1. L’antrace del Duce
La storia segreta delle armi biologiche italiane
I batteri in camicia nera
Il modo migliore di tenere nascosto un segreto è lasciarlo sotto gli occhi di tutti, nel cuore di Roma, tra corridoi frequentati da migliaia di persone. E questo non è un segreto qualunque: si tratta di qualcosa che nessuna autorità è disposta a riconoscere. Se chiedete a ministri, generali e professori, tutti allargheranno le braccia sbalorditi, convinti che in Italia non ci sia mai stato nulla del genere. Una cortina che viene difesa in modo doppiamente misterioso. Perché quegli esperimenti fanno ancora paura: possono servire come modello agli scienziati che lavorano per costruire l’apocalisse, sono la base del bioterrorismo sognato da Osama Bin Laden. E perché le creature di quei laboratori sono scomparse nel nulla, inghiottite per sessant’anni da un silenzio molto sospetto. Nessuno vuole ammettere che nel nostro Paese siano state distillate le armi più infami e mostruose: quelle batteriologiche. Virus e batteri trasformati in bombe: antrace, aviaria, peste nera e altre malattie letali. I mali che oggi ci incutono terrore sono stati messi al servizio del regime fascista per seminare l’epidemia nelle città e contagiare popolazioni.
Se si vuole smettere di credere alla retorica buonista sulle nostre forze armate, se si vuole entrare nel profondo della vergogna che in nome della patria in armi ha condizionato la storia dell’ultimo secolo, allora bisogna scendere nel ventre di Roma, nella pancia di uno dei colli che hanno visto sorgere la città di Romolo, nello stesso livello sotterraneo di un tempio esoterico e di una chiesa dai simbolismi magici.
Lì, a una manciata di passi dal Colosseo, in uno scantinato del Celio – l’ospedale militare dove finiva chi marcava visita o voleva sottrarsi alle corvée della naja – è stato custodito il segreto più angosciante del nostro Paese. In quel luogo, all’apparenza tutt’altro che top secret, da sempre avvolto in un’atmosfera levantina e poco marziale, si nascondevano i laboratori in cui gli scienziati in camicia nera hanno coltivato per anni virus e batteri, allevati per massacrare intere popolazioni.
Pochi metri sotto a quegli stanzoni popolati di intrallazzi e di sindromi immaginarie – che, più che a X Files o alle basi sperimentali dei film di spionaggio, fanno pensare alla Grande guerra di Monicelli dove Alberto Sordi, soldato imboscato in infermeria, cerca di truffare Vittorio Gassman promettendogli il congedo dal fronte: «Hai detto che sei malato? Mo’ voglio vedè che se pò fa’... Trenta lire» –, oggi occupati da un modernissimo reparto di terapia intensiva che accoglie i parà feriti dell’esercito mandato a combattere in Afghanistan, per settant’anni è stato sepolto il capitolo peggiore dei piani bellici mussoliniani.
Un mistero che ha resistito persino agli interrogatori dei cacciatori di nazisti americani, spediti sulle tracce degli italiani che contribuivano alla creazione delle armi finali di Adolf Hitler: anche i documenti inediti dei National Archives di Londra che formano la base di questo racconto permettono solo di scalfire la memoria di questo orrore. Concepito con un’unica missione: decimare gli abitanti delle città con pestilenze d’ogni genere, antrace, tifo, peste gialla, aviaria e altri morbi che ancora oggi restano al centro delle analisi inconfessabili delle grandi potenze.
Non furono solo esperimenti teorici. Testimonianze autorevoli lo dimostrano: spore contaminate furono disperse sulla popolazione dei centri repubblicani durante la Guerra civile spagnola e abbiamo a disposizione indizi di test altrettanto mostruosi nei villaggi abissini durante l’invasione dell’Etiopia. Storie che possono sembrare antiche ma che dimostrano una capacità straordinaria nel tutelare il segreto di Stato per decenni, in una consegna del silenzio che nessuno in Italia ha ancora voluto violare.
Prove d’epidemia sulla spiaggia
Quel 4 giugno 1944 erano convinti di entrare nella storia, credevano che le porte della città eterna gli avrebbero garantito la gloria. Stavano conquistando Roma, il sogno di ogni condottiero da oltre duemila anni. Certo, la loro vittoria non avrebbe cambiato le sorti del conflitto. Ma le avanguardie americane che correvano lungo la via Appia verso le mura aureliane respiravano il vento degli eroi: pensavano alla parata che li avrebbe accolti come le legioni dei Cesari, alle foto davanti al Colosseo, dimenticando l’inverno di massacri a Cassino e ad Anzio. Non sapevano che il loro trionfo sarebbe durato poche ore e che avrebbe resistito in prima pagina per una sola edizione dei quotidiani. La storia era altrove, sulle coste della Francia: mentre loro sfilavano euforici sui Fori imperiali, la flotta d’invasione partiva dai porti britannici diretta verso la Normandia. Il giorno decisivo, il D-Day citato nei libri di tutto il mondo, sarebbe stato due giorni dopo, quel 6 giugno che ha segnato l’inizio della fine del nazismo.
Tra le colonne dell’armata che marciava festosa verso Roma c’era una minuscola squadra di investigatori. Erano i cavalieri incaricati di fermare l’apocalisse minacciata da Adolf Hitler nei proclami urlati a una Germania ferita ma ancora potente. La loro missione era chiara: cercare le risposte a Roma, nei laboratori dell’esercito che per ultimo aveva usato il gas sul campo bombardando l’Etiopia, che aveva collaborato con il Reich fornendo informazioni decisive sulle cavie umane, che aveva un primato industriale nella chimica. Gli investigatori sapevano che nel maggio 1943, a Berlino, prima che il regime littorio venisse sconfitto, quegli scienziati italiani si erano confrontati in un summit con i colleghi tedeschi sulla rappresaglia che ambiva a capovolgere il conflitto e a salvare l’Asse dall’inarrestabile offensiva di sovietici e anglo-americani. E sapevano di dovere fare in fretta.
La squadra speciale prendeva ordini direttamente dall’intelligence di Washington e si coordinava con i colleghi britannici. Si trattava di un pugno di ufficiali medici ed ex poliziotti al comando del colonnello William S. Moore, con pieni poteri e una lista di nomi da trovare a ogni costo. In cima all’elenco, cinque persone, considerate gli artefici del programma di armi segrete fasciste: Ugo Reitano, il professore che dal 1932 ha diretto l’«operazione epidemia»; Giuseppe Morselli, il dottor Germe del Fascismo, che dal 1934 ha guidato gli esperimenti sul campo; Fausto Vaccaro, l’ufficiale che ha costruito i macchinari per spargere i virus; Loreto Mazzetti, numero uno dell’ospedale del Celio dove erano state condotte le ricerche, e il generale Ingravalle di cui il nome resta ignoto. E, assieme alla lista, un punto di partenza: le cantine del Celio da dove, come abbiamo visto, un manipolo di professori di sicura fede fascista e buona conoscenza scientifica aveva seguito le spedizioni più importanti del Ventennio, dall’Etiopia all’Albania.
È una vera caccia all’uomo, più simile a un’indagine di polizia che a una missione militare: si chiede subito aiuto ai carabinieri, fedeli ai Savoia, e ai pochi funzionari affidabili della questura. Sono proprio gli investigatori italiani a indicare un’altra figura chiave: Ugo Cassinis, celebre medico e professore di fisiologia umana. È un nome molto noto ancora oggi: padre della medicina sportiva, ha creato le regole per il controllo clinico degli atleti ed è considerato il riferimento nobile per chi si occupa di doping. Lo rintracciano in una delle strade più belle di Roma, in una palazzina liberty di via Dandolo, che da Trastevere sale verso il Gianicolo. È proprio Cassinis a tracciare il primo quadro degli sforzi per trasformare le malattie in guerrieri del Duce. Oltre che medico e docente, infatti, è soprattutto ufficiale: dal 1939 al 1942 è stato il numero uno di tutte le strutture del Celio, inclusi quindi i laboratori segreti, ma – scrivono gli americani – «lo avevano rimosso perché era di manica larga nel riformare gli ufficiali destinati al fronte»: un modo di fare resistenza e salvare molti giovani – raccomandati e no – dalle trincee dell’Africa, della Grecia e della Russia.
Cassinis fornisce il primo identikit del dottor Germe e del suo staff. Descrive il colonnello Reitano, il fondatore dell’operazione epidemia: laurea a Bologna, cattedra alla Sapienza, partecipazione a importanti convegni internazionali. Lo definisce «un vero fascista, che per questo non parlava mai del suo lavoro». E spiega: «Lo faceva per segretezza e per imbarazzo». Un sentimento, quest’ultimo, che non riguardava in alcun modo i problemi etici nel maneggiare virus che potevano decimare intere città e spazzare via migliaia di vite umane, colpendo soprattutto i più deboli, le donne e i bambini. No, la coscienza non c’entra: l’imbarazzo del colonnello Reitano stava «nell’incapacità di ottenere quei risultati definitivi» richiesti dal regime.
Nel suo interrogatorio Cassinis evidenzia soprattutto il ruolo di Morselli, indicandolo come colui che sa tutto. Anche se non può presentare prove: «Mi hanno detto che tutta la documentazione sugli esperimenti è stata distrutta» dichiara «anche se ho dei dubbi al riguardo».
Poche settimane dopo, nell’agosto 1944, carabinieri e agenti americani riescono anche a rintracciare Loreto Mazzetti, un generale ormai in pensione, comandante in capo del Celio prima di Cassinis, proprio quando dai sotterranei dell’ospedale militare viene lanciata la fase di sperimentazione sul campo dei virus. Ha tolto l’uniforme nel 1939 e si è salvato dal conflitto. Ha ricordi vaghi: dice di avere saputo delle ricerche segrete e sostiene di avere esaminato un rapporto con i risultati delle attività . In quel dossier, aggiunge moltiplicando l’interesse dei detective statunitensi, c’era anche una sintesi delle ricerche condotte in Germania. Non solo: dichiara di aver assistito a una delle grandi manovre batteriologiche. Dove? Sulla spiaggia nei dintorni di Ostia. Il fascismo, dunque, ha fatto partire il suo programma di armi letali a pochi chilometri dal litorale frequentato da tutti i romani, aperto alle «masse proletarie» grazie alla ferrovia che lo collega direttamente alla capitale. Quell’arenile a ridosso della pineta, infatti, per alcuni giorni del 1935 viene circondato dalle truppe, tenute anch’esse all’oscuro di cosa stia accadendo. In acqua, a distanze stabilite dalla costa, vengono ancorate delle vedette della Marina. Poi cominciano ad arrivare gli aerei.
Il racconto di Mazzetti permette di ricostruire questa incredibile prova di guerra totale. Sotto le ali della prima squadriglia ci sono delle bombole particolari. Sono state costruite dagli ingegneri dell’Aeronautica nella base di Vigna di Valle, sul lago di Bracciano, un’officina dove sono stati inventati ordigni geniali e micidiali.3 I bimotori con il fascio littorio sulla fiancata rallentano e rilasciano una scia, una nebbiolina chiara quasi invisibile. C’è solo un sibilo, coperto dal rombo dei motori. Poi a terra cade una pioggia leggera, poco più che un velo di umidità : una rugiada destinata a uccidere in modo spietato, portando febbre gialla, antrace, aviaria, tifo. Quella sola squadriglia avrebbe potuto trasformare una città con centomila abitanti in un lazzaretto di dolore. Ma si tratta soltanto di un test, per capire se lo spray funziona: a Ostia le bombole sono state riempite con una miscela inoffensiva, un concentrato di batteri che non attaccano l’uomo.
La prima squadriglia è seguita, a pochi minuti di distanza, da una seconda. Questa volta sotto le ali ci sono bombe realizzate nel segreto totale. Gli ingegneri hanno lavorato per settimane, cercando di realizzare un’arma senza precedenti, un ordigno che diffonda capillarmente la malattia. Esplode in aria come un fuoco d’artificio, senza fare danni, senza schegge né distruzioni. Pare innocua, invece fa piovere microbi nebulizzando una miscela di organismi virulenti, spargendoli da cento metri d’altezza su un’area di oltre un chilometro quadrato: tutto viene irrorato di morte, non c’è speranza di sfuggire all’epidemia. Le bombe vengono sganciate in mare, disperdendo la miscela sulle onde e sulle vedette, sul litorale e sulla pineta. Anche in questo caso, però, si tratta di un test e le sostanze sono incapaci di aggredire l’uomo.
A terra e sulle imbarcazioni la squadra di Morselli ha piazzato delle ampolle capaci di individuare i germi caduti dal cielo: un sistema per misurare quel nuovo bombardamento, che inaugura un’altra era della guerra totale, un modo per capire quanti messaggeri del contagio arrivano sul bersaglio e qual è la loro letalità .
Gli untori venuti dal cielo non deludono i loro creatori. Le bombe funzionano: una parte dei germi proiettati dagli ordigni sopravv...