UNA MADRE KAPÃ’
È sera e nella piazzetta del paese si raduna la gente. Suona la banda di Vigo di Fassa, con i maestri nei tipici costumi della valle. Il giovane direttore ha la serietà e l’espressione dei grandi conduttori: quelli che invece di venire a Bellamonte vanno a Salisburgo o a Vienna o a Bayreuth.
Un’atmosfera particolare perché vi partecipano anche i villeggianti, i «siori» giunti da Milano, Parma, Bologna, i grandi del mondo che hanno bisogno di riposo.
I paesani hanno indossato l’abito migliore, per esprimere la loro ospitalità .
Potessero, caccerebbero tutti dalla valle: quei «foresti» che ti fanno sentire asini da parata mentre loro sono cavalli da corsa. Risuonano polke, mazurche, marce trionfali e gli occhi dei presenti sono dentro uno strumento, nei fori di un flauto o nella bocca di una tromba.
I bambini si impongono con quella dolce mostruosità che sa di Cupido. Uno si esibisce in una piroetta e finisce per terra.
Avevo anch’io sei, forse sette anni. Era il 1943. I miei capelli biondi si raccoglievano in due splendide banane di cui ero fiero: sembravo una bambina.
Ero nudo dentro una tinozza, nella stalla. Mia madre mi «tosava» per disinfestarmi dai pidocchi.
Piangevo i miei capelli e i loro abitanti.
dp n="6" folio="6" ? Ricordi di un bambino di guerra.
Il nonno raccontava dei cecchini tedeschi, delle marce estenuanti... Anche i bambini allora erano in trincea...
Le ispezioni delle pattuglie tedesche. Cercavano lo zio partigiano, sepolto in un covone di fieno. Noi bambini dovevamo giocare facendo finta di niente. Mia nonna offriva da bere e sperava nella forza della grappa e anche in qualche sorriso che le donne lanciavano come tante puttane. Se si guarda un culo maestoso, e nonna Virginia in questo era un portento, non si sta a cercare nei covoni...
Avevano consumato molta grappa, palpato il culo della nonna, ma l’onore era rimasto salvo.
Era ancora per terra quel bambino biondo quando fu colpito da un ceffone di una madre kapò che risuonò nella valle.
È rimasto attonito, incredulo, e ha guardato gli altri bambini. Si è visto diverso, mostruosamente diverso, svergognato proprio mentre il suo comportamento tendeva a farsi notare per non rimanere nell’ombra, invisibile.
Si è specchiato in quei bambini e si è sentito un mostro. Dopo qualche attimo è scoppiato a piangere: per il dolore fisico, ma ancor più per il male di non esistere. Di essere stato ucciso.
Ha guardato la madre. La sua bocca da Terzo Reich si muoveva ancora, aveva lo sguardo di un dittatore folle, di un Saturno che mangia i propri figli.
Arriva la seconda sberla: disturbava il Va’ pensiero. Il pianto adesso è funebre: sembra una nenia da cimitero. Racconta la morte di un bambino.
Quell’oggetto repellente gli si avvicina e gli ricorda che sta sporcando la tutina nuova. Lo tira per un braccio. Strattonandolo cerca di metterlo in ordine. Ha il volto di un piccolo Cristo crocifisso da una Madonna impazzita.
Si avvicina una bambina, gli accarezza i capelli. Lo prende per il braccio, ha in mano un fiore e glielo dà . Le abbozza un sorriso tra le lacrime. Guarda in alto il volto della madre. Severa, sprezzante, terribilmente materna. Ora ha un fiore e per mano quella bambina che tenta persino di pulirgli il viso. Impiastricciato di lacrime e di moccio.
Le sue gambe riprendono a muoversi. Dopo un po’ va verso la madre e le porta quel fiore e aspetta invano una carezza. Riprende a girare. Un girotondo che non ha nulla da spartire con la banda di Vigo di Fassa che invece sembra rendere omaggio a Francesco Giuseppe con una marcia che sa di potere e di miseria.
ALLE OTTO IN UFFICIO
Per arrivare in ufficio alle otto basta che mi svegli alle sette e un quarto. Mi sarei volentieri alzato all’ultimo momento poiché la giornata di ieri è stata infernale: guidata da un nemico misterioso che inventa ogni imprevisto per metterti in difficoltà e farti sentire inadeguato. Ma alle sei e venticinque il ragioniere del piano di sopra si alza e come accade spesso litiga con la moglie, la quale, a dire il vero, è piuttosto cocciuta.
Il ragioniere desidera che sul collo delle camicie non ci siano quelle fastidiose piegoline che, sostiene, denotano uno scarso interesse della moglie e lo espongono al ridicolo davanti agli altri ragionieri, tutti perfettamente in ordine. La signora risponde di non vedere assolutamente ciò che invece al marito appare un’enormità . E sull’esistenza della piega al collo della camicia si scatena un putiferio che sveglierebbe un sordo. Ciò che disturba in particolare è quando il ragioniere, gridando come un forsennato, invita la moglie a non urlare per non infastidire i vicini. Occorre pazienza, anche se ciò non mi ha impedito di mandare improperi che hanno svegliato mia moglie. Rabbiosa per essere stata disturbata da me e non dal ragioniere del piano di sopra che ha emesso rumori di ben maggiore intensità e di più lunga durata.
Per dare un taglio a quell’inizio infelice mi metto a fischiare, naturalmente il solito pezzo che, essendo difficilissimo, nella mia interpretazione non richiama propriamente l’orchestra della Scala diretta da Riccardo Muti. Sì, è la sequenza del Bolero di Ravel con quel suo crescendo, ma soprattutto con la sua capacità di muovere i corpi. Del resto è stato composto per un balletto. Mi avvio al bagno, naturalmente occupato: all’ingresso c’è mio figlio, che senza dire «buongiorno» e con tono arrogante: «Come te lo devo dire, cazzo, che quel motivo porta nera, mi rovini la giornata!». Ha una mano dentro il pigiama e vedo gesti sconci, anche se faccio finta di guardare altrove, come si conviene a un padre. L’incontro è sgradevole nel complesso, perché mio figlio è maleducato, perché mi ricorda sua madre, che sopporto ma non mi piace: venticinque anni di matrimonio sono una tomba egizia dell’amore, ridotto alla mummia di Tutankhamon. Chiedo di lasciare libero il bagno e ribadisco il mio rifiuto di parlare con un primitivo che fa gesti magici per un motivo irreale, poiché non esistono elementi per legare il Bolero... Avendolo nominato anche verbalmente, si sente un urlo e la porta del bagno che sbatte, con lui dentro e io fuori. Per fortuna si avverte anche il brontolare del caffè, che mi pare interpreti bene la mia protesta. Il caffè è pessimo e in più chi l’ha preparato si è voluta sedere a farmi compagnia mentre lo prendo. Il motivo diventa subito chiaro: ha necessità di duecentomilalire per la bolletta del telefono che nel bimestre ha raggiunto, a suo dire, cifre spaventose. È chiaro, porco cane, che se si continua a telefonare aumentano gli scatti, ma non è chiaro perché si continui a farlo. Per che cosa, se l’unico compito di mia moglie è di occuparsi della casa, delle incombenze di famiglia che non hanno bisogno di telefonate interurbane o intercontinentali. Non deve fare una ricerca di mercato per comperare un chilo di riso. Non occorre sapere come va la produzione in Cina. È un vero attentato alle mie finanze e alla mia pace: il mio umore è denaro-dipendente. Con trecentomila in tasca sono più contento che con diecimila. Come al solito non risponde alle mie considerazioni, fa finta di non sentire. Solo quando li ha nelle mani si vendica. Conoscendo la strategia generalmente glieli consegno proprio nello stesso attimo in cui chiudo dietro alle spalle la porta di casa e me ne vado. Intanto entro in bagno. Mi concentro sulla mia faccia, anche per evitare di far funzionare il naso e dunque avvertire una puzza di merda vomitevole. Beati quelli che hanno tre bagni. Mi rado con la lametta e ciò richiede concentrazione e tranquillità . E poiché sono incazzato, non posso stupirmi quando vedo una macchia rossa sul bianco della schiuma del sapone! Non faccio tragedie, anche se alla mia età , con un viso non proprio alla Delon e con qualche ruga, persino un taglietto deturpa. Occorre poi tempo per la coagulazione sperando che l’emostatico funzioni, altrimenti l’emorragia si farebbe inarrestabile con la vista che si offusca, la pressione che cade, fino a svenire e, Dio non voglia, a crepare. Evito di guardare il pube, l’idea di un piccolo cadavere mi rattrista, mi verrebbe voglia di spaccare lo specchio: per l’amor di Dio, porta scalogna, altro che il Bolero di Ravel. Sarà stata una coincidenza, ma quei pensieri si sono coniugati a un tonfo da catastrofe. Chiedo cosa è successo: qualche cosa al ragioniere del piano di sopra. Forse è morto, meglio far finta di niente, per non incorrere in rogne. È troppo tardi ora, non potrei certo accompagnarlo all’ospedale e tanto meno all’obitorio, con le formalità della denuncia. Ognuno pensi alle grane proprie e dal ragioniere già ho dovuto subire un risveglio precoce.
Quando chiudo la porta di casa e scendo i primi gradini, mi pare di incontrare, sul pianerottolo, la felicità .
Non è possibile, quel tanghero ha parcheggiato l’auto in modo che per uscire dovrei sudare, rischiare di strisciarla e comunque faticare per un quarto d’ora. Impulsivamente sferro due calci alla fiancata destra di quella macchina con la precisa sensazione di colpire i testicoli del suo proprietario, poi prendo carta e matita per massacrarlo letteralmente. Stavo rileggendo per essere sicuro di non aver fatto errori di ortografia quando arriva, con un gran sorriso, abito blu. E non mi resta che dire: «Avvocato buongiorno, come sta la signora...». Nel condominio si dice sia il candidato a diventare il direttore dell’Enel della circoscrizione e ciò significa che con un suo cenno potrebbe lasciare il mio appartamento al buio per sempre.
Sono un figlio di puttana! Come si può scrivere un biglietto che sembra un proclama dell’Inquisizione e poi tenerselo in tasca come se l’avessi indirizzato a me.
Uscire dal garage il mattino a quell’ora è una tragedia. Occorre immettersi in una strada stretta tra una fila continua di macchine e, non avendo la precedenza, come sempre quando da un luogo privato si entra in suolo pubblico, le macchine che arrivano come tanti carri armati in stato di guerra non sono disposte a concedere la grazia. Ditemi come sia possibile, rispettando le regole, arrivare in ufficio alle otto, per evitare le ire del capo che giunge in anticipo per rilevare tutti i ritardi. L’unico modo è buttarsi rischiando la propria vita e l’incolumità dell’auto. Dunque rischio ai danni di mia madre. Non capisco cosa c’entri. Non ho prove che si sia comportata male nei confronti di mio padre e certamente non ha fatto la puttana. Potrebbe essere incorsa in qualche leggerezza, ma puttana no. Per giustizia e amore materno devo rispondere: «Puttana sarà sua madre, signore, anzi mi pare proprio di averla riconosciuta in un casino a quei tempi». A dir la verità non ero mai andato in una di quelle case, non ci sarei potuto andare non avendo compiuto diciott’anni e poi le hanno chiuse.
Ora sono davanti a quel coglione, che seraficamente mi fa le corna con una nonchalance che mi manda in bestia. Ma cosa ho fatto? Sto solo difendendo il diritto di andare al lavoro, di dare il mio apporto alla società ...
dp n="12" folio="12" ? A dire il vero servo a poco, sono convinto che il mio ufficio sia solo una complicazione dell’attività sociale.
Si occupa delle pensioni di guerra, una guerra di cinquantaquattro anni fa. Ma comunque quel tale non sa niente ed esigo rispetto. Mi vien voglia di scendere... Non vale la pena, eppoi, chi dice che quel gesto porti rogna? Nelle civiltà della Dea Madre simboleggiava il toro, dunque la forza del Dio. È come se riconoscesse che ho un affare da toro, certamente un’attribuzione generosa e indubbiamente esagerata, ma non offensiva. Insinuare che altri tori hanno copulato con tua moglie... è un errore da vulgata... E se proprio vogliono fotterla è un riconoscimento che ho una moglie attraente... Sporgo la testa dal finestrino e dico: «Signore, lei non può essere becco perché ha una moglie che fa schifo, buongiorno». Quello scende sul serio, con rabbia; ho il tempo per chiudere il finestrino, per bloccare le porte e per sentirmi dire qualcosa di irripetibile che riguarda sempre mia moglie. L’idea che una moglie possa arrivare a tanto non è accettabile e occorre reagire.
Lasciamo stare i vigili, che servono solo a complicare la circolazione, con quella violenza da fischietto, quella loro arroganza legata alla consapevolezza che se vogliono ti fanno arrivare tardi.
Non ho mai capito perché la centralinista che si incontra appena varcata la porta dei nuovi uffici per il pensionamento di guerra mi guardi con quell’aria tra l’estraneità e il fastidio. Ha un livello retributivo infimo rispetto al mio, si aggiunga che è brutta e che in ogni caso non le ho mai dato motivo per questa inaccettabile scortesia.
Giunto al mio tavolo di lavoro chiudo gli occhi e la immagino mentre le strappo di dosso quegli abitini da supermercato per infilarle questo mazzo di matite in un paio di luoghi che conosco bene e poi attaccarle queste puntine attorno ai capezzoli. Pretendo rispetto. Sono un dipendente puntuale e impegnato... a dire il vero non faccio niente. Ma sia chiaro, perché non c’è niente da fare. Preferirei di gran lunga sgobbare senza sosta e non guardare quest’orologio, materializzazione di un tempo che passa... anzi, che non passa mai. Ho spesso l’impressione che sia rotto, rallentato e persino che congiuri contro di me. In questo ufficio si fermano anche i pensieri. Per muovermi devo sollevare pesanti pezzi del mio corpo come se mi fossi trasformato in un mammut e appartenessi a un pianeta che si è allontanato dal sole e si è stufato di girare. Capisco perché l’ozio abbia generato il filosofare, ma per filosofare non dovrebbero esistere i telefoni. Naturalmente è uno che ha sbagliato numero e io perdo la pazienza. Mi ha cancellato le idee, stia più attento perbacco o è rincoglionito e non sa premere dei tasti? Ha il coraggio di arrabbiarsi e di dirmi si calmi e siccome gli dico di comporre i numeri con più calma, mi dà dello stronzo. Fosse qui, gli spaccherei la faccia, di più, gli strapperei i coglioni e poi, messogli un tovagliolo ben disteso attorno al collo, glieli farei mangiare. Se quella centralinista non mi fosse nemica, potrei cercare di capire, di sapere chi si è permesso di darmi dello stronzo... Mi devo calmare, diamo un’occhiata a questa pratica: Lorenzon Guglielmo, di anni 74, residente a Pordenone in via Caduti per la patria 18, ritiene di aver diritto a una pensione di guerra per essere stato qualche settimana attendente del comandante di una batteria di stanza a Bolzano, anzi a Bozen. Se ne accorge adesso? Come si fa? occorre un’altra guerra per attivare un po’ l’ufficio o far passare il decreto secondo cui anche i figli dei pensionati di guerra hanno diritto alla pensione per trasposizione dei traumi, almeno quelli psicologici. Si corre il rischio di essere sbattuti fuori per chiusura di attività . Cosa che mi farebbe piacere per quella stronza seduta al centralino, ma anche per me sarebbero dolori perché è vero che qui non faccio niente, ma è altrettanto certo che non so fare nient’altro.
dp n="14" folio="14" ? Oggi dovrò stare leggero, prenderò un toast al formaggio, un bicchiere d’acqua minerale frizzante e un caffè Hag. Non credo tanto che sia privo di effetti, ma certamente innervosirà meno di quello normale e oggi, con lo stress della vita, anche piccole prevenzioni contribuiscono a fare grandi differenze. Così evito anche la coda e non verrò infastidito dai soliti furbi che chiedono di passarti davanti perché hanno un impegno di lavoro urgente o perché devono prendere l’aereo... Ma dove vanno? Lavorano nello stesso dipartimento per le pensioni di guerra. È un modo per violentare i diritti che uno si è conquistato facendo la fila. Un sopruso e io non ci sto: «Mi dispiace, ho anch’io un aereo che sta per partire». L’alternativa è l’orario spezzato, ma la sola idea di ritornare a casa, sia pure per spaghetti con pomodoro e basilico e un ossobuco di vitello che mi fa impazzire, e vedere quella cara persona che già devo sopportare la sera, mi fa trasformare il toast in uno di quei tiramisù che procurano persino erezione. L’unica telefonata della giornata doveva arrivare, naturalmente, mentre ero a pranzo, a quello spuntino, e la signorina, intendo quella troia, non ha segnato il nome. Ha ordine di chiedere nome e numero di telefono solo per chi cerca il capo ufficio. «Mi può dire se era una voce di donna o maschile?»
«Non so, non mi...