CAPITOLO 1
I FOGLIETTI DEL PRESIDENTE
Le storie — diceva Aristotile — si capiscono dalla fine. O forse diceva che le storie — in una interpretazione più sofisticata — si possono leggere soltanto a partire dal fine, ovvero dallo scopo a cui mirano. Senza conoscere le finalità dell’azione, è difficile giudicare l’azione, come un insieme confuso di gesti che sembrano trarre origine da fatti e circostanze casuali. Il punto è che il fine, e la fine, il tèlos, tendono nel filosofo greco, fondatore autentico della metafisica moderna, a coincidere. Forse in questa coincidenza c’è una delle più antiche definizioni possibili della metafisica. Aristotile diceva in sostanza che per sapere se un’azione è buona o cattiva è indispensabile sapere non solo a che cosa mira, che intenzioni ha, ma anche come va a finire. Il lieto fine o il suo contrario non sono indifferenti al giudizio sull’azione che li ha preceduti.
Per queste considerazioni credo doveroso cominciare questo racconto dalla fine, da come è andato a finire, ma anche, aristotelicamente, dell’insegnamento morale che è celato nella sua conclusione.
Chi è Carlo Azeglio Ciampi?
Ciampi è il Presidente della Repubblica che ha trascorso gli ultimi sei mesi del suo mandato presidenziale a costruire, volutamente e pervicacemente, il rifiuto categorico a ogni possibilità di sua rielezione.
Per molti mesi, almeno fin dal luglio del 2005, Ciampi aveva preparato, come egli è solito fare, un piccolo fogliettino, scritto a mano in una mattinata insonne, tra le cinque e le sei, in pigiama nel letto, con le ginocchia tirate su a sostegno di un block notes, in una grafia insieme sintetica, minuscola, illeggibile.
Ne cominciai a conoscere l’esistenza da qualche frase lasciata a metà , i primi giorni di settembre del 2005.
Inizialmente pensammo, con alcuni altri consiglieri del Presidente, che per lui l’idea della conclusione del mandato rappresentasse un tale sollievo personale da un peso ormai schiacciante di responsabilità istituzionali e politiche, che quel fogliettino riposto nel portafoglio fosse una sorta di garanzia offerta a se stesso che l’incarico stesse per terminare davvero. In fondo, erano ben tre anni che talvolta il Presidente stupiva gli ospiti nel suo studio alla Palazzina rivelando loro il numero esatto di giorni e ore che mancavano al termine del mandato. Settecentoventidue giorni alla fine del mandato. «All’alba» si sarebbe detto durante la naia. Gli ospiti, talvolta, ci rimanevano un po’ male, perch’ si immaginavano un Ciampi entusiasta del consenso senza precedenti che tutti i sondaggi rivelavano, delle folle che lo attendevano per ore nelle città italiane, per stringergli la mano, per salutare donna Franca, anche soltanto per cantare con lui l’Inno di Mameli. E in effetti, nel corso del settennato Ciampi diventava effettivamente di giorno in giorno più consapevole di questo consenso di cui analizzava l’origine in maniera profonda e non personalistica.
Quel fogliettino cominciava di volta in volta a fare capolino in alcune conversazioni con Gaetano Gifuni e con Arrigo Levi. Tutti e tre reagimmo inizialmente in modo ugualmente negativo: non si può dire a diversi mesi di distanza dalla fine del mandato che si intende rifiutare una ricandidatura, perch’ questo avrebbe compromesso la capacità operativa degli ultimi mesi di mandato. Il Governo aveva appena aperto una difficile e improvvisa partita politica con la volontà di cambiare la legge elettorale, tornando a sorpresa a una sorta di proporzionale corretto da un premio di maggioranza. Che cosa sarebbe accaduto se si fosse voluto anche, per esempio, mettere mano alla legge sulla «par condicio» in campagna elettorale? Il Presidente della Repubblica doveva essere in grado di far pesare tutta la sua autorità morale proprio in questa coda di legislatura e di mandato.
« In cauda venenum, se lo ricordi…» mi ripeteva spesso lo stesso Presidente, consapevole delle insidie di quelle settimane.
Eppure, di tanto in tanto tirava fuori il bigliettino dal portafoglio. «Io quasi quasi lo leggo», diceva provocatoriamente, per suscitare una nostra supplica «no, no, per favore!». In ogni caso, per diversi mesi, a me, quel fogliettino non lo lesse. «Lo sto perfezionando», diceva. Ricordo un pomeriggio di fine settembre del 2005, nel quale il Presidente scese in studio particolarmente soddisfatto. «Ci sono i precedenti, Segni addirittura nel suo messaggio alle Camere, l’unico, propose di modificare la Costituzione per inserire l’ineleggibilità per 2 volte del capo dello Stato. I costituenti hanno previsto un periodo di sette anni, perch’ fosse abbastanza lungo da escludere una rielezione. Sarebbe contraria allo spirito repubblicano.»
Noi collaboratori non eravamo affatto contenti di quella decisione che stava maturando, ogni giorno con maggiore forza. Quel fogliettino chiuso nel portafoglio presidenziale, il 3 maggio 2006, si trasformò in un comunicato ufficiale diramato dall’Ufficio per la Stampa e l’Informazione della Presidenza della Repubblica alle ore 17,25. Esso è il documento eticamente più intenso della vita pubblica di Ciampi. È il frutto di una visione complessiva di che cosa sia il «potere», e di quale differenza fondamentale separi «autorità » e «potere». Se non si ha la capacità di tagliare netto, di chiudere quando è il momento, il «potere» manifesta tutta la sua natura moralmente ambigua e diventa pericoloso per s’, per l’individuo, e per la comunità . Dunque, per accettare un incarico, si deve avere prima di tutto la forza di rifiutarlo.
Ricordo distintamente che all’inizio di aprile del 1999, Ciampi preparava i consueti incontri primaverili del Fondo monetario internazionale. Per il suo personale prestigio era diventato anche Presidente dell’ Interim Committee, ovvero del Consiglio di amministrazione della Istituzione monetaria mondiale. In quella sede stava discutendo con Michel Camdessus — managing director del Fmi — varie iniziative tra le quali una moratoria sul debito commerciale dei Paesi con reddito più basso, prevalentemente africani.
La candidatura al Quirinale del ministro del Tesoro cominciava ad aleggiare nel mondo politico e nei giornali. Non senza qualche contrasto. Consigliai di dare un segnale al mondo cattolico con una intervista a l’«Avvenire», che venne poi effettivamente pubblicata il 24 aprile 1999, proprio in occasione del Fondo monetario a Washington. Vi si lanciava l’idea della cancellazione del debito per i Paesi più poveri. Mi sembrava una iniziativa logica. Eppure trovai Ciampi molto scettico: «L’intervista benissimo… Però lasci stare quella ipotesi del Quirinale. Le pare possibile che mille politici si riuniscono in assemblea elettiva e non riescono a trovare uno di loro da eleggere? Via!». Ciampi era convinto che, all’ultimo momento, i partiti avrebbero preferito un esponente politico. Ma aggiunse: «E poi si ricordi, che secondo me quello è davvero un incarico pericoloso…». Che cosa intendeva dire quel giorno, prima di partire per Washington? Non alludeva a una pericolosità per la propria persona che Ciampi, da vecchio soldato, ha sempre irriso. Intendeva probabilmente dire che «il potere dà alla testa». Essere consapevoli dell’intrinseca pericolosità del potere è parte integrante dello spirito repubblicano.
Alla luce di ciò si capisce perch’ spesso Ciampi abbia cercato di sfuggire agli incarichi che poi, invece, ha svolto con prestigio ed efficacia.
Nel settembre del 1979 quando Ciampi, direttore generale della Banca d’Italia, organizzò la «difesa» di via Nazionale dalla terribile vicenda giudiziaria che aveva, ingiustamente, coinvolto il governatore Paolo Baffi e il vice-direttore generale, Mario Sarcinelli, operando con la rapidità militare che gli è propria, raccolse le lettere di dimissioni di tutti i maggiori dirigenti della Banca, per avere più forza nella discussione con l’autorità politica. Il suo timore era la fuga di tutti i migliori dirigenti. Quell’azione riuscì. Ma quando il Governo, e lo stesso presidente della Repubblica, cominciarono a dirgli che doveva essere lui il nuovo governatore, Ciampi tentò in ogni modo di trovare alternative. Propose al ministro del Tesoro, Filippo Maria Pandolfi, di convincere Bruno Visentini, come ipotesi che avrebbe trovato il consenso dell’Istituto. In quel caso, Ciampi avrebbe garantito di proseguire il lavoro come direttore generale. Quando alla fine il cerchio si strinse intorno a lui — anche grazie al consiglio di due ex governatori come Donato Menichella e Guido Carli —, Ciampi scrisse all’allora presidente del Consiglio, affermando che non se la sentiva, che non riteneva di avere le «caratteristiche necessarie». Alla fine, obtorto collo, accettò.
Ciampi non è un temerario. Prima delle decisioni, spesso, è oppresso dall’ansia. Ma lui stesso racconta che un istante dopo aver preso la decisione l’ansia si dissolve e lo lascia libero di agire. La decisione. È un altro dei punti centrali della sua visione della vita. Il libero arbitrio esiste. Ma questo non è un fatto allegro. È un peso enorme. Questa riflessione sviluppa una visione dell’uomo, poco incline alle chiavi di lettura che fanno prevalere le onde lunghe di processi oggettivi sovraindividuali nelle scelte dei singoli. Il suo ottimismo di fondo sulle capacità umane ne aumenta tuttavia le responsabilità . Esclude letture consolatorie delle vicende andate male. Quante volte Ciampi ha raccontato i suoi mesi dell’inverno 1944 a Scanno, alla macchia con i suoi compagni di fuga, giovani ufficiali come lui, dopo l’8 settembre, Pasquale Quaglione e Beniamino Sadun, e i suoi colloqui con il filosofo Guido Calogero, che divenne la sua vera, unica, guida spirituale. Calogero, spedito al confino dal regime nel paesino abruzzese, stava realizzando con la moglie e la figlia una copia delle sue lezioni di etica ed estetica che dopo la guerra saranno pubblicate da Einaudi. Il manoscritto veniva letto ad alta voce e battuto a macchina da Ciampi e dalla moglie di Calogero. Poco prima della loro duplice fuga, verso Sud e verso Nord, nel marzo 1944, quei manoscritti vennero sepolti dentro una cassetta di metallo sotto un albero. Che cosa ricorda Ciampi di quei dialoghi con il filosofo? Proprio il percorso di Calogero, critico di Croce, su come la conoscenza e l’atto siano in un punto irriducibili l’uno all’altro: la decisione. La conoscenza non genera l’atto dell’azione, ne crea le condizioni di base, ma senza l’esercizio del libero arbitrio, l’atto decisionale non si genererebbe.
Se leggiamo i discorsi di Ciampi Presidente, ogni volta che parla ai giovani egli non riesce a evitare due parole chiave: decisione e coscienza. Anzi, devo dire che con Arrigo Levi tentammo, non una sola volta, di farlo desistere da quel richiamo. Venimmo sempre respinti con perdite. Richiamare i giovani a indagare dentro se stessi, nella propria coscienza, era un dovere che Ciampi sentiva troppo forte, irrefrenabile. A costo di sembrare un po’ predicatorio. Non solo. Se si guardano le immagini televisive dei suoi sei discorsi al Vittoriano per l’inizio dell’anno scolastico, si vede distintamente che, nel preciso istante in cui Ciampi pronunziava la parola «coscienza», la voce si incrinava, un groppo in gola lo frenava in un attimo di commozione, un singhiozzo represso, che tanto dava apprensione alla signora Ciampi. C’è un filo rosso che collega la notte tremenda del 12 settembre 1943, a casa di suo zio materno, Masino, a viale Liegi 6, agli altri momenti cruciali. «Ci interrogammo soli con la nostra coscienza» ha detto in tanti discorsi Ciampi parlando dell’8 settembre per negare la «morte della Patria». «Quella fu la prova più dura della vita della mia generazione.»
Torniamo al nostro tema d’inizio: la forza di lasciare.
Quante lettere di dimissioni ha scritto Ciampi? Tantissime. Non le conosco tutte. So per certo che non le ha scritte per desiderio di fuga, ma per sottolineare la natura delegata di qualsiasi incarico pubblico. Nel 1979 Ciampi ha 59 anni. Avrebbe potuto essere già in pensione anticipata, ma lui è sempre stato ostile a una soluzione del genere: «Detesto i giardinetti» diceva scherzando e criticava tanti colleghi che si mettevano in pensione per andare a fare i direttori generali di una Cassa di Risparmio. Il Presidente ha amato profondamente la Banca d’Italia anche per la sua natura di servizio pubblico. Il servizio pubblico ha un valore intrinseco superiore al lavoro privato. In questo senso, il pensiero del Presidente è profondamente intriso degli scrittori latini, Cicerone, Seneca, Tito Livio.
Alla soglia dei sessanta anni diventò governatore, in un momento terribile per l’Istituto di via Nazionale. In due-tre anni rovesciò la situazione. Da allora, cominciò a pensare al momento giusto per lasciare. Ai ministri del Tesoro che iniziavano il loro mandato nei Governi degli anni ’80 scrisse sempre una lettera con cui metteva a disposizione l’incarico, quando lo ritenessero utile. A Giovanni Goria scrisse una lettera più precisa, dicendo che tra il compimento del suo sessantacinquesimo compleanno e la maturazione del quarantatreesimo anno di anzianità in Banca (le due «soglie» alle quali l’Istituto poneva in quiescenza i suoi dirigenti) lui avrebbe desiderato essere sollevato dall’incarico. La risposta fu negativa.
Diverso fu il caso del «venerdì nero» della lira.
Ciampi mi chiamò al telefono più di una volta nel luglio del 2005, perch’ sollecitassi qualche giornalista a tirar fuori la vicenda del 1985, dello scontro con il presidente del Consiglio, Bettino Craxi. Erano i giorni della questione della Banca Antonveneta che coinvolgeva nella polemica anche la Banca d’Italia. Quel luglio-agosto del 2005 fu uno dei periodi di massima amarezza di tutto il settennato. Ciampi non ha mai commentato nel merito la vicenda. Ma il Presidente voleva ricordare che nel 1985, poche ore dopo la famosa frase di Craxi in Parlamento sulle responsabilità della Banca d’Italia, lui aveva già scritto a Goria la sua lettera, autografa, di dimissioni. Fu poi Goria a decidere di aggiungere le proprie dimissioni, ottenendo così una reazione politica da parte della Dc e del Pri, che portò al rinnovo della fiducia da parte del Governo al governatore e al superamento della crisi. Anche Giuliano Amato, ministro del Tesoro, ricevette le sue lettere di messa a disposizione del mandato.1
Nei ricordi di Gaetano Gifuni, il Ciampi che venne chiamato la mattina del 26 aprile 1993 a via Valadier — presso l’abitazione privata del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro — per chiedergli di fare il presidente del Consiglio, è un uomo pieno di dubbi, tormentato, per niente convinto di accettare l’incarico. Avanza obiezioni a ripetizione ai suoi interlocutori, presente anche il presidente del Consiglio uscente, Giuliano Amato. «Quando tornò nel pomeriggio era un altro uomo, determinato; aveva scritto una dichiarazione sul programma di Governo che Scalfaro non potè che approvare perch’ era perfetta, sembrava che avesse sempre fatto il presidente del Consiglio» racconta Gifuni.
C’è una eccezione in questa tradizione: il maggio 1996, la nomina a ministro del Tesoro e del Bilancio. In quel caso, aveva lavorato nei mesi precedenti, riservatamente, con Romano Prodi al programma economico che avrebbe condotto all’ingresso dell’Italia nell’euro, e volle fortemente quell’incarico. Era la prova della sua vita. Lo volle così tanto da superare anche un intervento chirurgico (aprile 1996) che lo costrinse a una serie di cure successive, per niente trascurabili, che sopportò nei mesi dell’estate successiva, cadenzati da pause negli incontri di lavoro.
Ho sentito raccontare più volte dell’incontro con Helmut Schlesinger dopo le elezioni del ’96, nel quale il banchiere tedesco gli sconsigliò fortemente di accettare l’incarico di ministro, facendogli capire che l’Italia non sarebbe entrata nell’euro: «Carlo, non fare troppo il patriottico!». Ciampi non sentì ragione, perch’ la motivazione era fortissima: l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Quello era il fine aristotelico e, aristotelicamente, anche la fine della missione.
E infatti, quando in circostanze rocambolesche, cadde il Governo Prodi ai primi di ottobre del 1998, per un solo voto, vidi Ciampi battere sulla scrivania di Quintino Sella un pugno formidabile. Ebbi quasi l’impressione che si fosse fatto male: «Il Governo cade per un voto! Per un voto!». Ciampi era furibondo, fuori di s’ dalla rabbia. Eravamo io e lui soli nello studio di via XX Settembre, finestre su via Cernaia. Eravamo appena tornati da un viaggio americano dove Livio Caputo, in un magnifico albergo di Broadway, gli aveva consegnato il prestigioso «J Award» davanti a tutta la comunità italo-americana.
Pochi giorni dopo, si verificò la visita, a nome della coalizione di centro-sinistra, di Massimo D’Alema nella villetta dei coniugi Ciampi a Santa Severa. «Ora tocca a te» aveva detto D’Alema. L’idea di un Governo fotocopia — rispetto a quello di Prodi — doveva condurre a completare tutte le procedure dell’ingresso nell’euro dell’Italia e poi tentare una iniezione di «politica dello sviluppo» che nei mesi passati Ciampi aveva prospettato con una lunga intervista al «Sole 24 Ore» — 20 agosto 1998 — proponendo un nuovo patto a imprenditori e lavoratori, con l’obiettivo di puntare tutto sugli investimenti.
Il lunedì successivo, Ciampi e l’allora ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, volarono a Bruxelles, per la riunione dell’Ecofin. Martedì, poco dopo le 15, la sorpresa del secondo tentativo di Prodi, con l’idea di accogliere nel Governo i transfughi dell’Udr. Poi il nuovo colpo di scena, la rinuncia di Prodi, e l’incarico andò a Massimo D’Alema.
Ecco che a questo punto, Ciampi scrisse il sabato una lettera al presidente incaricato nella quale gli rendeva nota la sua indisponibilità a rimanere a via XX Settembre.
Fu quella la prima di tre lettere autografe che Ciampi scrisse a mano e fotocopiò personalmente nella stanzetta di passaggio tra la sua anticamera e l’ufficio della segretaria di sempre, Maria Cristina Timperi. Nessuno, nemmeno lei, doveva conoscerne il contenuto. Le lettere sigillate dal Presidente vennero portate a D’Alema personalmente da Francesco Alfonso, piemontese di Alessandria — taciturno, riservatissimo, come piace a Ciampi, suo capo della segreteria da sempre. D’Alema intervenne subito telefonando a Ciampi e dicendogli che, senza di lui, non avrebbe sciolto la riserva, avrebbe rinunciato. Ciampi resistette per un giorno e mezzo. Poi, nel pomeriggio della domenica, venni informato che nello stesso pomeriggio sarebbe stata diffusa una nota del presidente incaricato, nella quale chiedeva ufficialmente a Ciampi di essere parte, fondamentale, del nuovo Governo. Tanti amici personali come Vincenzo Visco e Andrea Manzella cercarono di favorire una soluzione positiva della crisi che rischiava di condurre alle elezioni anticipate. Pochi minuti prima delle ore 20,00, il Presidente mi chiamò da Santa Severa — ero nel mio ufficio a via XX Settembre — e mi dettò le poche righe di un comunicato nel quale Ciampi ringraziava il presidente incaricato per la fiducia e assicurava la propria disponibilità a proseguire nell’incarico. Giusto...