Il cuore nero dei servizi
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Il cuore nero dei servizi

  1. 300 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il cuore nero dei servizi

Informazioni su questo libro

Che ne è stato dei servizi segreti italiani, di quell'apparato d'intelligence che ha attraversato come un'oscura filigrana la recente storia d'Italia, proiettando la propria ombra sopra gli episodi irrisolti del nostro passato, dal rapimento Moro alla bomba di piazza Fontana, dalla stagione dello stragismo a quella della trattativa tra Stato e mafia? Sono scomparsi o hanno semplicemente cambiato pelle? Piero Messina, giornalista d'inchiesta, è riuscito a raggiungere alcuni agenti e funzionari italiani per anni impegnati nelle attività del nostro sistema di sicurezza. Quello che ha raccolto è un sorprendente coro di voci che va ben oltre il semplice registro della cronaca. Questa, infatti, non è la storia dei servizi segreti in Italia, ma il racconto dietro le quinte dei meccanismi che hanno confezionato false verità, delle inconfessabili dinamiche di gestione del potere e di una contabilità statale al di sopra di ogni sospetto e al di sotto di ogni tracciabilità. E che hanno condannato il nostro Paese a uno stato di insicurezza permanente.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2012
Print ISBN
9788817052290
eBook ISBN
9788858624999

1
La democrazia incompiuta

Ritratto in chiaroscuro dell’intelligence italiana

L’ombra distorta dei servizi

Avrebbero dovuto essere i «servizi» in difesa degli interessi nazionali. Si sono dimostrati alla stregua di strutture votate all’insicurezza, enti preposti al depistaggio, alla truffa e alla deformazione della verità. Hanno portato il Paese in una situazione di eversione permanente. Ecco perché in Italia non esistono più segreti.
Sin dalla nascita della Repubblica conviviamo con trame, complotti, depistaggi, deviazioni ed entità parallele quanto illegali. L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui, ininterrottamente dalla fondazione della Prima e della seconda Repubblica, le dinamiche e gli equilibri del gioco politico sono stati influenzati dalle stragi, dalla strategia della tensione, dalla lotta armata, dal terrorismo. Una condizione che abbiamo costruito con le nostre mani, in base a un principio di volontà politica che mettesse l’attività informativa al servizio di tutto fuorché della sicurezza nazionale.
Abbiamo dovuto inventare il concetto di servizi deviati perché l’opinione pubblica potesse immaginare l’esistenza di due volti contrapposti della sicurezza interna, uno posto a difesa delle istituzioni, l’altro al servizio di chissà quali entità esterne malvagie e misteriose. Ma chi avrebbe mai potuto deviare i servizi deviati, se non quella stessa classe dirigente che piazzava i propri uomini negli staff dirigenziali degli enti di sicurezza, si avvantaggiava di informazioni riservate o addirittura sfruttava la segretezza dei conti segreti per basse finalità di arricchimento personale?
I servizi segreti tuttavia non si possono definire una «casta». Altro non sono stati se non i sacerdoti del rito italiano della democrazia incompiuta. I portatori dei segreti più inconfessabili.
La regola non scritta è la consegna del silenzio: intere generazioni di politici italiani sono stati soggiogati dalla minaccia che qualcuno dei servizi potesse parlare. L’omertà diventa regola aurea della convivenza civile e democratica, come se le istituzioni fossero una qualsiasi combriccola della criminalità organizzata, ambito da cui, proprio per la possibilità di parlare un linguaggio comune, l’intelligence tricolore ha pescato a piene mani, instaurando nel tempo anche rapporti di collaborazione.
Sono questi gli elementi che da sempre accompagnano il corso della vita sociale, economica e politica del Paese. In fondo, nella storia dei servizi segreti italiani, quel che si intravede in filigrana è una trama di silenzi, di complicità, di stragi di Stato. Intrighi e crimini ai quali le istituzioni quasi mai hanno saputo opporre prevenzione né sanzione. Un Paese da sempre catturato nell’orbita geopolitica di interessi «superiori», la cui sovranità è limitata nei fatti da quel che ci ha raccontato la cronaca: sessantacinque anni di storia in cui non ci siamo fatti mancare nulla, dagli attentati ai tentativi di golpe, dai legami scellerati dello Stato con le mafie alla sovranità delle massonerie.
Storie di ricatti incrociati, di faccendieri che estorcono denaro e privilegi ai dirigenti delle strutture di sicurezza in cambio del silenzio sulle debolezze personali; traffici d’armi e tariffari «segreti» per le collaborazioni dati in pasto ai capi delle organizzazioni criminali. Un copione che si ripete e si rinnova negli anni.
Al centro di tutto, come sempre, la politica, che antepone interessi di parte e di partito all’obiettivo primario della difesa nazionale dalle minacce interne ed esterne.
E un denominatore comune, che alla fine, anche a distanza di tempo, spunta sempre: l’ombra distorta della nostra intelligence.
Per queste inefficienze, il Paese ha pagato e paga un prezzo altissimo: in gioco c’è anche la credibilità dell’Italia nella comunità internazionale e la «difesa» degli interessi nazionali.
Lo dimostrano le cronache del marzo del 2012, con la tragica conclusione del sequestro dell’ingegnere Franco Lamolinara, preso in ostaggio da una cellula jihadista nel maggio del 2011 nel Nord della Nigeria.
Per quasi un anno, le informative dei servizi segreti al governo lasciavano presagire una conclusione positiva del sequestro. E invece i fatti racconteranno una storia diversa, culminata con la morte dell’ingegnere: quando, l’8 marzo del 2012, le teste di cuoio britanniche e le forze di polizia nigeriana faranno irruzione nel compound di Sokoto, dove Lamolinara e il collega Chris McManus erano tenuti prigionieri da quasi dieci mesi, i servizi segreti italiani erano all’oscuro del blitz.
Di intelligence, insomma, ancora si muore.

Il «contesto»

Certo, non mancano le eccezioni. A testimoniarlo, per esempio, il sacrificio di Nicola Calipari, il generale di divisione del Sismi, il servizio segreto militare, ucciso da soldati statunitensi a Bagdad il 4 marzo del 2005, dopo avere portato a termine la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. E, cinque anni dopo, quello del funzionario dei servizi segreti militari Pietro Antonio Colazzo, caduto a Kabul il 26 febbraio del 2010 a causa di un attacco terroristico multiplo sferrato dai talebani contro tre residence che ospitavano la missione italiana.
Sono frammenti noti di una storia mai raccontata, tasselli di memoria che dimostrano come, all’interno dei nostri servizi, segreti e civili, abbiano prestato la loro opera, direttamente o come fonti primarie, anche grandissimi investigatori in grado di fare luce su imperi del crimine.
Riavvolgiamo ancora il nastro del tempo e ricordiamo il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, ucciso da sicari mafiosi il 4 aprile del 1992, mentre percorreva in auto la strada che collega Agrigento a Porto Empedocle. Guazzelli aveva «schedato» le famiglie mafiose della Sicilia occidentale e centrale, svelando il loro ruolo nel traffico internazionale di stupefacenti. Venne assassinato mentre era in procinto di passare di ruolo al Sisde, la struttura di intelligence civile con la quale collaborava già da alcuni anni.
Di lui mi parla l’ex funzionario del servizio segreto civile Paolo Fortese. Il nome di Guazzelli spunta all’improvviso, mentre stiamo camminando nel centro storico di Palermo.
Il 2011 è agli sgoccioli. Tra qualche giorno sarà Natale, ma la crisi economica e la bolla dello spread spengono la voglia di comprare. A Fortese, che per anni ha lavorato nel settore dell’intelligence che contrasta le mafie, chiedo di aprire il libro dei ricordi e di parlarmi delle «occasioni perdute». E il nome del maresciallo è il primo a riafforare nella sua mente. «Guazzelli» ricorda Fortese «era la memoria storica della mafia e avrebbe potuto dare un eccezionale impulso alle attività dei servizi segreti in termini di contrasto. Con lui ero in contatto e stavo lavorando affinché la sua collaborazione con il Sisde diventasse un rapporto strutturato formalmente. La mafia l’ha ucciso poco prima che entrasse di ruolo nella nostra agenzia.»
Nonostante il valore di molti funzionari – e talvolta anche nonostante il loro sacrificio – scandali e trucchi da avanspettacolo hanno compromesso nel tempo l’immagine e la funzionalità del nostro sistema di sicurezza, erodendo la percezione che ne ha l’opinione pubblica.
E così, per recuperare le intuizioni e i contributi che i servizi segreti italiani hanno raccolto, sia in Italia, nel contrasto alle emergenze nazionali come sono le mafie e la corruzione, sia all’estero, nel tourbillon geopolitico creatosi dopo l’11 Settembre, bisogna scavare tra le macerie. Il rischio è che altrimenti vengano cancellate – un po’ per la missione istituzionale del sistema, un po’ per l’incapacità di comunicare in modo convincente – e inghiottite nel calderone dei misfatti.
Nel carniere delle missioni compiute, infatti, c’è il contributo alla cattura di pericolosi latitanti, lo smantellamento di centrali eversive, l’individuazione e il contrasto a traffici internazionali d’armi e di stupefacenti. Ma l’alta professionalità di chi ha lavorato e lavora in prima fila si disperde in uno sconcertante quadro d’insieme. In quello che Leonardo Sciascia avrebbe definito il «contesto».
Il perché di tutto questo lo spiega Emilio Ruisi. Nei servizi, lo abbiamo visto, dal 1983 al 2007, Ruisi è un grande conoscitore delle dinamiche della criminalità organizzata. Nella sua carriera si è occupato anche di eversione interna e, negli ultimi anni di carriera, dell’impatto dell’economia emergente cinese sul tessuto sociale del meridione, valutandone in particolare le possibili connessioni criminali. Ruisi ha anche ricoperto il compito di responsabile della sicurezza interna per una delle principali sedi dell’intelligence civile, proprio quella di piazza Lanza, a Roma, dove ha scelto di incontrarmi quel pomeriggio d’estate del 2007.
«Noi siamo l’unica struttura dello Stato» racconta «nella quale i meriti non contano in assoluto e l’esperienza viene relegata ai margini. Siamo succubi del mondo della politica che condiziona ingressi, promozioni e trasferimenti. A ogni rotazione dei dirigenti superiori, che vanno di pari passo ai cicli della politica, assistiamo a un’imbarcata di nuovi ingressi. Non hanno esperienza dell’attività di intelligence. Ma comandano, perché sono protetti e condizionano le attività dei centri operativi presenti su tutto il territorio. Non è necessario che abbiano ricevuto incarichi particolarmente prestigiosi. Basta che abbiano messo il piede dentro e in giro si sappia che sono protetti. La certezza di un contatto “romano”, in un mondo fragile e volatile come il nostro, determina un oggettivo rallentamento delle attività. I dirigenti locali, in fondo, temono questa pletora di raccomandati.»
I meriti all’interno dei servizi, dunque, non contano, anche per un banale dato oggettivo: «Le nostre azioni raramente diventano pubbliche» continua Ruisi «a meno che non si tratti di fatti clamorosi, quasi sempre episodi negativi che gettano luce sull’integrità e sulla moralità di chi lavora nel sistema».
Date queste premesse, è possibile cambiare la poco lusinghiera fama dei nostri servizi di sicurezza?

Un mondo senza etica

«L’etica dell’intelligence è un ossimoro. Roba del genere non c’è mai stata e non ci sarà mai, se vogliamo davvero un servizio di spionaggio.»
Il motto di Duane «Dewey» Clarridge, ex capo della Cia a Roma negli anni Ottanta, in Italia è stato preso alla lettera.
Secondo «Gnosis», il periodico pubblicato dalla nostra intelligence civile, dal secondo dopoguerra a oggi nei servizi segreti italiani si sono registrate almeno quindici «grandi deviazioni», quindici momenti in cui non è stato rispettato il mandato istituzionale conferito per legge, e ci si è dedicati ad altre, non sempre nobili, «missioni».
Le «deviazioni» del sistema – che «Gnosis» illustra in un editoriale del 2007, successivamente pubblicato anche nel portale internet delle nostre agenzie di sicurezza – si spiegano soltanto in parte con la sovranità limitata del nostro Paese, iscritto nell’orbita dell’influenza filoatlantica. Gli 007 italiani «deviano» poiché sono stati assoggettati – e lo sono in parte ancora oggi – al mondo della politica e ai suoi interessi. Ma c’è anche chi ha «tradito» per ottenere il consolidamento del proprio potere all’interno del sistema di sicurezza nazionale.
Qualche volta, però, la deviazione non è altro che il mancato riconoscimento di un’attività di intelligence compiuta con modi poco ortodossi, tollerati al momento della loro esecuzione pratica, censurati e perseguiti anche penalmente a distanza di anni.
Ma cosa succede quando un agente segreto è sul punto di «deviare» perché gli è stato chiesto, o perché magari non sa, o non si accorge, che sta attraversando il sottile confine tra azione legittima e violazione?
«Uno dei principali rischi che corrono gli agenti segreti» spiega Ruisi «è quello di procedere con metodi che, pur non essendo consentiti per legge, vengono accettati nella logica del dare e avere.» In sintesi, le informazioni costano e per ottenerle, spesso, si infrangono le regole. «Fino all’inizio degli anni Novanta» continua Ruisi «il rapporto tra servizi segreti e mondo della criminalità organizzata si basava su incontri diretti. Con i boss si parlava, si discuteva. Si trattava. Senza passare dai magistrati. Veniva scelto il minore dei mali. Al mafioso che dimostrava di poter fornire informazioni su traffici di droga o di armi, o che permetteva di evitare omicidi, si garantiva non tanto una sorta d’immunità, impossibile da concedere, quanto una serie di piccoli privilegi e protezioni, come il rinnovo della patente di guida.»

Le ragioni delle grandi deviazioni

L’ordinamento dell’intelligence ha un perimetro strategico e operativo fissato da leggi dello Stato. Il perché la nostra storia sia ricca di «deviazioni» e stravolgimenti del dettato normativo è argomento da iscrivere in due grandi direttrici.
La prima va ricercata sino alla caduta nell’appartenenza a un sistema geopolitico bipolare del Muro di Berlino, sistema divenuto ancor più complesso oggi. Sino al 1989 abbiamo vissuto sotto l’ombrello protettivo di un’alleanza politica e militare che attualmente si è disfatta per l’assenza di un «nemico». E così alla nostra intelligence è venuto a mancare un punto di riferimento costante e preciso. Il mondo globale presenta minacce multipolari e la difesa degli interessi nazionali passa anche dal monitoraggio delle attività strategiche in campo finanziario, energetico, ambientale e industriale.
La seconda ragione è da ascriversi alle debolezze umane, alla sete di potere e di denaro, chiavistello che ha spesso mandato in cortocircuito le normali relazioni tra la sfera politica e il mondo dell’intelligence. Perché «in Italia tutto si tiene» come amava dire Giovanni Spadolini, ogniqualvolta gli si chiedeva di spiegare uno dei tanti intrecci che segnano la storia del nostro Paese.
Tutto si tiene e tutto si può comprendere facilmente. Disarmante la lettura dei misteri italiani dalle parole di Licio Gelli, il venerabile maestro della loggia massonica Propaganda 2, operativa almeno fino agli anni Ottanta, entro la quale transitarono generali dell’esercito, dirigenti dei servizi segreti nazionali, manager pubblici e privati, politici e imprenditori – come Silvio Berlusconi – che col tempo sarebbero diventati uomini politici.
Intervistato dal settimanale «Oggi» nel febbraio del 2010, Licio Gelli con dieci sole parole spiega sessanta anni di storia d’Italia: «Io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l’Anello».
Con quella frase il venerabile maestro mette l’operato dei nostri servizi segreti al centro di tutto e mostra come i nostri 007 siano stati protagonisti attivi dei tentati colpi di Stato degli anni Cinquanta e Settanta, della strategia della tensione degli anni Settanta, delle compromissioni con le associazioni segrete e le logge massoniche (un continuum che parte dalla P2 per arrivare agli scandali dei nostri giorni), del dialogo e delle trattative con i network criminali.
Tutto questo è accaduto perché, storpiando il celebre aforisma di Giulio Andreotti, in Italia l’informazione logora chi non ce l’ha.

Storie di ordinaria corruzione

La storia dei servizi segreti italiani non è macchiata soltanto da grandi «deviazioni». Specchio fedele del malcostume nazionale, il nostro sistema di sicurezza è finito nella polvere anche per storie meschine di ordinaria corruzione, come appalti truccati e rimborsi spese gonfiati.
Quasi a voler ricalcare il copione di una celebre novella di Giovanni Verga, la nostra intelligence è stata sempre molto attenta alla «roba».
La politica del «mattone» dei servizi segreti sembra una storia da palazzinari. E quel che ha scandalizzato l’Italia negli anni Novanta si è riproposto puntualmente nel 2010. Quel che successe al Sisde a quei tempi – con un architetto, lo vedremo nel dettaglio, che controllava la ricerca di nuovi immobili da destinare alle attività dei servizi, facendo lievitare i costi a dismisura e creando provviste di denaro per corrompere dirigenti pubblici – torna immancabilmente nella melassa degli ultimi anni, con ripercussioni che ancora oggi echeggiano nella cronaca quotidiana. Cambiano i nomi, cambiano le stagioni, ma il copione è sempre lo stesso: fornitori di fiducia, politici che ricevono «inconsapevolmente» favori e regalie, con i costi per le sedi dei servizi che lievitano all’infinito causando gravi danni economici all’Erario.
Di spese pazze, poi, se ne sono registrate a bizzeffe. Nell’allegra gestione dei fondi dei servizi segreti l’apice viene raggiunto dal Sismi, in una vicenda ormai datata ma quanto mai emblematica. È il 1985 e il servizio militare riesce a spendere 580 milioni di lire per l’acquisto di uno yacht di lusso, l’Islamorada. Il caso finisce in Parlamento nei giorni dello scandalo dei fondi neri al Sisde che nel 1993 vede coinvolti e poi condannati i vertici e i responsabili amministrativi dell’intelligence civile.
La storia dello yacht adibito a garçonnière verrà censurata in un’interrogazione parlamentare del deputato verde Edoardo Ronchi che reca la data del 2 giugno 1993. A quale scopo sia stata comprata l’Islamorada si intuis...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR Rizzoli
  3. Frontespizio
  4. Le segretissime istruzioni per l’uso
  5. Premessa
  6. 1 La democrazia incompiuta - Ritratto in chiaroscuro dell’intelligence italiana
  7. 2 Vita da spia - Come funzionano i servizi segreti
  8. 3 Le casse dei servizi - Quanto costa la nostra intelligence
  9. 4 La salvezza della Repubblica - La riforma del 2007
  10. 5 La forma dei servizi - Dalla nascita agli anni Ottanta
  11. 6 L’Italia in ginocchio - Gli anni Novanta
  12. 7 Scandali, sangue e misteri - L’Italia segreta della vergogna
  13. 8 Vecchie e nuove deviazioni - Da Gladio alla seconda Repubblica
  14. 9 La nuova intelligence in tempo reale - Servizi per la «cricca»
  15. 10 Affari riservati - 007, massoni e manager
  16. 11 Lo Stato dell’arte - Combattere le mafie. Ma non troppo
  17. 12 Nel domino internazionale - Oro nero e vecchi sospetti
  18. 13 Verso la terza Repubblica - Aspettando la nuova riforma
  19. Sommario