
- 176 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il catalogo delle amiche
Informazioni su questo libro
Dieci ritratti di donne, «amiche» che amano troppo e incapaci di amare abbastanza se stesse, con le loro manie, le loro falsità e i comportamenti spesso al limite dell'assurdo.
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Informazioni
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9788817211192eBook ISBN
9788858628317Cristina
dp n="6" folio="" ? dp n="7" folio="9" ?Cristina dà il meglio di sé quando la casa è in fiamme. Preferibilmente se è la casa altrui e se le fiamme sono alte. La prassi quotidiana, il piccolo alto e basso del giorno dopo giorno la annoiano, la rendono apatica, pessimista e di cattivo umore. Anche acida, scontrosa, aggressiva. O bugiarda. Bisogna starle alla larga allora, aspettare che succeda qualcosa di grave, attraverso la quale lei possa realizzare la sua voglia di protagonismo, di eroismo. Una piccola malattia, un’indisposizione, un contrattempo o, caso più fortunato, un incidente, una ferita, un’operazione già le permettono di galvanizzarsi un poco, anche se non ancora a sufficienza. Comunque bastano per accenderle negli occhi la luce del risveglio dall’apatia, dalla normalità senza storia. Per lei la vera storia, la vita anzi, comincia con la disgrazia, eventualmente perfino con la morte.
Se una ingessatura, una febbre a quaranta, un parto difficile, un tamponamento d’auto riescono a darle quella scossa per la quale torna a sorridere, affabile e animata, con il respiro corto di chi è indaffarato o innamorato, il bello, il meglio viene con i malanni seri: una gamba non solo rotta, ma possibilmente amputata, di un amico o di una vicina di casa; un’automobile veramente fracassata, dalla quale sia uscito qualcuno di sua competenza da ricucire da capo a piedi, magari in coma, con prognosi incerta; una malattia rara, misteriosa, lunga e difficile da curare, che richieda tutto il suo impegno di esperta delle cose di medicina.
Cristina cresce allora in altezza e in bellezza, i capelli lucidi e i muscoli tesi, perfino il vestito più curato e il passo svelto, da ragazza, non da signora quarantenne qual è. Se appena il colpito non ha una famiglia o dei congiunti più che disponibili, più che assidui, si trasferisce all’ospedale, prende il posto delle infermiere, dalle quali in due giorni impara ogni arte per superarle in bravura al terzo, e dopo una settimana sa tutto quello che sa il medico. E, anche se non si permette di sostituirlo completamente, ne parla come di un deficiente che non ha capito la gravità del malato, che non è aggiornato, che è un inetto o che, per lo meno, se ne frega del suo lavoro.
Ai suoi pazienti non porta arance, no, porta speciali succhi di frutta senza zucchero, o con molto zucchero, a seconda di quello che ritiene adatto a ciascuno, di mirtilli neri o mandarinetto cinese o bacche di rosa; porta biscotti fatti da lei, senza burro né uova, leggeri come una nuvola con i quali, eventualmente, imbocca il malato a metà giornata, perché – spiega – in ospedale gli danno delle schifezze da lasciarlo intossicato nel migliore dei casi; porta musica per distrarlo, libri per leggergli qualcosa, giornali per tenerlo informato, indumenti speciali senza fibre sintetiche per impedire che sudi. Ed è capace di passare ore accanto al suo letto, disposta a fare anche la notte senza mai sdraiarsi, seduta su qualche strapuntino, pronta con una pezzuola bagnata, una tazza di tisana, una parola rasserenante, una medicina. In quell’angelo pieno di sacro fuoco, in quella sorridente e amabilissima infermiera, professionale al massimo grado senza mai perdere il volto umano, nessuno riconoscerebbe la malmostosa, velenosa e semidepressa Cristina degli infelici, noiosi, interminabili tempi normali.
È la sindrome del pompiere, quella di Cristina. Come un pompiere va in crisi senza incendi, senza allagamenti, crolli, terremoti, minacce di suicidio dal quinto piano, dalla torre dell’orologio o dal ponte sul fiume, così lei si deprime quando non c’è in vista alcuna disgrazia che la possa far sentire importante, indispensabile, unica al mondo. Lo fa, poverina, per mettersi in mostra, per attirare l’attenzione, per indurre gli altri ad amarla, commentano benevole le amiche. Ma se Cristina sapesse che parlano di lei in modo benevolo, o commiserando le sue carenze affettive, s’infurierebbe, toglierebbe loro il saluto: sicuramente lascerebbe bruciare le loro case né vorrebbe mai più curare i loro congiunti e conoscenti.
Nel caso poi che non succeda nulla intorno a lei, per mantenersi eroica, se non agli occhi propri, almeno a quelli degli altri, riempie i tempi magri inventando sventure e drammi personali che, almeno nella fantasia, le trasmettono un po’ di vita. Racconta allora e ricama, con dovizia di particolari, intorno a certe sue avventure rischiose, intorno a incidenti e rapine, contrattempi e malattie che le capitano con frequenza sorprendente, senza che per questo mai si lasci scoraggiare o, tanto meno, mettere a terra. Che succeda ogni cosa a lei non la soddisfa però in pieno, perché non ottiene quell’ammirazione di cui si sente circondata quando riesce a correre in soccorso di altre persone. Ma per conto terzi non si può inventare.
Con tale pathos dipinge i suoi drammi presenti, incombenti o imminenti che è difficile non crederle, però si sa che non bisogna crederle. L’inverno scorso, per esempio, ha avuto un cancro in fase terminale, e già con tristezza prendeva congedo spiegando sintomi e decorrenza della malattia e affidando i due figlioli alle cure degli amici. Ne era convinta probabilmente lei stessa, perché altrimenti non avrebbe saputo descrivere con tanta precisione disturbi e sofferenze; doveva esserne convinta per riuscire a sopravvivere in quella bassa di disgrazie reali. Dopo qualche mese, semplicemente, del cancro terminale non si sentì più parlare: se ne era dimenticata. Ma poiché intorno a lei continuava a non succedere nulla di veramente grave, a smuovere un poco le acque piatte giunse l’ufficiale giudiziario per sequestrarle tutti i mobili di casa a causa di qualche debito ereditato non si sa da chi e mai estinto. Sequestro in qualche modo, non si sa come, scongiurato, perché i mobili hanno continuato a rimanere tutti quanti al loro posto.
Poi c’è stata la vicenda della domestica pazza – o ubriaca – che, armata di coltello, aveva inseguito madre e figli per tutta la notte e per tutta la casa, riuscendo, prima di essere disarmata, a ferire di striscio il braccio di Cristina. A testimonianza dell’orribile nottata e del corpo a corpo con la scatenata aiutante filippina, lei mostrava una fasciatura sull’avambraccio, che avrebbe però potuto nascondere una scottatura, un livido, una puntura di ape o un brufolo infiammato.
Anche uno zingaro, o albanese o marocchino, una notte le è entrato in casa, in stanza, anzi, intanto che dormiva, puntandole una pila in faccia. Ma mentre chiunque altra sarebbe morta di paura, paralizzata nel letto a tremare e pregare, Cristina con un balzo si era lanciata sull’intruso, e quasi lo afferrava, quasi lo bloccava, non fosse stato per l’emozione che le aveva un po’ inumidito le mani, tanto che la gamba del ladro all’ultimo le era scivolata via. Le era toccato vederlo saltare con un balzo dalla finestra aperta attraverso la quale era entrato e scomparire dietro l’angolo della strada. La prova del misfatto stava sul giornale dove, qualche giorno dopo, si poté leggere di un’impresa quasi identica, sia pure in tutt’altra zona della città .
«Hai visto?» diceva Cristina raccontando per l’ennesima volta la sua avventura. «È lo stesso che è venuto da me. Per paura ha cambiato quartiere. Lo sai che i vicini di casa non fanno altro che ringraziarmi perché quello da queste parti non avrà più il coraggio di mettere piede?»
Ma tutto va meglio, più liscio e naturale, quando l’insopportabile bonaccia s’interrompe, liberandola dalla necessità di inventare guai sempre nuovi, e a qualcuno accade qualcosa di serio costringendolo a ricoverarsi, per settimane, in un letto d’ospedale. Con sovrana professionalità Cristina indossa allora la sua vera veste – di dottoressa in chirurgia, cardiologia, ortopedia, oncologia, pediatria, ginecologia, pneumologia e, ovviamente, in medicina generale – e si installa al capezzale prendendo saldamente in mano la situazione. Se avesse avuto la determinazione di intraprendere gli studi, sarebbe diventata un bravissimo medico, e spesso ricorda con rammarico di aver dovuto rinunciare alla sua vocazione per le condizioni disagiate della famiglia. Ma chissà se è vero: un medico che assiste e cura i malati non fa che il suo lavoro, non avrebbe di che sentirsi eroico e speciale né riceverebbe plausi e ringraziamenti.
Cristina dunque s’immedesima nella parte impossessandosi del suo malato: dà informazioni ad amici e parenti, risponde al telefono, parla con i sanitari, scende in farmacia, coordina le terapie, apprende la tecnica delle medicazioni delle quali poi, una volta dimesso il paziente, s’incaricherà lei stessa, andandolo a trovare a casa, portandogli quello che serve, facendogli lavaggi, fasciature, iniezioni. Cura uomini, donne e bambini, ma uomini più volentieri, perché meno capaci di provvedere a se stessi, e perciò con loro si può sentire doppiamente indispensabile, e perché gli uomini le piacciono più delle donne e dei bambini.
È già capitato alcune volte che, durante una delle visite a domicilio per cambiare garze, consegnare medicine, praticare massaggi o somministrare clisteri, almeno nel caso dei malati meno malati, lasciandosi trascinare dalla particolare intimità stabilitasi per forza maggiore, Cristina si sia sdraiata, senza particolari preavvisi, nel letto accanto al paziente, piacevolmente sorpreso, e abbia, delicatamente, fatto l’amore con lui, incurante dell’odore di malattia e di dovere condurre l’incontro, personalmente, da capo a fondo.
Con cautela, ma senza tentennamenti, in questi casi Cristina tocca, manipola e carezza, assaggia e bacia, inventa e gioca, tentando di non pesare, di non premere, di essere leggera come una piuma e insieme resistente come una pesista, per sollevare tra le braccia il suo paziente, sostenerlo, rigirarlo come occorre e, nel tempo giusto, guidare a buon fine l’impegnativo corpo a corpo. Il tutto con la stessa tranquilla energia con la quale rinnova le fasciature, sprimaccia i guanciali o rimbocca le lenzuola.
Non bisogna però pensare che sia la prospettiva della conclusione un poco irregolare delle sue cure a farle brillare gli occhi, a rinvigorirla o esaltarla quando giunge in vista di un malato abbastanza grave per i suoi gusti: la terapia straordinaria non influenza più di tanto la sua passione per il pronto soccorso e l’emergenza, capaci di per sé di strapparle assoluta dedizione. Il finale è un dettaglio che si è inventata per allegria sua, ma, probabilmente, ancor più, per quella altrui, e sarebbe ingiusto ricordarsi solo di questa particolare medicina alternativa e non delle lunghe ore di tradizionalissima assistenza, di fatica e veglia al capezzale.
Talvolta è lei stessa che in seguito racconta dello speciale trattamento, con forte effetto placebo ai fini della guarigione, né si astiene dal commentare – fintanto che si trova nel suo stato di esaltazione – i dettagli dell’impegno personale posto nella cura, della reazione positiva del paziente, della di lui piena soddisfazione, ma anche del forte sapore di medicina della sua pelle, del suo sudore, eventualmente anche del suo sperma.
Poi però, una volta guariti, i suoi casi per lo più smettono di interessarle, almeno in quel senso: non ha più fascino per lei l’amico risanato, in quanto non ha più bisogno di quella sua personalizzata e, forse, miracolosa terapia. È un uomo sano tra i sani, uguale a tutti gli altri e, senza più il vantaggio della malattia, per piacere a Cristina deve battersi con la normale concorrenza (e ci sono a volte stati dei problemi perché non sempre l’infermo rimesso a nuovo si è rassegnato a non interessare più dopo essere uscito dal letto).
La variante erotica che ha introdotto nelle sue cure non è a prima vista in linea con la sua ansia di eroismo: sembra piuttosto un capriccio del tutto estemporaneo. Eppure se lo concede, non tanto per autentico piacere della carne, quanto per frastornare chi molto la loda, per movimentare la routine che presto s’installa al capezzale del malato, per sconfiggere l’orribile normalità che nuovamente la minaccia. La svolta imprevedibile che imprime alla terapia torna invece a esaltarla, a farla sentire speciale, originale, irregolare, trionfante sulla noia che sempre s’insinua.
Non di rado, sebbene non ne vengano particolarmente accuditi, questi malati, dei quali in tutti i sensi s’impossessa, hanno anche delle mogli, spesso amiche di Cristina. E poiché, con una risata malandrina, lei può serenamente informare l’una o l’altra persona del coronamento della sua cura, è difficile che le legittime compagne dei suoi "casi" a lungo rimangano all’oscuro dell’accaduto. La maggior parte, in genere, preferisce tacere, grata della dedizione e anche della passione che, personalmente, non sarebbe più in grado di elargire. Chi invece avesse il coraggio di affrontarla, riceverebbe in cambio una lavata di capo da non dimenticare.
«Ma come ti permetti? Quando io ero il medico, l’infermiera, la segretaria e cameriera di tuo marito, tu dov’eri? A scopare con qualche tuo amichetto, immagino, o comunque te ne fregavi alla grande, non c’eri mai, ti ho lasciato mille messaggi e non ho mai avuto una risposta. Chi gli comprava le medicine? Chi andava ogni sei ore a fargli le medicazioni? Non che lui non si rallegrasse del fatto che tu non c’eri mai. Non ti credere, me l’ha spiegato che tipo sei e come lo metti in croce per spillargli i suoi soldi. Ma lascialo stare, lascialo vivere. Hai il coraggio di prendertela per una sveltina pomeridiana che gli ha fatto risparmiare due mesi di letto? Non hai visto come gira per casa senza più stampelle? Ringraziarmi dovresti, visto che hai anche economizzato sui soldi del medico, dell’infermiera, della cameriera e delle medicine. Oltretutto puoi stare tranquillissima, tuo marito te lo lascio tutto, non lo vorrei neanche dipinto: è un buon diavolo, era malato, aveva bisogno di cure, ma gli uomini veri, come piacciono a me, credimi, sono diversi. Va bene che era mezzo storpio e con le ferite ancora aperte, ma ti assicuro che la scopata non è stata granché. Anzi, è inutile che te lo assicuri, perché tu dovresti saperlo benissimo.»
Nella rete terapeutica venne a cadere un giorno anche il bel marito di Amélie. Non era stato tanto facile conquistarsi questo paziente, reduce da un’operazione allo stomaco, per via dell’implacabile spirito di servizio della sua povera moglie. Ma alla fine Cristina c’era riuscita, anche perché, un poco maliziosa com’è, le difficoltà le mettono voglia di misurarsi, stuzzicano il suo desiderio di essere indispensabile. Con Amélie, insomma, aveva una rivale, una moglie presente e attiva, ansiosa di rendersi utile anche di notte. Cristina fu perciò costretta a lavorare d’astuzia per poter applicare al completo la sua speciale cura.
C’era voluto il compleanno della suocera per costringere Amélie a lasciare per un po’ suo marito. Trattandosi di una malattia abbastanza seria, l’infermiera d’emergenza era accorsa di buon umore e subito si era allargata un poco nella vita del paziente, organizzando orari, dieta e cure in nome di quel diritto che si attribuiva per essere stata interpellata una volta, come il mediatore che si impossessa di un affare per averlo intravisto per primo. Essendo in quel periodo libera da altri impegni interessanti, non aveva lasciato passare giorno senza far visita al suo malato, sollecitando Amélie, non senza qualche successo, a contare su di lei, a scaricarle almeno le incombenze sanitarie più pesanti.
E quando i tempi le sembrarono maturi, l’infermo ancora abbastanza sofferente per non ribellarsi alle sue decisioni, ma non più tanto da non offrire una prestazione per lo meno adeguata, e quando lei stessa cominciò a sentire l’ombra della noia pesante che, per esperienza, sapeva di poter calmare in quell’unico modo, semplicemente pregò Amélie, sempre desiderosa di farsi in quattro: «Andresti a prendere i ragazzi che tra mezz’ora escono da scuola? Non è tanto lontano, un quarto d’ora a piedi. E visto che sei in strada, avrei bisogno di un po’ di pane per la cena. Sono stanca e vorrei finire con calma la medicazione. Me lo fai questo favore? Vi aspetterei qui e intanto approfitterei per riposarmi una mezz’ora e magari mettere un po’ a posto la stanza».
Non appena la premurosa amica ebbe chiuso la porta di casa dietro di sé, con assoluta tranquillità , sicura che quello che stava facendo sarebbe stato accettato come una concessione straordinaria, si tolse maglietta, scarpe da ginnastica e jeans – biancheria non ne portava mai –, scostò la coperta e, nuda e uniformemente abbronzata – costumi non ne portava mai –, si sdraiò accanto al suo paziente, impigiamato e bianco per la lunga malattia, provvedendo a rinvigorirlo prima e a definitivamente spossarlo poi. Quando, poco dopo, Amélie rientrò, ansiosa e frettolosa, con i figli di Cristina e il sacchetto del pane sotto braccio, trovò suo marito placidamente addormentato. «Povero caro» commentò contenta, «si vede proprio che sta meglio se riesce a dormire in pieno giorno.» «È merito tuo» disse poi all’amica che, rivestita e rassettata, aveva l’aria di chi, dopo lunghe ore faticose, è riuscito infine, con un breve riposo, a restaurarsi un poco.
Com’era prevedibile, Amélie venne a sapere assai presto in che modo fosse stata coronata la terapia, ma non ebbe il coraggio di fare rimostranze né all’uno né all’altra. Si ripromise solo di non ricorrere più all’aiuto dell’amica, almeno in circostanze simili, e la solidarietà si ricucì senza danni visibili o, anzi, mai davvero si strappò: restò soltanto tra loro quel certo non detto, fino a quando, come al solito, Cristina non preferì chiarirsi, chissà se per bisogno di scaricarsi la coscienza o se per paura di perdere definitivamente un paziente che avrebbe potuto avere ancora bisogno di cure.
«Guarda che il mio è stato un puro esercizio fisico» spiegò ad Amélie, « senza coinvolgimenti di alcun tipo. Ne avevo bisogno io, ma soprattutto lui. Io sono più vecchia di te, più immorale e più bella e dunque, se permetti, in questo campo ti posso soltanto dare delle lezioni. Se non ti offendi, gli ho fatto una beneficenza, anzi l’ho fatta a entrambi perché te l’ho rimesso a nuovo. E chissà che quelle due o tre cose divertenti che siamo riusciti a fare nonostante ferita e bende non gli venga voglia di insegnarle un giorno anche a te.»
Rimase poi a guardare, non senza soddisfazione, come Amélie inghiottiva l’aria e le parole, incapace di tirarne fuori una sola per difendersi, per accusare o, semplicemente, per ribattere.
Con qualche altra amica o conoscente è ovviamente andata meno liscia ma, essendo Cristina insuperabile, oltre che nella dedizione in caso di sventura, anche nel parlare con precisione di termini e con logica – sua – ferrea e inattaccabile, le vertenze del dopo terapia si sono quasi sempre concluse in una specie di armistizio. Nessuna ha mai davvero sbattuto la porta, in parte perché smontata dalla violenta controffensiva verbale, in parte perché un’infermiera così, esperta e disponibile a tutte le ore del giorno e della notte, dove mai la si può trovare?
Ludovica
dp n="22" folio="24" ? dp n="23" folio="25" ?Nel gruppo delle amiche Ludovica era tra le più giovani e, probabilmente, la più bella. Le volevano bene le altre e si alternavano a starle vicino per darle consigli, distrarla, farla ridere, insegnarle a vivere. Ma per lei esisteva solo Michele. Se era allegra era per lui, se era triste era per lui. Da lui dipendevano i suoi umori, le sue giornate. Anche lei voleva bene alle amiche, ma se...
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