Tutti gli anni di una vita
L’emporio stava chiudendo, e Alfred Higgins, che si era appena sfilato il grembiule bianco, stava indossando il cappotto per tornare a casa. Il proprietario dell’emporio, un piccoletto brizzolato chiamato Sam Carr, era chino dietro il registratore di cassa, e quando Alfred Higgins gli passò accanto, sollevò lo sguardo e disse piano: «Concedimi un momento, Alfred. Solo un momento».
Il tono sommesso, sicuro, pacato di Sam Carr spinse Alfred ad abbottonarsi nervosamente il cappotto. Era certo di essere impallidito. Di solito Sam Carr lo salutava con un secco «Buona notte», senza alzare lo sguardo. Nei suoi sei mesi di lavoro lì, Alfred non aveva mai sentito il principale usare quel tono di voce. Il cuore iniziò a battergli tanto forte che quasi non riusciva a riprendere fiato. «Cosa c’è, signor Carr?» chiese.
«Saresti così gentile da svuotarti le tasche prima di andartene?» disse Sam Carr.
«Svuotarmi le tasche? Di che parla?»
«Hai un portacipria, un rossetto e almeno due tubetti di dentifricio in tasca, Alfred.»
«Che intende dire? Crede forse che sia impazzito?» sbottò Alfred. Era paonazzo e appariva fuori di sé per l’indignazione. Ma Sam Carr, in piedi vicino alla porta, con gli occhi azzurri che brillavano intensamente dietro le lenti e le labbra che si muovevano sotto i baffi ingrigiti, si limitò ad annuire ripetutamente, e Alfred cominciò ad avere paura e a non trovare più le parole. Lentamente sollevò una mano e la infilò in tasca, e senza mai incrociare lo sguardo di Sam Carr, tirò fuori un portacipria blu, due tubetti di dentifricio, un rossetto, e li posò sul bancone, uno accanto all’altro.
«Un furtarello, eh, Alfred?» disse Sam Carr. «E ora, saresti così gentile da dirmi da quanto tempo va avanti questa storia?»
«È la prima volta che prendo qualcosa.»
«E adesso credi pure di potermi raccontare balle, eh? Pensi che non sappia cosa succede nel mio emporio? Lo fai con regolarità» disse Sam Carr, dirigendosi dietro il registratore di cassa.
Da quando aveva abbandonato la scuola, Alfred si era sempre cacciato nei guai sul lavoro. Viveva con la madre e il padre, che era tipografo. I due fratelli maggiori erano sposati, la sorella si era maritata l’anno prima, e i suoi genitori sarebbero stati felici se lui fosse stato anche solo in grado di tenersi un impiego.
Sam Carr sorrideva, lisciandosi appena una guancia con la punta delle dita, e Alfred avvertì i primi sintomi di quel panico che s’impadroniva di lui ogni volta che finiva in guai simili.
«Mi piacevi» stava dicendo Sam Carr. «Mi piacevi e mi sarei fidato di te.» Mentre Alfred lo guardava con occhi vigili, Sam Carr tamburellava le dita sul bancone. «Non mi va di chiamare la polizia così, di punto in bianco» continuò, turbato. «Sei un idiota. Dovrei chiamare tuo padre per dirgli che sei un idiota. Dovrà pur sapere che sto per farti sbattere in prigione.»
«Mio padre non è in casa. Fa il tipografo. Lavora di notte» disse Alfred.
«Chi c’è a casa?»
«Mia madre, credo.»
«Allora sentiamo cos’ha da dire tua madre.» Sam Carr andò al telefono e compose il numero.
Alfred non provava vergogna, ma un senso crescente di allarme. «Aspetti» proruppe con arroganza, come un uomo adulto e pieno di sé, «non c’è bisogno di coinvolgerla. Non serve che glielo dica.» Ma in lui vi era anche una speranza infantile, il desiderio che qualcuno, da casa, arrivasse in suo aiuto.
«Sì, proprio così, si è cacciato nei guai» stava dicendo il signor Carr. «Sì, suo figlio lavora per me. Sarebbe meglio che venisse qui, subito.» Quando ebbe riagganciato, il signor Carr andò alla porta, si affacciò sulla strada e osservò l’andirivieni dei passanti nella tarda serata estiva. «Vediamo se passa un agente» si limitò a dire.
Alfred sapeva che sua madre sarebbe arrivata di corsa, con gli occhi ardenti di rabbia, o forse colmi di lacrime, e che se lui avesse tentato di parlarle lei lo avrebbe respinto, facendogli pesare il suo orribile disprezzo. Eppure sperava con tutto se stesso di vederla arrivare prima che l’agente di ronda capitasse davanti all’emporio del signor Carr.
Mentre attendevano – e sembrò un’eternità – nessuno dei due parlò, e quando finalmente sentirono bussare alla porta, il signor Carr aprì la serratura e disse bruscamente: «Entri, signora Higgins». L’uomo aveva un’espressione accigliata e severa.
Probabilmente la signora Higgins era stata sul punto di coricarsi quando aveva ricevuto la telefonata di Sam Carr, perché i capelli erano raccolti alla rinfusa sotto il cappello, e con una mano stringeva alla gola il bavero della giacca leggera, in modo da non lasciar intravedere cosa indossava sotto. Entrò nell’emporio, grossa e paffuta, con un sorriso appena accennato sul volto cordiale. La maggior parte delle luci erano spente e la donna non si accorse subito di Alfred, in piedi, nell’ombra, a un’estremità del bancone. Ma quando lo vide non reagì come Alfred aveva immaginato: gli sorrise, i suoi occhi grigi non ebbero la minima esitazione e, con una calma e una dignità che distolsero l’attenzione dal fatto che i vestiti parevano esserle stati gettati addosso, allungò una mano verso il signor Carr e si presentò educatamente: «Sono la signora Higgins. La madre di Alfred».
Il signor Carr, colto alla sprovvista dalla sicurezza e dalla semplicità della donna, esitò, e quindi fu lei a prendere la parola: «Alfred è finito nei pasticci?».
«Sì. Ha rubato in negozio. L’ho preso con le mani nel sacco. Cose da poco, portacipria, tubetti di dentifricio, rossetti. Roba facile da rivendere» disse il proprietario.
Mentre ascoltava, la signora Higgins guardava Alfred annuendo mestamente, e quando Sam Carr ebbe finito, disse con tono grave: «È così, Alfred?».
«Sì.»
«Perché hai rubato?»
«Avevo bisogno di denaro, credo.»
«Per fare cosa?»
«Spassarmela con gli amici, credo» rispose Alfred.
La signora Higgins allungò una mano, toccò il braccio di Sam Carr con comprensivo garbo e, parlando come se temesse di disturbarlo, disse: «Se, prima di prendere qualsiasi decisione, avesse la bontà di ascoltarmi». La sua genuina sincerità la rese timida; la sua umiltà la fece esitare e distogliere lo sguardo, ma un attimo dopo tornò a sorridere gravemente e, con una sorta di paziente dignità, aggiunse: «Cosa aveva intenzione di fare, signor Carr?».
«Pensavo di chiamare un agente. È quel che dovrei fare.»
«Sì, suppongo abbia ragione. Non spetta a me dirlo, perché è mio figlio. Eppure, penso che a volte un piccolo consiglio sia la cosa migliore per un ragazzo che sta attraversando un determinato periodo della sua vita» disse.
Alfred non riusciva a comprendere il contegno tranquillo della madre. Se fossero stati a casa e qualcuno avesse anche soltanto insinuato che suo figlio sarebbe finito in prigione, lei sarebbe andata su tutte le furie e gli avrebbe urlato contro. Invece adesso se ne stava lì, con quel sorriso gentile e implorante sul volto, e diceva: «Non crede sia meglio lasciarlo tornare a casa con me? È solo un ragazzo. A volte occorre del tempo prima che mettano la testa a posto». Entrambi guardarono Alfred, che indietreggiò. Per un istante, il suo viso magro e i minuscoli brufoli sulle guance furono illuminati dalla lampada dell’espositore dei cosmetici.
E mentre si voltava per l’imbarazzo, Alfred si rese conto che il signor Carr aveva capito che sua madre era una donna perbene; sapeva che Sam Carr era rimasto disorientato dal suo comportamento, quasi si fosse aspettato di vederla arrivare a supplicarlo in lacrime; invece, aveva provato un po’ di vergogna di fronte a quella sconfinata tolleranza. Quando nell’emporio non si udì altro che la voce dolce e sicura della madre di Alfred, il signor Carr cominciò ad annuire, come se volesse consolarla. Senza mostrare alcun nervosismo, solo con la sua semplice presenza imponente, immobile, semplice, fiduciosa, la donna stava diventando la figura dominante del locale in penombra. «Non ho intenzione di essere troppo severo» stava dicendo il signor Carr. «Ecco cosa farò. Lo licenzio e la finiamo qui. Che gliene pare?», al che si alzò e strinse la mano alla signora Higgins, rivolgendole un inchino in segno di profondo rispetto.
La signora Higgins disse: «Non dimenticherò mai la sua gentilezza» con un calore e una gratitudine tali che anche il signor Carr divenne affettuoso a cordiale.
«Mi spiace averla conosciuta in circostanze simili» disse lui. «Ma sono felice di averla incontrata. Volevo solo fare la cosa giusta, tutto qui.»
«Meglio così, piuttosto che non esserci mai incontrati, no?» disse lei. Improvvisamente si strinsero la mano come se si piacessero, come se fossero vecchi amici. «Buona notte» disse lei.
«Buona notte, signora Higgins. Sono sinceramente dispiaciuto» disse lui.
Madre e figlio camminavano insieme in strada, e la madre procedeva a passo svelto e deciso, guardando davanti a sé con un’espressione preoccupata sul volto severo. Alfred aveva timore di parlarle. Aveva timore del silenzio che c’era tra loro. Non poteva far altro che guardare davanti a sé, come la madre, poiché l’entusiasmo e il sollievo che provava non accennavano a diminuire, ma dopo un po’ quel silenzio lo rese terribilmente consapevole della forza e della determinazione della madre; cominciò a chiedersi cosa stesse pensando mentre guardava davanti a sé con quell’aria truce; sembrava aver dimenticato che lui le camminava accanto ; così, quando passarono sotto la sopraelevata della Sesta Avenue e il rombo del treno parve rompere quel silenzio, Alfred disse con la sua solita arroganza: «Grazie a Dio è andato tutto bene. Non finirò più in un pasticcio simile, te l’assicuro».
«Sta’ zitto. Non rivolgermi la parola. Mi hai mortificata per l’ennesima volta» replicò lei con amarezza.
«Non succederà più.»
«Abbi almeno il pudore di non parlare» tagliò corto la madre.
Continuarono a camminare, lo sguardo fisso di fronte a sé.
Giunti a casa, sua madre si sfilò il cappotto e Alfred vide che era davvero semi-svestita, ed ebbe di nuovo timore quando lei, senza neppure guardarlo, gli disse: «Sei una sciagura. Che Dio ti perdoni. Ti ficchi sempre nei guai, è sempre stato così. E che ci fai lì impalato come uno stupido? Va’ a dormire». E mentre lui si allontanava, aggiunse: «Mi preparo una tazza di tè. E non una parola con tuo padre su quanto è successo questa sera».
Mentre si svestiva nella sua camera, Alfred sentiva la madre muoversi in cucina. La donna riempì il bollitore e lo mise sul fornello. Spostò una sedia. Alfred non provava vergogna, solo meraviglia e una sorta di ammirazione per la forza e la compostezza della madre. Vedeva ancora Sam Carr annuire per incoraggiarla; udiva ancora la sua voce chiara e decisa, e quando si sedette sul letto si sentì orgoglioso della sua forza. “È stata davvero in gamba” pensò.
Alla fine si alzò e si diresse in cucina, e quando fu sulla soglia la guardò versarsi una tazza di tè. Rimase a osservarla senza muoversi. Il volto della madre, seduta al tavolo, era spaventato, sfinito, del tutto diverso da quello della donna che pochi minuti prima aveva parlato con Sam Carr. Quando sollevò il bollitore per riempire la tazza, la mano le tremò e un po’ d’acqua cadde sul fornello. Lei si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia, sospirò portandosi la tazza alle labbra, e le labbra esitarono, come se la tazza fosse una meta irraggiungibile. Bevve un sorso di tè bollente e si mise dritta sulla sedia, anche se la mano che reggeva la tazza continuava a tremare. Appariva tanto vecchia.
Alfred ebbe l’impressione di assistere a ciò che era sempre successo ogni volta che lui si era cacciato nei guai, che quel tremore fosse già in lei quando, semi-svestita, si era precipitata all’emporio. Capì per quale motivo era rimasta seduta da sola in cucina la volta in cui la sorella minore aveva ripetuto ostinatamente che si sarebbe sposata. Adesso sapeva cosa stava pensando mentre, poco prima, camminavano insieme in strada. Guardò sua madre, e non disse nulla, ma la sua adolescenza sembrò aver fine in quel momento. Dal modo in cui la mano le tremava mentre si portava la tazza alle labbra, lui riconobbe tutti gli anni di una vita.
Un vecchio litigio
La signora Massey era venuta da Chicago per vedere il figlio, che faceva il medico. Era una cordiale donnona di sessant’anni dal volto rubicondo, piena di energie per la sua età, e sprizzante salute da tutti i pori, a eccezione di un occasionale dolore a una gamba, che teneva accuratamente sotto controllo. La famiglia del figlio la riempì di attenzioni e lei si sentì talmente di buonumore che una sera, dal nulla, annunciò: «Ve lo dico: voglio andare a trovare Mary Woolens. Chissà che fine ha fatto. Riuscite a scoprire dove abita?».
Era cresciuta con Mary Woolens. Trent’anni prima avevano litigato, poi la signora Massey si era sposata e si era trasferita a ovest, e da allora si erano perse di vista.
Il pomeriggio successivo, la signora Massey era tornata nel suo vecchio quartiere, sulla strada all’angolo con Christopher Street, e si guardava nostalgicamente intorno in cerca di un qualche dettaglio familiare che le riportasse alla mente episodi della sua infanzia. Guardando attentamente a destra e a sinistra, aveva attraversato in tutta fretta la strada con un’espressione determinata sul volto – perché adesso il traffico la rendeva nervosa – e aveva raggiunto il marciapiede a corto di fiato ma sollevata.
Camminava adagio lungo la via, respirando profondamente e alzandosi di tanto in tanto sulle punte dei piedi per dare un po’ di sollievo ai talloni. Una smorfia le contraeva il viso mentre scrutava i numeri civici delle abitazioni, e quando si fermò per inforcare gli occhiali sorrise con impazienza, come una donna che custodisce un segreto.
Se avesse chiuso gli occhi, avrebbe ricordato vividamente quasi ogni parola del suo litigio con Mary Woolens. Mary, all’epoca una ragazza sciocca e piuttosto comune, si era innamorata di un farabutto che le prometteva continuamente di sposarla e intanto le chiedeva denaro. Lei le aveva prestato un centinaio di dollari, per poi scoprire che erano finiti nelle tasche di quell’individuo, che era scappato, e ovviamente Mary non aveva potuto restituirle il denaro. Che storia spiacevole! La signora Massey avrebbe voluto denunciare l’uomo. Per un po’ lei e Mary si erano odiate; poi la loro amicizia era finita.
Adesso, mentre procedeva lungo la strada, la signora Massey provava grande vergogna al pensiero di aver litigato per una questione di denaro. Le sembrava che entrambe fossero state meschine e vendicative, e non tollerava l’idea che Mary non sapesse di essere stata perdonata da tempo. «Dev’essere questa» disse, guardando la casa in arenaria. Esitò un istante, provando ancora un po’ di imbarazzo, poi salì i gradini, ricordando a se stessa che era una donna elegante, benestante e sicura di sé.
La casa aveva un aspetto ordinato, con un piccolo cartello che reclamizzava appartamenti e stanze in affitto. Mentre suonava il campanello nel vestibolo, la signora Massey lanciò un’occhiata alle scale. Dopo un po’, una donna con un semplice abito blu scuro e capelli incredibilmente bianchi le andò incontro. La donna, che aveva profondi occhi azzurri e un’espressione mite e tranquilla, le chiese educatamente: «Desiderava vedere qualcuno?».
«Sto cercando la signorina Woolens» rispose la signora Massey. Poi: «Bontà divina, Mary, sei tu! Mary, non ti ricordi di me?».
«Non riesco a vederla con questa luce. Potrebbe spostare un po’ la testa? Sì, così. Elsie Wiggins! No, non Elsie Wiggins. Elsie Massey!»
La piccola donna canuta era talmente sorpresa che le sue mani, ora davanti alla bocca, presero a tremare. Poi provò una tale gioia da non riuscire più a muoversi. «Non riesco a crederci» disse. Era eccitatissima, e all’improvviso esclamò: «Oh, sono così felice di vederti. Ti prego, Elsie, entra», e raggiunse a passo svelto una stanza sul retro della casa. La signora Massey la seguì con calma, sorridendo tra sé per la contentezza.
Persino dopo che si furono accomodate nell’ampia stanza piena di tappeti, con il divano e le poltrone antiquate, era consapevole che Mary continuava a guardarla come se fosse una splendida creatura proveniente da un mondo bizzarro. La signora Massey sorrideva con indulgente buonumore. Ma Mary non si conteneva. «Non so proprio cosa dirti, Elsie. Sono davvero felice di rivederti.» Poi, balzando in piedi come un uccellino, aggiunse: «Vado a preparare un tè».
Mentre attendeva, la signora Massey avvertì una sensazione di disagio; non sapeva come dire a Mary che l’aveva perdonata da tempo. Era certa che il nervosismo della povera donna dipendesse da quello, anche se, fino a quel momento, aveva finto che non ci fossero mai stati screzi tra loro. Con la teiera su un vassoio, ed immaginando una esuberanza infantile, Mary tornò dicendo: «Stavo cercando di calcolare quanti anni sono passati dall’ultima volta che ci siamo viste».
«Dovrebbero essere trenta... ma pensa!» disse la signora Massey.
«Ma ho sentito parlare di te, Elsie. Una volta ho incontrato una donna che aveva vissuto a Chicago e che mi disse che hai un figlio medico, e ho letto di quella incredibile operazione che ha eseguito in uno degli ospedali di qui. Era su tutti i giornali. Deve renderti immensamente orgogliosa, Elsie. A chi somiglia?»
«Dicono tutti che somiglia a suo padre.»
«Sarà. Ma per me era e rimane il figlio di Elsie.»
«E tu, Mary? Come stai?»
«Non mi lamento. A guardarmi non si direbbe, vero? Ma, a parte un’emicrania che il dottore attribuisce a un dente malandato, sto bene. Anche tu mi sembri in forma.»
«Be’, così e così. Ho dolore a una ga...