di ascoltare i miei peccati? Gli uomini che ho ucciso, le donne che ho amato, le fortune che ho accumulato – e rubato?
E la mia anima peccatrice? Come scoprirete ben presto, la gente non sempre è ciò che sembra. A volte un peccatore è un santo, e un furfante un eroe. In questa terra di malfattori, a volte ci vuole un malfattore figlio di puttana per compiere atti a cui un santo non sarebbe nemmeno capace di assistere.
La gente non sempre è ciò che sembra.
La mia è una lunga storia, che ci porterà dalla colonia chiamata Nuova Spagna alle Americhe, alle guerre di Napoleone in Europa e poi di nuovo al punto di partenza. Solo chi era presente può raccontarla.
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Venite dunque, siate il mio confessore, prestatemi orecchio mentre vi conduco in luoghi dorati di cui non avete mai udito parlare, alla presenza di donne e tesori al di là delle vostre fantasie più sfrenate, mentre metto a nudo la mia anima e vi rivelo segreti ignoti al mondo dei vivi.
Eccovi dunque l’autentica confessione di Don Juan de Zavala, brigante e caballero.

Figlio di puttana

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Capitolo 1

Guanajuato, Nuova Spagna, 1808

¡Ay! Mi svegliai di scatto in un bagno di sudore, in preda al panico. Branchi di mastini infernali ringhiavano alle mie calcagna, le bestie assassine che secondo il prete avrebbero trascinato la mia nera anima peccatrice nel fuoco eterno. Sentivo perfino le fiamme bruciarmi la carne.
Avevo i peli irti sul corpo, le membra scosse da un tremito convulso.
Non avevo mai incubi. La paura non interferiva con il mio sonno o i miei piaceri. Avevo venticinque anni, cavalli purosangue, lame insanguinate, sottane profumate e bottiglie di brandy erano le uniche passioni della mia vita.
Caballos y mujeres, pistolas y espadas – cavalli e donne, pistole e spade – erano tutto ciò che interessava un giovane caballero come me. Il mio orgoglio non era la conoscenza che si trova sui libri – come per i preti o gli studiosi – ma la mia abilità nello stare in sella e nello sfiancare la mia cavalcatura, fosse uno stallone ribelle o una donna scatenata.
In epoche passate i cavalieri combattevano nei tornei per il predominio sui propri pari e per l’amore delle donne. Armature e lance hanno lasciato il posto a moschetti e cannoni, ma i requisiti del caballero sono rimasti gli stessi: egli deve guadagnarsi il rispetto degli uomini e l’ammirazione delle donne grazie alla propria abilità nel combattere e nel cavalcare. Un uomo in grado di abbattere un falco in volo in sella a uno stallone in carica o di afferrare il toro per le corna nel momento della verità era chiamato El Hombrón, capace al tempo stesso modo di difendere l’onore di una donna e di innaffiare il dolce giardino tra le sue gambe.
Pur essendo cresciuto nella Nuova Spagna, non sono nato nella colonia. Il mio primo vagito ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La furia dell'azteco