
- 400 pagine
- Italian
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Il ventre di Napoli
Informazioni su questo libro
Il ventre di Napoli è il primo grande reportage letterario italiano, tributo lucido e appassionato alla sua città e alla sua professione: "Dal primo giorno che ho scritto, io non ho mai voluto né saputo essere altro che una fedele e umile cronista della mia memoria".
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Informazioni
Print ISBN
9788817054850eBook ISBN
9788858624210IL VENTRE DI NAPOLI
(VENTI ANNI FA)
BISOGNA SVENTRARE NAPOLI
Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?
Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l’avete percorsa tutta?
Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio.
Da questa via partono tante altre viottole, che portano i nomi delle arti: la Zabatteria, i Coltellai, gli Spadari, i Taffettanari, i Materassari, e via di seguito. Sono, queste viottole – questa è la sola differenza – molto più strette dei Mercanti, ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in modo diverso: di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico.
Varie strade conducono dall’alto al quartiere di Porto: sono ripidissime, strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo a ogni bottega bruna, arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove gli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte, cola sempre una feccia di tintura multicolore. Un’altra strada, le così dette Gradelle di Santa Barbara, ha anche la sua originalità : da una parte e dall’altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio, e, per ozio di infelici disoccupate, nel giorno, e per cupo odio contro l’uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe: e tutto resta, su questi gradini, così che la gente pulita non osa passarvi più. Vi è un’altra strada, che dietro l’educandato di San Marcellino conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano i Lanzieri: veramente non è una strada, è un angiporto, una specie di canale nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un villaggio africano. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è lubrico e lo stomaco spasima.
In sezione Vicaria, vi siete stato?
Sopra tutte le strade che la traversano, una sola è pulita, la via del Duomo: tutte le altre sono rappresentazioni della vecchia Napoli, affogate, brune, con le case puntellate, che cadono per vecchiaia. Vi è un vicolo del Sole, detto così perché il sole non vi entra mai; vi è un vicolo del Settimo Cielo, appunto per l’altitudine di una strisciolina di cielo, che apparisce fra le altissime e antiche case. Attorno alla piazzetta dei SS. Apostoli vi sono tre o quattro stradette; Grotta della Marra, Santa Maria a Vertecœli, vicolo della Campana, dove vive una popolazione magra e pallida, appestata dalla fabbrica di tabacco che è lì, appestata dalla propria sudiceria; e tutti i dintorni di Castelcapuano, di questa grande e storica Vicaria, sembrano proprio il suo ambiente, vale a dire putridume materiale e morale, su cui sorge l’estremo portato di questa società povera e necessariamente corrotta: la galera.
La sezione Mercato? Ah, già : quella storica, dove Masaniello ha fatto la rivoluzione, dove hanno tagliato il capo a Corradino di Svevia; sì, sì, ne hanno parlato drammaturghi e poeti. Se ne traversa un lembo, venendo in carrozza, dalla Ferrovia, ma si esce subito alla Marina. Al diavolo la poesia e il dramma! In sezione Mercato, niuna strada è pulita; pare che da anni non ci passi mai lo spazzino; ed è forse la sporcizia di un giorno.
Ivi è il Lavinaio, la grande fonte, dove si lavano i cenci luridi della vecchia e povera Napoli: il Lavinaio, che è il grande ruscello, dove il luridume viene a detergersi superficialmente; tanto che per insultare bonariamente un napoletano, sul proprio napoletanesimo, gli si dice: «Sei proprio del Lavinaio». Nella sezione Mercato, vi sono i sette vicoli della Duchesca, in uno dei quali, ho letto un dispaccio, vi sono stati in un’ora trenta casi; vi è il vicolo del Cavalcatoio; vi è il vicolo di Sant’Arcangelo a Baiano. Io sono una donna e non posso dirvi che sieno queste strade, poiché ivi l’abbiezione diventa così profonda, così miseranda, la natura umana si degrada talmente, che vengono alla faccia le fiamme della vergogna.
Sventrare Napoli? Credete che basterà ? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà : bisogna rifare.
Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi le case che sono lesionate dalla umidità , dove al pianterreno vi è il fango e all’ultimo piano si brucia nell’estate e si gela nell’inverno; dove le scale sono ricettacoli d’immondizie; nei cui pozzi, da cui si attinge acqua così penosamente, vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti; e che hanno tutto un pot-bouille, una cosidetta vinella, una corticina interna in cui le serve buttano tutto; il cui sistema di latrine, quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione.
Voi non potrete lasciare in piedi le case, nelle cui piccole stanze sono agglomerate mai meno di quattro persone, dove vi sono galline e piccioni, gatti sfiancati e cani lebbrosi; case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto e si muore nella medesima stanza, dove altri dormono e mangiano; case i cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, carceri criminali della Vicaria, sotto il livello del suolo.
Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi i cavalcavia che congiungono le case; né quelle ignobili costruzioni di legno che si sospendono a certe muraglie di case, né quei portoncini angusti, né vicoli ciechi, né quegli angiporti, né quei supportici; voi non potrete lasciare in piedi i fondaci.
Voi non potrete lasciare in piedi certe case dove al primo piano è un’agenzia di pegni, al secondo si affittano camere a studenti, al terzo si fabbricano i fuochi artificiali: certe altre dove al pianterreno vi è un bigliardo, al primo piano un albergo dove si pagano tre soldi per notte, al secondo una raccolta di poverette, al terzo un deposito di cenci.
Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la salute e la coscienza a quella povera gente, per insegnare loro come si vive – essi sanno morire, come avete visto! – per dir loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla.
QUELLO CHE GUADAGNANO
Eppure la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz’aria, senza luce, senza igiene, diguazzando nei ruscelli neri, scavalcando monti d’immondizie, respirando miasmi e bevendo un’acqua corrotta, non è una gente bestiale, selvaggia, oziosa; non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura. Questo popolo, per sua naturale gentilezza, ama le case bianche e le colline: onde il giorno di Ognissanti, quando, da Napoli, tutta la gente buona porta corone ai morti, sul colle di Poggioreale, in quel cimitero pieno di fiori, di uccelli, di profumi, di marmi, vi è chi l’ha intesa gentilmente esclamare: «o Gesù, vurria murì, pe sta ccà !».
Questo popolo ama i colori allegri, esso che adorna di nappe e nappine i cavalli dei carri, che si adorna di pennacchietti multicolori nei giorni di festa, che porta i fazzoletti scarlatti al collo, che mette un pomodoro sopra un sacco di farina per ottenere un effetto pittorico e che ha creato un monumento di ottoni scintillanti, di legni dipinti, di limoni fragranti, di bicchieri e di bottiglie, un monumentino che è una festa degli occhi: il banco dell’acquaiuolo.
Questo popolo che ama la musica e la fa, che canta così amorosamente e malinconiosamente, tanto che le sue canzoni danno uno struggimento al core e sono la più invincibile nostalgia per colui che è lontano, ha una sentimentalità espansiva, che si diffonde nell’armonia musicale.
Non è dunque una razza di animali, che si compiace del suo fango; non è dunque una razza inferiore che presceglie l’orrido fra il brutto e cerca volenterosa il sudiciume; non si merita la sorte che le cose gl’impongono; saprebbe apprezzare la civiltà , visto che quella pochina elargitagli, se l’ha subito assimilata; meriterebbe di esser felice.
Abita laggiù, per forza.
È la miseria sua, costituzionale, organica, così intensa, così profonda, che cento Opere Pie non arrivano a debellare, che la carità privata, fluidissima, non arriva a vincere; non la miseria dell’ozioso, badate bene, ma la miseria di colui che fatica quattordici ore al giorno.
Questo lavoratore, quest’operaio non può pagare un affitto di casa che superi le quindici lire il mese: e deve essere un operaio fortunato, vi è chi ne paga dieci, chi ne paga sette, chi ne paga cinque; questi ultimi formano la grande massa del popolo. Anni fa, una compagnia cooperativa edificò, verso Capodimonte, un falansterio di case operaie, chiare, pulite, strettine, ma infine igieniche: per quanto restringesse i prezzi, non potette dare i suoi appartamentini a meno di trentaquattro lire al mese.
Nessuno operaio vi andò.
Vi andarono degli impiegati con le famiglie, qualche pensionato, gli sposetti poveri, insomma una mezza borghesia che vuol nascondere la sua miseria e avere la scaletta di marmo.
Quel grandissimo edificio resta lì a far prova della miseria napoletana: anzi, gli scrupolosi e borghesi che vi abitano, punti nel loro presuntuoso amor proprio, da coloro che li accusavano di abitare le case operaie, hanno fatto dipingere a grandi caratteri questa scritta sull’ingresso maggiore: le case della Cooperativa non sono case operaie. Iscrizione crudele e superba.
Trentaquattro lire? Queste trentaquattro lire un lavoratore napoletano le guadagna in un mese: chi porta una lira di giornata a casa, si stima felice.
Le mercedi sono scarsissime, in quasi tutte le professioni, in tutt’i mestieri. Napoli è il paese dove meno costa l’opera tipografica; tutti lo sanno: gli operai tipografi sono pagati un terzo meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano cinque lire a Milano, quattro a Roma, ne guadagnano due a Napoli, tanto che è in questo benedetto e infelice paese, dove più facilmente nascono e vivono certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare neppure tre numeri. I sarti, i calzolai, i muratori, i falegnami sono pagati nella medesima misura; una lira, venticinque soldi, al più, trenta soldi al giorno per dodici ore di lavoro, talvolta penosissimo. I tagliatori di guanti guadagnano novanta centesimi al giorno. E notate che la gioventù elegante di Napoli, è la meglio vestita d’Italia: che a Napoli si fanno le più belle scarpe e i più bei mobili economici; notate che Napoli produce i migliori guanti. Altri mestieri inferiori stabiliscono la mercede a settantacinque centesimi, a dodici soldi, a dieci soldi. Per questo essi non possono pagare più di cinque, sette, dieci lire il mese di pigione e come la miseria incombe, la donna, la moglie, la madre, tutte quelle che hanno già molto partorito, che hanno allattato, tutte quelle che dovrebbero lavorare in casa, cercano lavoro, fuori.
Fortunate quelle che trovano un posto alla Fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come modiste, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese; pure sembra loro fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile, si dà alla domesticità .
La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un’ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l’uno e corrono continuamente da una casa all’altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito.
Queste serve trovano anche il tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent’anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.
Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant’anni, all’ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portate via il colera!
E tutti gli altri mestieri ambulanti femminili, lavandaie, pettinatrici, stiratrici a giornata, venditrici di spassatiempo, rimpagliatrici di seggiole (mpagliaseggie), mestieri che le espongono a tutte le intemperie, a tutti gli accidenti, a una quantità di malattie, mestieri pesanti o nauseanti, non fanno guadagnare a quelle disgraziate più di dieci soldi, quindici soldi al giorno. Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno economia e si maritano.
Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.
Me ne rammento una: aveva tre figli, un piccolino, specialmente, bellissimo. Il bimbo aveva già due anni ed essa gli dava ancora il latte, non aveva altro da dargli da mangiare: questo bimbetto l’aspettava, ogni sera, seduto sullo scalino del basso. Diceva il medico dell’assistenza pubblica: «Levagli il latte, ché ti si ammala». Ella chinava il capo: non poteva levargli il latte. Si ammalò di tifo, il bimbo; le morì. Ella mondava le patate, in una cucina, e si lamentava, sottovoce: «Figlio mio, figlio mio, io t’aveva da accidere, io t’aveva da fa murì! O che mamma cana che ssò stata! Figlio mio, e chi m’aspetta cchiù, la sera, mocc’ ’a porta?».
Il lavoro dei fanciulli? Ahimè, le madri sono molto contente, quando un cocchiere signorile vuol prendere per mozzo un fanciullo di dodici anni, dandogli solo da mangiare; sono molto contente, quando un mastro di bottega lo piglia, facendolo lavorare come un cane e dandogli solo la minestra, la sera; la pietosa madre gli dà un soldo per la colazione, la mattina.
Le sarte, le modiste, le fioraie, le bustaie, prendono per apprendiste delle fanciullette dodicenni, che sono, in realtà , delle piccole serve e che guadagnano cinque soldi la settimana. Ma, per lo più, queste creature restano a casa o nella strada, tutto il giorno.
Nelle campagne, il figlio è una gioia, è un soccorso, è una sorgente di agiatezza; in Napoli rappresenta una cura di più, una pena materna, una sorgente di lagrime e di fame.
Ascoltate un poco, quando una operaia napoletana nomina i suoi figli. Dice: le creature, e lo dice con tanta dolcezza malinconica, con tanta materna pietà , con un amore così doloroso, che vi par di conoscere tutta, acutamente, la intensità della miseria napoletana.
QUELLO CHE MANGIANO
Un giorno, un industriale napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava, il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse; poi andò scemando. ...
Indice dei contenuti
- Cover
- BUR
- Frontespizio
- Prefazione
- Cronologia della vita e delle opere
- Bibliografia Essenziale
- Il ventre di napoli
- Il ventre di napoli (venti anni fa)
- Il ventre di napoli (adesso)
- L’anima di napoli