L’inganno di Prometeo
Prologo
dp n="10" folio="10" ? dp n="11" folio="11" ? La pioggia cadeva senza tregua, furiosamente sospinta da venti ululanti, e le onde si levavano per poi abbattersi sulla costa, come un Maelstrøm nella notte nera. Nell’acqua bassa, poco lontano dalla riva, una decina di sagome sobbalzavano agganciate alle loro sacche galleggianti e impermeabili, come superstiti di un naufragio. Quella violenta tempesta li aveva colti alla sprovvista, ma era una vera benedizione: forniva loro una copertura che andava al di là delle più rosee aspettative.
Sulla spiaggia, una punta di spillo di luce rossa lampeggiò due volte, a segnalare che il gruppo in avanscoperta era giunto a riva, al sicuro. Al sicuro! Che cosa poteva significare? Che quel particolare tratto della costa tunisina non era sorvegliato dalla Garde Nationale? La natura, in compenso, attaccava con una forza che la guardia costiera tunisina non sarebbe stata in grado di eguagliare.
Sospinti e sballottati dall’impeto delle onde, quegli uomini raggiunsero la spiaggia e, con azione coordinata, avanzarono in silenzio sulla sabbia, nei pressi delle rovine dell’antico porto punico. Si sfilarono le mute subacquee di gomma nera, a rivelare tenute scure e volti anneriti a scopo mimetico, e dalle sacche estrassero armi che vennero spartite: mitragliette MP-10 Heckler & Koch, Kalashnikov e fucili da cecchino. Dietro di loro, altri uomini raggiungevano la riva a ondate.
dp n="12" folio="12" ? Tutto era orchestrato con cura da colui che, instancabilmente, nei mesi precedenti, li aveva addestrati alla perfezione. Erano partigiani di Al-Nahda, tunisini venuti a liberare il loro Paese dagli oppressori. I loro capi, però, erano stranieri: scaltri terroristi che condividevano la loro fede in Allah e formavano una cellula speciale di combattenti cresciuta nell’ala più estremista degli Hezbollah.
A capo di questa cellula, e della cinquantina di tunisini, c’era il famoso terrorista comunemente noto con il solo nome di Abu. Qualcuno, però, lo chiamava a volte con il suo nome di battaglia per esteso: Abu Intiquab, «Padre della vendetta».
Sfuggente, riservatissimo e spietato, Abu aveva addestrato i partigiani di Al-Nahda presso il campo appositamente creato nei dintorni della città libica di Zuara. Li aveva aiutati a perfezionare la preparazione su un modello in scala 1:1 del palazzo presidenziale e aveva insegnato loro le tattiche più feroci e subdole che avessero mai studiato.
Una trentina di ore prima, al porto di Zuara, quegli uomini erano saliti a bordo di un piroscafo da carico di fabbricazione russa, un cargo da cinquemila tonnellate di stazza che prima di allora aveva trasportato tessuti tunisini e prodotti libici fra Tripoli e Biserta. Questa imbarcazione di antica potenza, ma ormai malandata e decrepita, aveva navigato in direzione nord-nord-ovest lungo la costa tunisina, sfilando davanti alle città portuali di Sfax e Susa, per poi doppiare Capo Bon ed entrare nel golfo di Tunisi, poco oltre la base navale di La Goulette. Informati degli orari di passaggio dei guardacoste tunisini, quegli uomini avevano gettato l’ancora a cinque miglia da Cartagine e rapidamente messo in mare le lance gonfiabili dotate di potenti motori fuoribordo. Pochi minuti dopo avevano fatto il loro ingresso nelle turbolente acque di Cartagine, l’antica città fondata dai fenici che nei secoli III e II avanti Cristo era stata così potente da ergersi a massima rivale di Roma. Se anche qualche guardacoste tunisino si fosse accorto del cargo sul radar, l’avrebbe preso per un comune piroscafo da carico in sosta momentanea, pronto a riprendere la rotta per Biserta.
Sulla spiaggia, l’uomo che aveva inviato il segnale luminoso stava sibilando ordini e imprecando sottovoce con un’autorità compiacente. Era un uomo barbuto, che indossava una giacca a vento militare con cappuccio sopra la kefiah. Abu.
«Fate silenzio! State giù! Volete forse attirare qui tutta la guardia nazionale tunisina? Presto, presto! Muoviamoci! Dannati idioti! Il vostro capo marcisce in galera, mentre voi vi trastullate! I camion sono lì che aspettano!»
Al suo fianco, un uomo con gli occhiali a raggi infrarossi scrutava in silenzio il terreno. I tunisini lo conoscevano soltanto come «il Tecnico». Un bell’uomo dalla carnagione olivastra, con sopracciglia folte e occhi bruni fiammeggianti, tra i massimi esperti di materiale bellico in forza agli Hezbollah. Se di Abu si sapeva poco, del Tecnico, fidato consigliere di Abu, si sapeva ancora meno. Stando a quel che si diceva, proveniva da una facoltosa famiglia siriana ed era cresciuto tra Damasco e Londra, dove aveva appreso i segreti di armi ed esplosivi.
Infine, il Tecnico si decise a parlare, con voce bassa e tranquilla, aggiustandosi la giacca a vento nera con cappuccio per meglio proteggersi dalla pioggia battente.
«Esito a dirlo, fratello, ma l’operazione sta filando liscia. I camion carichi di materiale sono stati nascosti come previsto, e i nostri non hanno incontrato resistenza sulla Avenue Habib Bourghiba. Abbiamo ricevuto notizia che i primi uomini sono già al palazzo presidenziale. Il colpo di Stato è cominciato.» Mentre parlava, consultò il suo orologio da polso.
Abu annuì in modo imperioso. Era un uomo che non si aspettava mai altro che il successo pieno. Alcune esplosioni lontane informarono Abu e il suo consigliere che la battaglia aveva avuto inizio. Il palazzo presidenziale stava per essere preso e, nel giro di qualche ora, i militanti islamici avrebbero avuto il controllo di Tunisi. «È troppo presto per cantare vittoria», replicò Abu sottovoce, non senza una certa tensione. La pioggia diminuì d’intensità , e in un batter d’occhio la tempesta svanì così com’era comparsa.
All’improvviso, il silenzio che regnava fu infranto da voci allarmate che, in arabo, gridavano nella loro direzione. Cupe figure sfrecciarono sulla sabbia. Abu e il Tecnico si irrigidirono e posero mano alle armi, ma videro, ben presto, che si trattava di altri Hezbollah loro compagni.
«Zero-uno! Zero-uno!»
«Un’imboscata!»
«Allah onnipotente, sono circondati!»
Quattro arabi si avvicinarono terrorizzati e senza fiato. «È arrivato un segnale zero-uno di richiesta d’aiuto», biascicò ansimando quello dei quattro che portava in spalla una radio da campo PRC-117. «Sono riusciti soltanto a dire che le forze di sicurezza del palazzo li hanno circondati e fatti prigionieri. A quel punto la comunicazione si è interrotta! Dicevano di essere caduti in una trappola!»
Abu si volse inquieto verso il suo consigliere. «Com’è possibile?»
Il più giovane dei quattro messaggeri sopraggiunti fece un passo avanti e disse: «Il materiale bellico messo a disposizione dei nostri uomini era difettoso: le armi anticarro, le munizioni, i C-4... Non c’era nulla che funzionasse! E le forze di sicurezza erano lì in agguato ad attenderli! Qualcuno ha fatto cadere in trappola i nostri uomini prima ancora che potessero cominciare a combattere!».
Abu, che di solito ostentava serenità , era visibilmente contrariato. Si volse verso il suo primo consigliere. «Ya sahbee, mi serve il tuo saggio consiglio.»
Il Tecnico, avvicinandosi al celebre terrorista, si aggiustò l’orologio da polso. Abu gli cinse le spalle con un braccio. Parlò con voce bassa e pacata. «Dev’esserci un traditore nelle nostre fila, un infiltrato. Qualcuno ha svelato i nostri piani.»
Abu fece un lieve e quasi impercettibile gesto con pollice e indice. Un segnale prestabilito, alla vista del quale i suoi uomini si avventarono sul Tecnico e lo afferrarono per le braccia, per le gambe e le spalle. Il Tecnico si dimenò con violenza, ma non poté nulla contro quei tre guerriglieri ben addestrati. Con un movimento rapidissimo, la mano di Abu scattò in avanti. Ci fu un lampo metallico, e Abu trafisse con il suo coltello seghettato a punta ricurva l’addome del Tecnico, ritraendo la lama solo dopo aver affondato il colpo in modo da causare il massimo danno possibile. Gli occhi di Abu sprizzavano scintille. «Il traditore sei tu!», sentenziò.
Il Tecnico boccheggiò. Provava, ovviamente, un dolore atroce, ma il suo volto continuò a esprimere uno stupore ebete. «No, Abu!», protestò.
«Sei un verme!», imprecò Abu, mirando con la lama all’inguine del Tecnico. «Nessun altro conosceva l’ora e i piani esatti! Nessuno! E per il materiale eri tu che dovevi garantire. Solo tu puoi aver tradito.»
Improvvisamente, la spiaggia fu inondata da una luce accecante prodotta da lampade ad arco a carbone. Abu si voltò e si rese conto di essere circondato, insieme ai suoi uomini, da svariate decine di soldati in uniforme kaki. I militari del Groupement de Commando della Garde Nationale tunisina erano repentinamente comparsi all’orizzonte con i mitra spianati; un terribile frastuono proveniente dal cielo annunciava l’arrivo di uno stormo di elicotteri d’assalto.
Il fuoco delle armi automatiche si abbatté sugli uomini di Abu, trasformandoli in marionette in preda agli spasmi. Le loro urla raccapriccianti furono bruscamente messe a tacere, e i loro corpi si accasciarono a terra in pose scomposte e innaturali. Un altro scroscio di proiettili. L’inatteso silenzio che seguì era gravido di inquietanti presagi. Solo il capo terrorista e il suo esperto di armamenti non erano stati investiti dagli spari.
Abu, però, sembrava intensamente concentrato e tornò a voltarsi verso l’uomo che aveva accusato di tradimento, preparandosi a un nuovo assalto con il suo coltello a forma di scimitarra. Gravemente ferito, il Tecnico cercò di difendersi dall’assalitore, ma le gambe cominciavano ormai a cedergli. Aveva perso troppo sangue. Nel preciso istante dell’affondo finale, il barbuto Hezbollah fu afferrato alle spalle da mani potenti che lo immobilizzarono con la schiena a terra.
Gli occhi di Abu ardevano sprezzanti, mentre i due uomini venivano presi in consegna dai soldati fedeli al governo legittimo. Abu non temeva alcun governo, perché erano i governi – amava ripetere – che avevano paura di lui: qualunque Paese, con il pretesto di qualche legge internazionale, l’avrebbe subito estradato, rimpatriato. Sarebbero stati stretti accordi dietro le quinte, Abu sarebbe stato rilasciato in gran segreto e la sua presenza nel Paese passata sotto silenzio. Nessun governo voleva attirare su di sé la furia di una campagna terroristica degli Hezbollah.
Il capo terrorista non oppose resistenza, ma si lasciò andare a peso morto, costringendo i soldati a trascinarlo via. Passando davanti al Tecnico, gli sputò in faccia e sibilò: «Ti resta poco da vivere, traditore! Verme! Morirai per il tuo tradimento!».
Quando Abu fu lontano, gli uomini che avevano afferrato il Tecnico lo lasciarono libero con molte scuse, posandolo su una barella in attesa, e arretrarono secondo le istruzioni del capitano del battaglione, che stava sopraggiungendo. Questi si chinò accanto al Tecnico e ne esaminò le ferite. Il Tecnico sussultò, ma non si lasciò sfuggire un solo lamento.
«Mio Dio, è incredibile che lei sia ancora cosciente!», disse il capitano con un marcato accento inglese. «È gravemente ferito e ha perso molto sangue.»
dp n="17" folio="17" ? Il Tecnico replicò: «Se i vostri uomini avessero reagito più prontamente al mio segnale, questo non sarebbe successo». Si tastò istintivamente l’orologio, dotato di una trasmittente miniaturizzata ad alta frequenza.
Il capitano ignorò la frecciata. «Quell’SA-341 lassù», disse, indicando un elicottero che sorvolava il luogo, «la porterà in una struttura medica segreta del Governo americano in Marocco. Non mi è concesso di conoscere la sua vera identità né per chi lavora, quindi non le farò domande al riguardo», esordì il tunisino, «ma credo di avere un’idea...»
Improvvisamente, il Tecnico bisbigliò allarmato: «A terra!». Estrasse in un lampo una pistola semiautomatica dalla fondina nascosta sotto il braccio e fece fuoco cinque volte in rapida successione. Da un gruppo di palme poco distante si levò un grido, e un uomo – morto – cadde a terra, con il suo fucile da cecchino ancora stretto tra le mani: un soldato di Al-Nahda scampato chissà come al massacro.
«Allah onnipotente!», esclamò spaventato il capitano del battaglione, sollevando con cautela la testa per guardarsi intorno. «A questo punto, lei e io siamo pari, direi.»
«Ascoltami bene», disse l’arabo-non-arabo, con un filo di voce. «Avverti il tuo presidente che il suo ministro degli Interni è un simpatizzante di Al-Nahda e cospira ai suoi danni. È in combutta con il viceministro della Difesa. Ci sono anche altri...»
L’emorragia, infine, ebbe il sopravvento su di lui. Prima di poter terminare la frase, svenne.
Prima Parte
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Capitolo 1
Washington, D. C.
Cinque settimane dopo
Il paziente fu fatto atterrare con un jet noleggiato sulla pista di un piccolo aeroporto privato, trenta chilometri a nord-est di Washington, D.C. Benché il paziente fosse l’unico passeggero del velivolo, nessun membro dell’equipaggio gli rivolse la parola se non per accertarsi di sue eventuali esigenze pratiche. Nessuno conosceva il suo nome. Sapevano soltanto che doveva trattarsi di un passeggero estremamente importante. L’arrivo di quell’aereo non sarebbe mai comparso su alcun registro di volo né militare né civile.
Il passeggero senza nome fu poi trasportato a Washington su una berlina priva di contrassegni e depositato, dietro sua richiesta, nei pressi di un autosilo al centro di un anonimo isolato dalle parti di Dupont Circle. Indossava un comune abito grigio abbinato a un paio di mocassini con nappa di cordovano spazzolati e lucidati un po’ troppe volte, e pareva uno dei mille e mille funzionari e burocrati di medio livello, incolori e senza volto, che popolano in permanenza Washington.
Nessuno lo degnò della benché minima attenzione, quando sbucò dall’autosilo e si avviò, in modo rigido e con una evidente zoppia, verso un grigio edificio a quattro piani al 1324 di K Street, dalle parti della 21a. Il palazzo, tutto cemento e vetro grigio, era praticamente indistinguibile dalla bassa e tetra cubatura che caratterizza quella parte del quadrante nord-ovest di Washington e che ospita, senza eccezioni, uffici di lobby e organizzazioni del commercio, agenzie di viaggi e associazioni di industriali. Accanto al suo ingresso principale figuravano due targhe di ottone che segnalavano la presenza degli uffici della INNOVATION ENTERPRISES e della AMERICAN TRADE INTERNATIONAL.
Solo un professionista molto esperto e competente sarebbe stato in grado di notare alcuni particolari insoliti: il fatto, per esempio, che i telai di tutte le finestre erano dotati di oscillatori piezoelettrici capaci di neutralizzare qualunque tentativo di spionaggio acustico al laser dall’esterno; o la «nube» di rumore bianco ad alta frequenza che racchiudeva l’edificio in un cono di onde radio, rendendo inservibile la maggior parte degli strumenti di intercettazione.
Di certo, quell’edificio non aveva mai attratto l’attenzione dei vicini di K Street, degli avvocati dalla calvizie dilagante dell’Associazione dei produttori di granaglie o dei tetri ragionieri con cravatta e camicia a mezze maniche dello studio di consulenza per imprese, ormai prossimo al fallimento. La gente arrivava al 1324 di K Street alla mattina e se ne andava di sera, e l’immondizia veniva depositata nel cassonetto del vicolo nei giorni previsti. Di che altro doveva interessarsi, la gente? Così, del resto, piaceva al Direttorio: segretezza, sì, ma in piena vista.
L’uomo si lasciò quasi sfuggire un sorriso, al pensiero. Chi avrebbe mai sospettato, infatti, che la più riservata tra le agenzie segrete mondiali potesse avere la sua sede in un anonimo edificio per uffici nel bel mezzo di K Street, sotto gli occhi di tutti?
La Central Intelligence Agency a Langley, Virginia, e la National Security Agency a Fort Meade, Maryland, avevano sede in fortezze con tanto di fossato che balzavano all’occhio. Siamo qui!, sembravano voler dire, Eccoci! Ma non fate caso a noi! Sfidavano simbolicamente gli avversari a violare la loro sicurezza, cosa che è puntualmente avvenuta. Il Direttorio, invece, ha reso le cosiddette burocrazie clandestine indistinguibili dal personale delle Poste.
L’uomo si fermò nell’atrio del numero 1324 di K Street ed esaminò il lucido pannello di ottone a cui era fissata, sotto una tastiera, una cornetta telefonica dall’aspetto perfettamente convenzionale, simile in tutto e per tutto a uno di quei classici apparecchi che si trovano comunemente nelle portinerie di tutto il mondo. L’uomo afferrò la cornetta e premette una serie di tasti, componendo un codice prestabilito. Tenne premuto per al...