Donna in guerra
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Donna in guerra

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Donna in guerra

Informazioni su questo libro

Vannina, una giovane maestra, durante una vacanza nel napoletano si scontra con una realtà, estranea al suo mondo di gesti abitudinari e passivi, che la costringe a una lenta e sofferta presa di coscienza che la porterà, alla fine, alla decisione di abbandonare il marito e andare a vivere da sola. Il racconto è l'occasione, per Dacia Maraini, di trattare brucianti temi d'attualità, come l'immobilismo della scuola, la violenza delle istituzioni, la corruzione della cultura, visti attraverso gli occhi di una donna.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817106184

1° agosto 1970

Giacinto è andato a pescare. Si è alzato alle sette. Prima ancora di lavarsi la faccia ha allineato per terra i suoi attrezzi da pesca; li ha puliti uno per uno con lo straccio intinto nel petrolio.
Abbiamo preso il caffè in cortile, all’ombra dei banani. I vicini dormono ancora. È domenica. Giacinto si è infilato il costume da bagno nero. Ha inghiottito l’ultimo boccone di pane intinto nel latte. Si è avviato verso il portoncino che dà sulla strada. L’ho guardato camminare: la pelle bianca, farinosa, le lunghe gambe coperte di ricci biondi, la nuca sparuta, le spalle magre. Ha l’aria di un ragazzo indeciso e solitario.
— Che vuoi da mangiare?
Non mi ha risposto. Se n’è andato facendo dondolare il grosso sacco di tela gialla contro il polpaccio.
Mi sono vestita. Ho pulito la casa. Ho messo a posto il baule, tirando fuori la roba per la pesca: tute di gomma, fucili, arpioni, coltelli, maschere, boccagli, pinne, e una griglia per cuocere il pesce.
Quando ho finito erano le dodici. Avevo ancora da preparare i peperoni ripieni. Dovevo pulire l’insalata. Mi facevano male le gambe. E avevo una fitta ai reni. Mi sono buttata su una sedia a sdraio in cortile, la testa all’ombra, le gambe al sole.
Mi sono addormentata. Ho sognato che una talpa scavava un tunnel nel mio ventre. Mi sono svegliata con una fitta, un dolore sordo e fondo. Qualcosa di caldo mi bagnava le cosce. Ho cacciato una mano sotto la gonna. L’ho ritirata macchiata di sangue.
Ho respirato a fondo per vincere quel senso di tensione al ventre. Non avevo voglia di alzarmi. Ho lasciato che il sangue colasse, dolce, tiepido. Dopo dovrò lavare la tela della sedia, mi dicevo. Dovrò strofinarla col sapone. Dovrò metterla ad asciugare. Dopo. Non avevo voglia di mettermi in piedi. Ho chiuso gli occhi. Il sole batteva vischioso e bruciante sulle gambe nude.
Così comincia la mia vacanza: un rivolo di sangue benefico, la gioia di stare all’aperto, l’odore pungente del basilico. La scuola è lontana. Giacinto tornerà piú tardi coi pesci. La casa è in ordine. Le camicie da stirare, il sugo da preparare, le pentole da pulire, sono rimandati a stasera. Ora non voglio pensare a niente. Sono contenta.

Ore 24

Abbiamo mangiato il primo pesce pescato da Giacinto: uno scorfano dalla pelle a macchie marroni, arcigno, bellissimo. Poi ci siamo stesi sulle sdraio in cortile, a guardare il cielo fitto di stelle, la televisione dei vicini nelle orecchie.
Sono napoletani questi vicini, passano il tempo a litigare. Non so quanti sono. Gli strilli dei bambini vengono interrotti ogni tanto dalla voce roca di una donna.
Quando non litigano giocano al pallone. Questo pallone oggi è caduto diverse volte nel nostro cortile. La prima volta ho tardato a rimandarglielo e sono arrivati in cinque; hanno messo sottosopra il cortile, pestando con gli zoccoli le piantine di basilico, stroncando i rametti del pomodoro. Ora quando vedo il pallone cadere dalla nostra parte, glielo rilancio subito; lascio quello che ho in mano per correre a prenderlo.
Alle dieci mi sono messa a sparecchiare. Ho lavato i piatti. Ho sgrassato le pentole. Ho sciacquato i bicchieri. Ancora non mi sono abituata alla cucina stretta e lunga col pavimento di mattonelle rotte.
La casa che abbiamo affittato assomiglia a un girino, tutta testa e niente corpo: una stanza da letto con due finestre, una cucina buia, niente bagno. Il gabinetto è un buco sudicio: per lavarsi bisogna adoperare il lavello o il tubo per innaffiare.
In compenso abbiamo un bellissimo cortile, chiuso dentro un muro alto tre metri, segreto come un giardino arabo. Ci cresce il basilico, l’erba medica, la mentuccia, il pomodoro. E poi ci sono anche i gerani, bianchi e violetti, le zinnie, e gli anemoni.
Da una parte si levano due aranci dal tronco grigio, le foglie verdissime. Fanno piccole arance dure, amare. Addosso al muro che dà sulla strada c’è un fico alto e folto. I suoi rami storti arrivano a superare di un braccio la divisione di mattoni.
Al centro, come un cuore verde e lucido, un gruppo di banani. Lustri e pallidi, si muovono con un rumore di gomma strusciata.

2 agosto

Giacinto è uscito alle sei. Due vespe hanno continuato a svolazzare attorno allo zucchero. Ho pulito il gabinetto che puzzava. Ho aggiustato la tenda nera che divide la cucina dalla stanza da letto.
Alle undici sono andata a fare la spesa. Il mercato è vicino, sulla strada che scende verso il porto.
Guardavo una vetrina stretta, stipata di pagnotte, pizze bianche, biscotti di granoturco. Una mano mi ha toccato la spalla.
— Il pane qui non lo devi comprare.
— Perché?
— Questo Mimì ammazzò la moglie con una forchetta e poi dopo undici anni di galera si sposò una puttana coi denari per sfregio.
— Ma io devo comprare il pane.
— Se il pane è toccato da mani avvelenate è puresso avvelenato no? Mimì sposò per paura del fratello di latte che da sotto terra lo invaghiva, coi denari si comprò un negozio, capito?
Era una donna grassa e tozza, la faccia scomposta, gli occhi insolenti, divertiti. Mi ha afferrata per il braccio. Mi ha accompagnata ad un’altra bottega. Camminava al mio fianco contenta, sostenuta.
— Sei del paese?
— Nata qui e vivo qui, vado a ore per le pulizie, mi chiamo Tota e tu? fai servizio pure tu? a ore o intero?
Ha voluto offrirmi un gelato. Grosso, di pistacchio e panna. Poi mi ha accompagnata fino a casa.
— Abiti qui, insomma fai la villeggiatura da povera, questa è la casa di Pisciancapo, perché la paura lo fotte, non ha comodi la casa vostra, di bello c’è solo il cortile.
— Il padrone di casa si chiama Di Bartolomeo.
— Quanto pagate?
— Trentacinquemila.
— È troppo assai, vi mangia vivi sto fetente.
Se n’è andata camminando rigida. Ho tirato fuori la grossa chiave di ferro. Ho aperto facendo acrobazie perché non mi cadessero i pacchi. Ho spinto il battente col piede.
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Fra i pomodori ho visto un cartoccio giallo. Ho posato la spesa. Sono andata a raccoglierlo. Puzzava. Rigurgitava di interiora di pesce, gusci d’uova, bucce di frutta, carta straccia. Non poteva che venire dai vicini. Era sotto il loro muro.
Ho preso il cartoccio. Sono andata a bussare alla loro porta. È venuta ad aprirmi una donna anziana, ingoffata in un grembiule unto e strappato. Mi ha guardata con paura.
— È vostra questa roba?
Ha biascicato qualcosa. Se n’è andata. Per tornare seguita da una donna piú giovane che mi ha sorriso fredda. Mi ha invitata ad entrare. Ho rifiutato. Ero seccata. Ho chiesto anche a lei se quella roba apparteneva a loro.
— Roba nostra non è, faccia vedere.
Ha preso in mano il fagotto. L’ha rigirato fra le dita. L’ha annusato. Me l’ha restituito ripetendo «roba nostra non è».
— Ma non può venire che dal vostro cortile, è caduto proprio dove cade sempre il pallone.
— Le giuro di no, mi crede?
Mi guardava con protervia, sfrontata. Non ho saputo cosa rispondere. Poteva avere ragione dopotutto. La vecchia si è avvicinata piagnucolando. La donna l’ha cacciata via in malo modo. Poi, senza un saluto, mi ha chiuso la porta in faccia.

Ore 16

Giacinto dorme. Se ne sta rannicchiato tutto nudo sul letto, nascondendo il sesso fra le ginocchia. La schiena curva, la testa incassata fra le spalle, le gambe piegate esprimono una accanita difesa. Di che cosa, non lo so.
La schiena lentigginosa è coperta da peluzzi trasparenti che scompaiono all’altezza del sedere. Lì la pelle sembra piú nuda. Le lentiggini diventano molto fitte sulle due mezzelune rosate che fanno pensare a una faccia infantile: due guance fiduciose, sorridenti, e nascosta fra le pieghe grasse una piccola bocca rossa e capricciosa.
Mi chino a baciarlo. Si sveglia di soprassalto. Mi guarda con paura, quasi fossi venuta a rubargli qualcosa. Spalanca gli occhi scuri fatti ciechi dal sonno. Apre la bocca per parlare. Ma non parla. Ho l’impressione che mi odii.
Ma basta una tazzina di caffè per farlo tornare gentile, assorto, meticoloso come al solito.

Ore 22

Alle sette siamo scesi in piazza per prendere il gelato. C’era la famiglia dei vicini al completo: padre, madre, quattro figli, di cui due sposati, a loro volta padri e madri di nove bambini. La nonna succhiava il gelato piegata su se stessa. Mi ha vista arrivare. Ha smesso di succhiare. Mi ha seguita con occhi sospettosi, maligni. La madre ha sorriso con finta cordialità.
Ci siamo seduti in un angolo, all’ombra del gelso che sta a ridosso della fontana. Abbiamo ordinato due gelati.
— Ho scoperto una cernia e una murena, dove abitano dico, domani comincia la caccia, mi toccherà aspettare, il fondale è pulito, le rocce vanno giú a picco per una trentina di metri, ma non si fidano quelle stronze, hanno paura.
Non riuscivo a seguirlo nei suoi racconti sottomarini. Ero distratta dal viavai della piazza.
I tavolini sono occupati da grosse famiglie di villeggianti simili in tutto ai nostri vicini di casa. Donne grasse che parlano a mezza voce, guardinghe, pigre, furtive. Uomini flaccidi, panciuti, la camicia aperta sul petto peloso. Seguono con languida intensità tutte le ragazze che passano. Fanno commenti a voce alta.
I figli di questi genitori sono in genere asciutti, inquieti, la pelle annerita dal sole, il sedere in vista dentro pantaloni attillatissimi. Portano occhiali scuri e magliette dai colori squillanti.
Le figlie sono piú rotonde e piú guardinghe. Si muovono in gruppo, scontrose, impacciate, parlando a voce bassa fra di loro. Non si truccano, portano i capelli abbandonati sulle spalle, la gonna corta sopra le ginocchia. Ai piedi zoccoli altissimi.
I genitori se ne stanno seduti a chiacchierare ingollando gelati, birre, aperitivi. I ragazzi si agitano come pesci dentro una vasca. Escono a frotte dalla piazza. Rientrano alla spicciolata. Si seggono a bere. Ripartono a gruppi di cinque, di dieci. Afferrano le motociclette. Passano strombazzando in mezzo alla folla. Ricompaiono accompagnati da altri ragazzi con altre moto. Le appoggiano contro gli alberi. Si uniscono alle ragazze. Divorano un gelato alla panna. Ed eccoli dinuovo in piedi, pronti a correre via.
Gli stranieri si riconoscono da lontano. Hanno l’aria sperduta e felice. Vengono al bar così come vanno al mare, senza cambiarsi, un rettangolino di carta bianca incollato sul naso, sandali di gomma, braccia e gambe chiazzate di rosso.
I ricchi stanno chiusi nelle ville lungo il mare. Si vedono poco in paese. Per la spesa mandano i camerieri. E quando vogliono prendere un aperitivo vanno a Casamatta o a Porto Cane, dove attraccano i panfili.
Alle sette e mezza arriva un terzetto stravagante, buffo, con qualcosa di fuori moda: una ragazza paralitica molto bella, un ragazzo ossuto in completo bianco da tennis, una donna sui quarant’ anni dagli occhi languidi, accesi, una treccia grigia penzolante sul petto.
La ragazza viene avanti arrancando sulle stampelle. Gira intorno gli occhi limpidi provocatori. Veste di rosso. Porta dei gelsomini appuntati sui capelli.
Gli sguardi di tutti si fissano impietosi sullo strano terzetto. Qualche bambino scoppia a ridere apertamente. Ma i tre non sembrano offendersi. La ragazza si fa strada fra i tavolini battendo le stampelle sull’asfalto, la testa alta, le spalle muscolose, i capelli morbidi come una cascata fresca e selvaggia.
Si seggono. Ordinano granite di limone e dei biscotti. Parlano poco. Ogni tanto si rivolgono l’un l’altro in una lingua incomprensibile dai suoni gutturali.
Il rumore delle motorette era diventato assordante. Ho detto a Giacinto se non era meglio tornare a casa. Ma lui voleva restare.
— Il rumore mica lo sento, c’è o non c’è fa lo stesso.
— A me fa venire il mal di pancia.
— Sarà che ci sono abituato, in officina è molto peggio.
Parlava lentamente. Spingeva il cucchiaino nella coppa, dividendo la fragola dal pistacchio, con metodica cura.
Ho sentito dei gridi di sorpresa. Una famiglia di napoletani era in piedi e gesticolava. Ho alzato la testa. Un uomo dai capelli bianchi si era seduto ad un tavolo con una scimmia aggrappata alla spalla.
Tutti i ragazzi della piazza si sono accalcati attorno al vecchio. Volevano toccare la scimmia, sulla pancia, sulle zampe, sul sesso. E tirargli la coda, i baffi, i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Donna in guerra