
- 200 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Lettere a Marina
Informazioni su questo libro
Cara Marina… Così iniziano tutte le lettere che Bianca, da un luogo dove si è volontariamente ritirata, ogni giorno scrive all'amica. Sono lettere intime che forse non arriveranno mai a destinazione, o forse non saranno neppure spedite, lettere che mettono a nudo i ricordi di tutta una vita.Oltre a rievocare la sua lunga storia con Marina, Bianca racconta se stessa, l'amore per il padre, le tentazioni d'incesto con la madre, gli amori segreti, la vita di collegio, i sogni e gl'incubi, il dolore, la paura e la speranza.Un romanzo dalla scrittura complessa e sensuale che mantiene il suo fascino intatto negli anni.
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Informazioni
Cara Marina
sono qui in questo brutto appartamento finalmente sola il collo che mi fa male – lì dove hai piantato i tuoi denti di figlia – un pezzo di mare verde polveroso davanti agli occhi le dita sulla tastiera della macchina da scrivere un senso di festosa esaltazione. Perché sono qui? per scappare da te per finire il romanzo a cui lavoro ormai da due anni senza molta convinzione, per ritrovare una forza che ho perduto chissà dove e chissà quando nella sbadata corsa degli ultimi anni non lo so.
Non ti telefonerò. Ti manderò queste lettere e poi basta. Tu rifiuti di parlarmi e io mi rivolgo lo stesso a te senza che tu lo sappia scrivendoti queste lettere che non so neanche se ti manderò mai. Quando torneremo amiche se mai lo vorrai ci parleremo lasciando il sesso dentro un paniere appeso fuori dalla finestra.
Ma bisogna che ti racconti fin dal principio la nostra storia perché te la sei dimenticata. E forse io stessa l’ho dimenticata. E bisogna che ti racconti di me tutte le cose che non hai mai voluto sapere. Tu amavi una donna senza storia nata ogni giorno dalla pancia buia del tempo nuda e nuova per te.
Così ora sono qui lontana da te a parlarti di quelle parti di me che hai sempre ignorato e del nostro incontrarci e scontrarci come li vedo io una volta tanto con i miei occhi miopi e sbadati; di quella miopia e di quella svagatezza per cui tutti i racconti secondo te erano falsati irriconoscibili.
dp n="6" folio="6" ? Giorgia mi ha detto che le hai raccontato che io ti ho sedotta. E questo è vero. Una seduzione libertina che doveva bruciarci le viscere per poi lasciarci rotolare lontane.
Bisogna che ti racconti come è nato e cresciuto questo spinoso amore e quelle onde quello scendere e salire le scale e quel lavarmi sotto le ascelle pensando ad altro bisogna che cominci dal principio ci sto troppo addosso a questa storia con le gambe a mollo in una vischiosità lunare.
Cara Marina
stanotte ho sognato di prendere per mano una ragazza senza testa. Aveva una mano appiccicosa e tenerissima. Le parlavo anche se sapevo che non aveva orecchie per ascoltarmi. Le dicevo qualcosa a proposito di una marmellata di prugne che era venuta troppo aspra. Era una strana mutilazione la sua senza ferite. Una stoffa di organza a fiori le copriva il petto e finiva con un’arricciatura come la chiusura di un sacco al posto del collo. Sopra non c’era niente ma non sembrava che ne fossimo impressionate né lei né io. Era una ragazza bruna non di capelli perché non ne aveva ma bruna di pelle di mani di sesso una presenza scura e violenta che mi inquietava e mi incuriosiva con quel vestito gonfio e infantile quelle mani collose quel corpo esile bianco da cui sentivo fluire i pensieri che scivolavano dentro di me come se me li comunicasse attraverso le dita... Non so dove andavamo verso una casa mi pare la casa di chi? non lo so una casa che mi era nota e ignota nello stesso tempo con dei fiori violetti sul davanzale.
Mi sono svegliata con un senso di stupore. Non so se eri tu quella ragazza senza testa che tu anzi sei tutta testa e il cuore ce l’hai incastrato fra le pieghe del cervello fermo e tirannico.
Tu dici che vuoi ferirmi perché io ti rifiuto ma forse io ti rifiuto perché tu vuoi ferirmi. Non so cosa nasca prima se la tua voglia di mangiarmi e quindi la mia fuga oppure la mia fuga e quindi la tua voglia di mangiarmi.
Scappo per il tuo testardo e malandrino desiderio di farmi madre contro ogni mia voglia e madre cattiva rovinosa. Una madre ingiusta come tutte le madri che ama chi non dovrebbe (un figlio morto anni fa che ciondola inquieto nel suo ventre) e trascura chi ha più bisogno di tenerezza pronta a dare le sue premure alla più infelice delle figlie ma poi perdendosi dietro a quel flauto triste del membro bambino che ancora canta e chiama dentro di lei.
I gigli che mi hai mandato prima di partire un mazzo di corolle gigantesche fra il rosa e il bianco quei pistilli gialli polverosi quel profumo di un dolce così dolce da darti il capogiro mi hanno riportato alla memoria cose remotissime e perse. Un’estate lontana in Guatemala quando mio padre mi portava dalla sua innamorata una ragazza danese dagli occhi liquidi in un giardino pieno di gigli. Appena arrivavamo lei mi accompagnava sotto il porticato arioso mi metteva a sedere su una poltroncina di vimini con davanti un barattolo di miele e del pane nero. Lì rimanevo per ore aspettando i due innamorati che se ne andavano a spasso per il giardino o su in camera.
Quel miele sapeva di gigli e io mi ero convinta che la ragazza danese lo fabbricasse pestando coi piedi i fiori del suo giardino come si fa con l’uva. Per un’ora stavo lì a mangiare pane e miele fantasticando tranquillamente. Poi cominciavo ad annoiarmi ma non dovevo alzarmi perché mio padre mi aveva proibito di farlo. Allora cominciavo a immaginare che i due erano caduti in un burrone che erano stati inghiottiti dalle sabbie mobili che erano stati divorati dai coyote (la notte si aggiravano come cani randagi rovistando nelle immondizie vicino alle case) vedevo il bellissimo corpo di mio padre straziato coperto di sangue e cominciavo a tremare.
Ma perché mi hai mandato quei gigli? è un fiore che non ho mai capito: da una parte ha qualcosa di ospedaliero di eccessivamente nitido levigato sterile, dall’altra invece è morboso e carnale il suo profumo è stucchevole eccessivo. Si può dire che dal lontano Guatemala dei miei sei anni non avevo più avuto fra le mani un giglio. Come se tu lo sapessi mi hai mandato dieci gigli dalle teste leonine carichi di profumi struggenti. Ma cosa volevi dirmi? tu non fai mai le cose a caso e se mi hai mandato dei gigli significa che volevi comunicarmi qualcosa ma non so cosa. Forse volevi soltanto ricordarmi che esisti da qualche parte anche se lontano da me con la tua pancia di porcellana le tue braccia profumate i tuoi sensi allarmati.
Cara Marina
comincio da Marco o comincio da prima? Sai che pochi giorni prima di venire qui l’ho rivisto. Mi telefona: ho tante cose da dirti ci vediamo? dove? al solito posto dice lui dolcissimo che poi sarebbe piazza Sonnino, davanti al cinema Reale. Sai quante volte l’ho aspettato lì guardando la gente che scende dagli autobus: ogni minuto ne arriva uno le porte si aprono e io guardo le gambe delle persone che scendono dicendomi: questo no, questo no... anche se non conoscessi i suoi pantaloni marroni di vellutino a coste saprei come scende gli scalini di corsa con un fare insieme impacciato e rapido sfrontato e timido come a dire: eccomi qua sono io sono bello ho appena compiuto i venticinque anni sono pieno di appetiti di allegria amatemi forse vi darò qualcosa di me.
Ecco sono andata a piazza Sonnino e lui era già lì. Non era mai successo sempre io ad aspettarlo soprattutto da ultimo non arrivava mai puntuale: sai l’autobus si è fermato perché c’era un inizio di incendio sai qualcuno è stato derubato del portafoglio e l’autista non voleva fare scendere nessuno sai c’era un epilettico che ha cominciato a urlare forse era un lupo mannaro... inventava delle scuse sempre più fantasiose.
dp n="9" folio="9" ? Arriva e mi racconta del suo nuovo amore una donna di cinquanta anni che gli ha trovato un lavoro nel nuovo musical sulla vita di San Paolo dove lui canterà e ballerà con un’ottima paga... è esaltato sorride con grazia mi guarda fisso mi stringe le mani. Un anno fa avrei tremato di piacere. Ora ecco è solo una sensazione di perdita uno struggimento un vuoto. Il suo odore non mi sprofonda più nell’angoscia amorosa ma mi dà una sensazione un po’ inutile e penosa di libertà una libertà di cui non so che fare.
Ecco la morbidezza del ricordo. E tu dirai: smettila di parlarmi di questi maschi non mi interessa parlami di te. Ma poiché io ho amato Marco devo parlarti di Marco e poiché ti ho conosciuta nel momento in cui questo uovo di pavone si era rotto devo partire da lì da quell’involucro fragile che pure mi ha tenuta chiusa dentro il suo guscio rappresa ed ebbra per tre anni interi.
Cara Marina
in questo posto solitario dove sono scappata per non sentirti né vederti penso a te. Sono andata via da Roma di nascosto senza dire niente a nessuno. Ma so che mi scoverai. Hai la sicurezza di una sibilla e anche se resti chiusa nella tua casa coi gatti le piante di lavanda i libri i vasetti di marmellata i cuscini indiani basta che chiudi un momento gli occhi per sapere dove sono e cosa faccio.
La casa è minuscola e sa di caffè. C’è un filo di caffè che attraversa il palazzo di sei piani dal basso verso l’alto e non si spezza mai. Solo di notte diminuisce di intensità muore verso le quattro per riprendere vita alle sei e mezza del mattino. Sono al quarto piano. Dalla mia finestra vedo un campo di calcio che è anche un immondezzaio vedo un pezzo della strada che da T. va verso il sud. Il mare incastonato fra le case (ne vedo solo un pezzo tagliato brutalmente da una palazzina di otto piani) ha qualcosa di fisso di vitreo. Secondo il colore capisco che ore sono. Sai che non porto mai orologi. Li regalo questo sì. Ogni volta che mi innamoro regalo un orologio. Secondo il linguaggio dei simboli sarebbe il sesso femminile così dicono.
L’astuccio avvolto nella carta dorata il fiocco rosso. E quando le due mani amate lo aprono provo una sensazione di elettricità fra i seni un piccolo pugno doloroso. Non sono mai soddisfatta di come mi ringraziano. Non voglio ringraziamenti stupiti finti baci esclamazioni di gioia. Voglio qualcos’altro forse un attimo di terrore uno sbiancamento un venir meno un momento di gelo come se il tempo si fermasse e la carne si raggricciasse per la paura. Ecco forse voglio incutere paura regalando quel simbolico sesso femminile. Voglio inchiodarlo alla sua sorpresa. Un sesso di donna dai rubini semoventi fra le mani di un uomo. C’è un quadro di Dalà un paesaggio con degli orologi sbollentati sciolti distesi sulla sabbia appesi a un pezzo di legno sensuali e molli inquietanti. Ecco il mio regalo vuole ricordare che c’è qualcosa d’altro oltre il tempo sociale il ritmo scandito dalla macchina qualcosa di pericoloso e di profondo che da quel momento farà parte del corpo di chi porta l’orologio come un avviso un segno di all’erta.
Ho sistemato le mie cose (pochissime per la verità ) libri soprattutto il registratore delle carte un costume da bagno degli asciugamani nell’armadio a muro macchiato di muffa. Le tazze da cucina sono quasi tutte sbeccate. Le posate annerite. Ho passato la mattinata a pulire il bagno con soda e ammoniaca. La padrona di casa mi ha detto che prima di me ci stavano due napoletani marito e moglie con un acquario di pesci esotici. Ogni tanto li immagino abbracciati nel mezzo del grosso letto lì dove il materasso fa una buca vigilati dagli occhi argentei e fissi di un maculato pesce tropicale. Sulla testiera pende un rosario dai grossi chicchi di madreperla rosa. Ho pagato l’affitto per tre mesi ma penso che non resisterò più di una settimana.
Cara Marina
ho detto che ti avrei raccontato la nostra storia ma ogni volta sono distratta da altre cose. Ci siamo conosciute tu e io in casa di Alda e Bice ti ricordi? stavi seduta davanti a me sul divano basso e sentivo che mi guardavi con una curiosità incalzante quasi troppo esaltata. C’era già violenza nel tuo sguardo: una volontà delicata e ritrosa allegrissima di possesso.
Mi è subito piaciuta la tua allegria quel tuo esserci e non esserci dentro una realtà smisurata senza ombra di paura. Ho capito immediatamente che eri di un coraggio che sfiorava il delirio.
I piatti massicci bordati di rosso di Alda te li ricordi? e quel suo porgere i cibi mostrando i denti di coniglio in un sorriso quieto arreso. È così bella nella sua bruttezza con quell’intelligenza eternamente sorpresa lenta e nitida. Le cose noiose le liti il traffico il lavoro mi lascio tutto dietro quando arrivo a quella tavola ben piantata per terra con quella tovaglia bianca quei piatti lustri la boccia di cristallo piena d’acqua. E la sua cucina molto cotta molto pasticciata una cottura che rende irriconoscibili i cibi gli odori del grasso di maiale della fontina cotta in padella della verbena della cipolla sciolta al vapore. Con le mani forti da montanara Alda rovescia il mestolo rovente nel piatto chiedendo: ancora? e il suo sorriso timido generoso ti dice che oltre alla zuppa è disposta a versarti nel piatto una parte di sé la più vulnerabile purché tu la divori diligentemente senza lasciare resti.
Mi piace quel suo vivere insieme a Bice come due vecchi coniugi lei un po’ maschio di casa pronta ai lavori duri agli scontri protettiva e materna l’altra che prende i bicchieri a uno a uno come fossero fiori le sopraciglie sempre sollevate in segno di distacco. Bice è sorniona non dice mai la verità non per amore dell’ inganno ma per educazione; si farebbe scannare piuttosto che dirti una cosa sgradevole. Il suo corpo però dice tutto senza che lei lo voglia. Le mani lunghe e nervose dalle unghie laccate i denti bianchissimi le gambe lunghe e lisce i fianchi larghi pesanti gli occhi che seguono ogni tua mossa con sospetto e una leggera impercettibile nausea. Viene voglia di farle qualche dispetto: metterle un piede nel piatto urlarle nell’orecchio cazzo! addentarle il naso.
Tu mi guardavi con curiosità e attesa io ero distratta dai miei mal di pancia dagli odori del cibo dalla bruttezza stellare di Alda e dalla sua voce innamorata. Ero distratta da Fiammetta. Era lei che ti aveva portata lì ti ricordi? mi aveva parlato molto di te: Marina e la sua intelligenza di Minerva Marina e i suoi gatti d’angora Marina e la sua grazia da regina delle fate. Così io pensavo: tutto qui? Portavi i sandali avevi le dita dei piedi abbronzate. Che dita grassocce da bambina tozze e larghe come le foglie gonfie e spinose di un cactus ho pensato.
Così non ci siamo parlate affatto. Ma sentivo il tuo sorriso furbo e cocciuto che mi seguiva come a dire: non mi scappi. Ero già entrata nella costellazione magnetica dei tuoi pensieri. O forse no sbaglio forse ero io che ti giravo intorno tendendo lacci e reti per acciuffarti. Eppure ho l’impressione che fin dal primo momento che ci siamo viste tu avevi già deciso di fare di me "il mio amore" come dici tu. O sbaglio?
Cara Marina
sono passati cinque giorni da quando sono in questa brutta casa. Tu non mi hai ancora trovata. Ieri verso le dieci hanno suonato il campanello. Sono andata alla porta in punta di piedi. Ero sicura che fossi tu e già pensavo a un abbraccio tenerissimo. Quante volte mi hai rifiutata per poi cercarmi e rifiutarmi di nuovo e tornare a cercarmi in un gioco crudele e morboso.
L’hai fatto talmente tante volte che alla fine non credevo più ai tuoi rifiuti. E invece ogni volta erano veri. Bene basta non vediamoci più dicevi tu. Per tre cinque giorni non ci sentivamo. E io mi acconciavo a vivere senza di te mi sforzavo di non pensarti mettevo a posto i bagagli nella testa chiudevo gli armadi mettevo un telo nero sugli specchi. Al sesto giorno trovavo una tua risata – solo una risata lunghissima e carica di sarcasmo — nella segreteria telefonica. Subito dopo un telegramma: La fontana è asciutta seguito da un pacchetto con dei biscotti allo zenzero e dei pistacchi freschi.
Andavamo al cinema insieme al ristorante insieme. Due vecchie amiche felici di ritrovarsi. Le lunghe camminate in campagna i pic nic sul fiume verso Orte le dormite sotto la quercia del giardino di Fiammetta le bevute di vino. Ero contenta di riaverti con me. Non voglio più possederti dicevi sono felice così.
Andavamo in certi buchi di teatro scendendo trecento scalini sedendoci per terra nell’umido per vedere un qualche spettacolo di puri equilibrismi intellettuali. Dopo di corsa a mangiare un gelato grosso coperto di panna. E poi del vino bianco per togliere quel sapore di lampone troppo dolce. Quando bevi arricci un poco le labbra e socchiudi gli occhi come per un piacere vagamente fastidioso incomprensibile.
Posso venire su da te? Abbiamo deciso di non fare più l’amore Marina. Vengo a bere un bicchiere. Va bene vieni. Non ti fidi? Ma sì solo non vorrei ricominciare. Non ricominceremo.
In cucina a bere del vino rosso questa volta accompagnandolo con pezzi di formaggio fresco. Ti stendi sul tappeto. Ti togli le scarpe. Vieni qui stenditi devo parlarti. Gli occhi che brillano le braccia che si fanno serpenti e due lune scure negli occhi.
Mi sdraio accanto a te. I bicchieri ancora pieni. Beviamo. Ti sei portata dietro il piattino col formaggio e le prugne secche. Mangi avidamente guardandomi di sottecchi. Cosa mi devi dire? Non vuoi toglierti gli stivali fa caldo.
Mi sfili gli stivali. Prendi in mano un mio piede. Lo carezzi. Guarda che non voglio ricominciare. Ma non ricomincio. Mi rimetto gli stivali. No non faccio niente sei malfidata. Lo sai che mi fa stare male questo gioco a tira e molla. Non ti preoccupare sono diventata saggia come un vecchio barbagianni. Le tue mani mi carezzano le caviglie. Mi formicolano le gambe. Il calore fermenta in gola.
Improvvisamente mi denudi un seno e lo prendi in bocca con grazia infelice. E io non oso fiatare. So che un rifiuto in quel momento sarebbe veleno. Marina per favore smettiamo. Ma tu non parli più ingolli il mio latte e ti ubriachi ingordamente. Ora basta Marina dove l’hai messo il saggio barbagianni?
Come sottrarmi a quella stretta? Finiamo sdraiate testa contro testa a baciarci goffamente. Mi tiri via i vestiti ti impossessi di me con una violenza da mozzare il fiato.
Sei repellente nella tua tiepidezza mi urli nell’orecchio non ti voglio più mi fai orrore non sai regalare niente ti rintani lontana da me mi respingi anche se sei qui mi respingi volgarmente tu gridi.
Sapevo che sarebbe finita così te l’avevo detto. Il barbagianni ha arruffato le piume gli occhi allagati di odio. Mi fissi come fossi il tuo peggior nemico. E te ne vai sbattendo la porta. Per una settimana non ci vedremo. Poi ricomincerai con una risata enigmatica sul registratore oppure una poesia urlata nell’orecchio un pacchetto di canditi un mazzetto di narcisi.
Pensavo a tutto questo andando ad aprire. Volevo abbracciarti sarei stata felice di abbracciarti ma nello stesso tempo avevo paura di ricominciare il gioco del rifiuto e della seduzione.
Non eri tu. Era la vicina di casa che mi chiedeva di abbassare la radio perché i suoi bambini devono dormire. Non aveva niente di astioso. Anzi mi guardava con curiosità e simpatia. Non accennava ad andare via come se la radio fosse un pretesto per venire a conoscermi. L’ho fatta entrare. È piccola sottile magrissima tutta ossa con gli occhi rossi pungenti e la voce di una farfalla. Mi sono chiesta come avessero fatto due bambini grandi e grossi (li ho visti sulle scale diverse volte) a uscire da quel corpo minuscolo tormentato. Si è seduta un momento ha bevuto un caffè che le ho scaldato mi ha parlato del marito...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Lettere a Marina