THÉRÈSE RAQUIN

- 216 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Théresè Raquin
Informazioni su questo libro
Varcare la soglia del passage del Pont-Neuf, dove vivono le anime nere protagoniste di Thérèse Raquin, significa scendere dritto all'inferno: Thérèse e Laurent, gli amanti assassini, non sfigurerebbero tra i dannati della Caina. Ai personaggi minori è riservato, invece, il limbo grottesco degli stupidi. E lo spietato ecce homo di Zola richiederebbe un'avvertenza terribile e familiare: lasciate ogni speranza, voi ch'entrate."
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Informazioni
Print ISBN
9788817018692eBook ISBN
97888586026761
In fondo a Rue Guénégaud, venendo dai lungosenna, si trova il passage del Pont-Neuf, una specie di corridoio stretto e buio che congiunge Rue Mazarine a Rue de Seine. È un passage che non misura più di trenta passi di lunghezza e due di larghezza; è lastricato di pietre giallastre, consumate, sconnesse, trasudanti sempre un’acre umidità; la tettoia a vetri che lo ricopre, con spigoli ad angolo retto, nereggia di lerciume.
Nei bei giorni d’estate, quando un sole impietoso infiamma le strade, un opaco lucore filtra dai vetri sudici e stagna miserevole nel passage. Nelle brutte giornate d’inverno, nelle mattine nebbiose, i vetri non diffondono che tenebra sulle selci sdrucciolose, quasi una notte imbrattata e laida.
A sinistra si aprono delle botteghe buie, basse, tarchiate, esalanti freddi aliti di sottosuolo. Ci sono venditori di libri vecchi, di giocattoli, di imballaggi di cartone – le vetrine, grigie di polvere, dormono indistintamente nell’ombra; i vetri, a piccoli riquadri, venano le merci esposte di strani riflessi verdognoli; al di là, dietro alle vetrine, le botteghe dense di tenebre sono lugubri antri dove si agitano forme bizzarre.
A destra, per tutta la lunghezza del passage, corre un muro contro il quale i bottegai del lato di fronte hanno addossato stretti armadi; oggetti indefinibili, merci dimenticate chi sa da quanti anni giacciono su leggere mensole dipinte di un orribile marrone. Una venditrice di gioielli finti ha trovato da sistemarsi in uno di questi armadi; vende anelli da quindici soldi delicatamente adagiati su un letto di velluto blu, in fondo a una scatola di mogano.
Al disopra della tettoia a vetri il muro si erge nero, grossolanamente intonacato, come coperto di lebbra e deturpato da cicatrici.
Il passage del Pont-Neuf non è fatto per il passeggio. Lo si percorre per evitare un tratto più lungo di strada, per guadagnare qualche minuto. Vi passa gente indaffarata che non pensa ad altro che a camminare speditamente davanti a sé. Vi si vedono apprendisti in grembiule da fatica, operaie che vanno a consegnare il lavoro, uomini e donne con pacchi sotto il braccio; e poi dei vecchi che si attardano nel torbido crepuscolo calante dalle vetrate e frotte di bambini che all’uscita della scuola vengono lì a far chiasso, correndo, martellando le selci con gli zoccoli. Per tutta la giornata è un rumore secco e frettoloso di passi risonanti sulla pietra con una irregolarità molesta; nessuno parla, nessuno si ferma; ognuno corre alle proprie occupazioni, la testa bassa, l’andatura svelta, senza degnare i negozi di una sola occhiata. I bottegai guardano inquieti i passanti che per miracolo sostano davanti alle loro vetrine.
La sera, tre lampioni a gas dai paralumi pesanti e squadrati stenebrano il passage. Questi lampioni, appesi alla tettoia a vetri che chiazzano di fulvi barbagli, lasciano cadere all’intorno tremuli anelli di luce pallida che a tratti sembrano svanire. Il passage prende in quell’ora l’aspetto sinistro di un covo di delinquenti; ampie ombre si allungano sul selciato, aliti umidi spirano dalla strada; si direbbe un cunicolo appena rischiarato da tre lampade funerarie. Per tutta illuminazione i negozianti si accontentano dei magri raggi riflessi dai lampioni sulle vetrine; se mai accendono, all’interno, una lampada con paralume che posano su un angolo del banco, e i passanti possono allora distinguere qualcosa in fondo a quegli antri dove il giorno è abitato dalla notte. Lungo la fila nereggiante delle vetrine risplendono i vetri di un venditore di cartone: due lampade a olio fendono l’ombra con due gialle fiamme. E dall’altro lato una candela, infissa nella boccia di un quinquet, depone stelle di luce nella scatola di gioielli finti. La venditrice sonnecchia in fondo all’armadio, le mani nascoste sotto lo scialle.
Qualche anno or sono, di fronte a questo armadio, c’era una bottega con pareti in legno di un verde bottiglia, che da tutte le fessure trasudavano umidità. L’insegna, una tavoletta stretta e lunga, portava in lettere nere la scritta Merceria, e su un vetro della porta si leggeva un nome di donna, Thérèse Raquin, in caratteri rossi. A destra e a sinistra si allungavano vetrine profonde, tappezzate di carta blu.
Di giorno lo sguardo non poteva distinguere che la vetrina, in un tenue chiaroscuro.
Da un lato c’era qualche capo di biancheria: cuffie di tulle con pieghe a cannoncino da due e tre franchi l’una, maniche e colletti di mussola; poi articoli di maglieria, calze da donna, calzini, bretelle. Ogni oggetto, ingiallito e sciupato, era appeso pietosamente a un gancio di fil di ferro. La vetrina si trovava così da cima a fondo riempita di cenci biancastri che avevano un che di lugubre nella diafana oscurità. Le cuffie nuove, di un bianco più brillante, apparivano come macchie violente sulla carta blu che rivestiva i ripiani, mentre i calzini colorati, a cavallo di una bacchetta, mettevano qualche tocco scuro nella nebbia opaca e incerta della mussola.
Dall’altra parte, in una vetrina più stretta, erano impilati grossi gomitoli di lana verde, neri bottoni cuciti su cartoncini bianchi, scatole di ogni colore e dimensione, reti per capelli, con perle di metallo, tenute da cerchi di carta azzurrognola, mazzi di ferri da calza, modellini per ricamo, rocchette di nastro – un ammasso di oggetti scoloriti e smunti, lì abbandonati da cinque o sei anni. Tutti i colori stingevano in un grigio sporco, in quel bugigattolo imputridito di polvere e umidità.
D’estate, verso mezzogiorno, quando il sole infuocava di raggi fulvi le piazze e le strade, si distingueva, dietro alle cuffie dell’altra vetrina, un profilo di giovane donna, pallido e austero. Profilo che si delineava vagamente nelle oscurità della bottega. Dalla fronte bassa e aspra partiva un naso lungo, stretto, affilato; le labbra erano due linee sottili di un rosa pallido e il mento corto e nervoso si congiungeva al collo in una linea morbida e piena. Non si distingueva il corpo sperduto nell’ombra; il solo profilo era visibile, di un bianco opaco, forato dalla nera cavità dell’occhio fisso e come sovrastato dalla massa di una folta capigliatura scura. Lì se ne stava per ore e ore, immobile e quieto, fra due cuffie sulle quali le bacchette umide avevano lasciato tracce di ruggine.
La sera, quando veniva accesa la lampada, si vedeva l’interno della bottega. Era più lunga che profonda; a un capo c’era un piccolo banco, all’altro, una scala a chiocciola conduceva alle camere del primo piano. Contro le pareti erano addossati qualche vetrinetta, alcuni armadi, file di scatoloni verdi; quattro seggiole e un tavolo completavano l’arredo. La stanza appariva nuda, glaciale; le merci, impacchettate e stipate negli angoli, non erano sparse tutt’attorno in un’allegro contrasto di colori.
Di solito due donne erano sedute dietro al banco: la giovane dal profilo austero e una vecchia signora che sorrideva sonnecchiando. La vecchia signora aveva sessant’anni circa; il suo viso rotondo e placido biancheggiava alla luce della lampada. Un grosso gatto tigrato, accovacciato su un angolo del banco, la guardava dormire.
Più in basso, seduto su una seggiola, un uomo di una trentina d’anni leggeva o chiacchierava a mezza voce con la giovane donna. Era basso di statura, gracilino, dall’aspetto anemico; i capelli di un biondo scialbo, la barba rada, il viso cosparso di lentiggini, pareva un bambino deperito e viziato.
Poco prima delle dieci la vecchia signora si svegliava. Chiudevano bottega e tutta la famiglia saliva a coricarsi. Il gatto tigrato seguiva i padroni facendo le fusa, strofinando la testa contro ogni stecca della ringhiera.
Di sopra, l’alloggio era composto di tre stanze. La scala portava a una sala da pranzo che serviva anche da salotto. A sinistra, in una nicchia, c’era una stufa di maiolica; di fronte era sistemata una credenza; alcune seggiole stavano poi allineate contro i muri, un tavolo rotondo, lasciato aperto, occupava il centro della stanza. In fondo, dietro a una parete a vetri, si intravedeva una buia cucina. Su ogni fianco della sala da pranzo c’era una camera da letto.
Dopo aver baciato il figlio e la nuora la vecchia signora si ritirava in camera sua. Il gatto si addormentava su una sedia della cucina. Gli sposi entravano nella loro camera. In questa camera una seconda porta dava accesso a una scala che attraverso un andito oscuro e stretto sbucava nel passage.
Il marito, che aveva sempre brividi di febbre, si infilava subito nel letto; intanto la giovane donna apriva la finestra per chiudere le persiane. Restava lì per qualche istante, di fronte all’alto muro nero intonacato grossolanamente che si innalza estendendosi al disopra della galleria. Lasciava scorrere su questo muro uno sguardo vago e senza dire una parola anche lei veniva a coricarsi, in una sdegnosa indifferenza.
2
La signora Raquin era stata in passato merciaia a Vernon. Per quasi venticinque anni era vissuta in una botteguccia di questa città. Qualche anno dopo la morte del marito la prese come un senso di stanchezza, cedette l’esercizio. I risparmi sommati al ricavato della vendita le misero a disposizione un capitale di quarantamila franchi i quali, una volta investiti, le fruttarono duemila franchi di rendita. Somma che doveva ampiamente bastarle. Conduceva una vita da reclusa, ignara delle gioie e delle vive preoccupazioni di questo mondo; si era costruita un’esistenza di pace e di quieta serenità.
Per quattrocento franchi prese a pigione una piccola casa con un giardino che scendeva fino in riva alla Senna. Era un’abitazione isolata e discreta, dai vaghi sentori di chiostro; uno stretto sentiero conduceva a quest’eremo circondato da ampi prati; le finestre della casa guardavano il fiume e le libere alture della riva opposta. La buona signora, che aveva superato la cinquantina, si segregò in questa solitudine gustandovi gioie serene, tra il figlio Camille e la nipote Thérèse.
Camille aveva a quei tempi vent’anni. Sua madre lo coccolava ancora come un bambino. Lo adorava, avendolo conteso alla morte nel corso di una lunga giovinezza di patimenti. Il piccolo ebbe una in fila all’altra tutte le febbri, ogni possibile malattia. Una lotta di quindici anni la signora Raquin sostenne contro quei mali terribili che si accanivano a volerle rapire il figlio. Tutti li vinse, con la pazienza, le cure, l’adorazione.
Una volta cresciuto, scampato alla morte, Camille rimase come vacillante per i ripetuti assalti che gli avevano indolenzito il fisico. Bloccato nella crescita, fu sempre piccolo e mingherlino. Le sue membra gracili ebbero movimenti lenti e fiacchi. La madre lo amava di più per via di questa debolezza che lo soggiogava. Contemplava il suo povero faccino impallidito con tenerezze trionfanti, e pensava alle infinite volte che gli aveva dato la vita.
Nelle rare tregue che gli concesse la sofferenza, il bambino seguì i corsi di un istituto commerciale di Vernon. Vi apprese l’ortografia e l’aritmetica. Il suo sapere si limitò alle quattro operazioni e una infarinatura di grammatica. Più tardi prese lezioni di calligrafia e di contabilità. La signora Raquin tremava quando le consigliavano di far proseguire il figlio negli studi; sapeva che lontano da lei sarebbe morto, diceva che i libri gli sarebbero stati fatali. Camille rimase ignorante, e questa ignoranza versò in lui come una debolezza supplementare.
A diciotto anni, senza niente da fare, annoiandosi mortalmente in quel lattemiele nel quale lo faceva vivere la madre, entrò come impiegato presso un commerciante di tessuti. Guadagnava sessanta franchi al mese. Aveva un’indole inquieta che gli rendeva intollerabile l’ozio. Si sentiva più calmo, più in salute se poteva applicarsi a quell’attività da bruto, a quel lavoro da impiegato che lo teneva tutto il giorno curvo su fatture, su interminabili addizioni delle quali sillabava pazientemente ogni cifra. La sera, esausto, la testa vuota, gustava in quell’intontimento che lo pigliava piaceri senza fine. Aveva dovuto litigare con la madre per impiegarsi dal commerciante di tessuti; lei voleva tenerselo sempre vicino, fra due coperte, lontano dagli imprevisti della vita. Il ragazzo fece la voce grossa; pretese il lavoro come altri bambini pretendono i giocattoli, non per un senso del dovere ma per istinto, per ispirazione naturale. Le affettuosità, la dedizione della madre gli...
Indice dei contenuti
- Cover
- Occhiello
- Frontespizio
- Cronologia
- Bibliografia
- Thérèse Raquin
- Appendice
- Sommario