Le pieghe dei giorni
Con sicurezza, calma e precisione, Simmons porta l’arte dell’ellissi al suo culmine.
Bertrand Leclair
a Nancy
Sua madre gli insegnò i numeri ancora prima che andasse a scuola. All’inizio ne imparò i nomi, che ripeteva aprendo una dopo l’altra le dita strette a pugno. Ogni cifra gli ispirava sentimenti diversi. L’uno era perfetto e simpatico. Il suo aspetto corrispondeva al significato. Il due sembrava più complicato di quanto fosse in realtà . Però se lo disegnava in maniera schematica, come una Z, e considerava la lineetta centrale un modo per andare dalla linea superiore a quella inferiore, richiamava anche il suo significato. Il tre dava una gran soddisfazione: le tre punte lo rendevano facile da capire e ricordare. Poteva sommare due volte tre contando le sei punte. Il quattro, se lo scriveva con la parte superiore aperta, aveva quattro punte. Con il cinque il sistema non funzionava più ed era difficile da disegnare; ma visto che era la metà di dieci, ci si potevano fare cose rapide e precise. Il sei, anche se era pari, sembrava un numero dispari perché era ricurvo come il tre e il cinque. Sette era la cifra più dura; era difficile immaginare il numero di unità che rappresentava: lui riusciva ad arrivare solo a cinque, e poi lì vicino ne vedeva altre due; era ingannevolmente semplice da disegnare e in un certo senso non c’era da fidarsi. Trovava affascinante l’otto perché era paradossale: aveva le curve di un numero dispari, ma dal momento che era verticalmente simmetrico era un simbolo appropriato per un numero pari. L’unico modo di affrontare il nove era come dieci meno uno e, considerando che era una cifra alta, se la cavava bene: due volte dieci faceva venti; quindi due nove erano venti meno due, o diciotto. Questo funzionava fino a nove per nove: cioè, nove per nove era come nove dieci meno nove uno, o ottantuno. Lo zero, come l’uno, era perfetto. Un giorno, aveva cinque anni ed era confinato a letto con il raffreddore, si rese conto che la serie che andava da zero a nove era parallela a quella che andava da dieci a diciannove, da venti a ventinove e così via. Provò una grande sensazione di potere e su un foglio di carta scrisse i numeri dall’uno al centocinquantuno. Se avesse avuto tempo, sapeva che avrebbe potuto continuare a creare numeri all’infinito. Sua madre controllò la lista per vedere se era corretta e quella sera la fece vedere a suo padre, che ne fu contento e disse che alle elementari l’aritmetica era stata la materia in cui aveva avuto i voti migliori. Dal momento che non era andato oltre le elementari e dal momento che, a detta di sua madre, era un uomo estremamente intelligente, forse era ai numeri che doveva gran parte della sua intelligenza. L’aritmetica diventò la materia in cui anche lui ebbe i voti migliori alle elementari. All’inizio dell’anno l’insegnante di seconda annunciò che da quel momento in poi avrebbero dovuto disegnare il quattro con la parte superiore aperta. A lui andava bene, ma gli altri studenti ne rimasero sconcertati; in prima gli era stato insegnato a farlo con la parte superiore chiusa. Adesso la si pensava diversamente al riguardo. Immaginò che fosse una conclusione a cui era giunta un’assemblea di adulti, probabilmente l’estate precedente. Visto che aveva scoperto il sistema decimale da solo, conosceva le relazioni espresse nelle tabelline, ma gli insegnanti insistevano perché lui e gli altri bambini le imparassero a memoria. Perciò, quando gli chiedevano di moltiplicare, lui ripercorreva a mente le tabelline e con il tempo perse la sensibilità per l’architettura numerica. Il primo anno di liceo un eccentrico professore con i denti sporgenti gli insegnò l’algebra elementare; la mescolanza con le lettere diluiva l’eleganza dei numeri e la matematica divenne la materia in cui andava peggio. Quando entrò nell’esercito aveva dimenticato parte delle tabelline – sei per sette, sette per otto, otto per dodici – e al test d’intelligenza ricevette un punteggio basso. Andò dall’ufficiale superiore, gli spiegò il problema e chiese di ripetere il test. La sera prima scrisse le tabelline, ne ricavò alcune con le addizioni e le imparò di nuovo a memoria. Ora il suo interesse per i numeri, al di là degli usi pratici come il calcolo delle spese famigliari e il controllo delle entrate e delle uscite nei conti bancari, è di tipo mistico. Lo colpisce il ricorrere, nella sua vita, di cifre che iniziano per otto. Quand’era bambino abitava al civico ottocentoquaranta; il suo liceo si trovava nell’Ottantaquattresima Strada; per andare a trovare la prima ragazza con cui aveva fatto sul serio scendeva alla stazione della metro dell’Ottantaseiesima; quando l’indice Dow Jones per le azioni industriali arriva intorno all’ottocento sente che deve comprare o vendere. Acquisterà una calcolatrice elettronica e ci giocherà nei momenti di stress. I risultati che ottiene senza sforzo per i problemi aritmetici alla sua portata lo rilassano come gli capitava da giovane guardando un evento sportivo. Un giorno che starà estraendo radici quadrate a caso con la calcolatrice ed elevandole al quadrato per determinare l’inadeguatezza delle approssimazioni decimali, si renderà conto che fin dall’infanzia ha inconsciamente creduto di poter diventare un matematico, e capirà che non potrà mai accadere. Per lui sarà un sollievo. Dopo i sessanta si chiederà se la regola del ricorrere dell’otto nella sua storia resterà valida anche per la conclusione della sua vita.
La zia Mae aveva abitato con loro saltuariamente, durante tutta la sua infanzia. Era la sorella più vecchia di sua madre; sua madre era la più giovane. I suoi amici dicevano che Mae sembrava più una nonna che una zia. Era magra, aveva capelli biondo-grigi, lineamenti sottili e un’aria circospetta. Riservava molte più attenzioni a lui che a suo fratello e il sabato pomeriggio lo portava ovunque volesse andare. Per vivere aveva fatto molte cose; era orgogliosa di avere lavorato nei più esclusivi alberghi della costa del New Jersey, ma lui non avrebbe saputo dire con quale mansione. Quando stava con loro, si guadagnava il pane scrivendo indirizzi sulle buste; aveva una bella calligrafia e si sedeva a un tavolo accanto a una finestra con una pila di buste e un elenco di nomi e indirizzi e lavorava per ore senza stanchezza o lamentele. La sua penna aveva una clip dorata e lei scriveva con un ditale di gomma rossa a proteggerle il dito indice. Non permetteva a nessuno di usare la sua penna: «L’inclinazione del pennino potrebbe rovinarsi». Era stata sposata con un vedovo texano che era stato direttore d’albergo e capitano di un battello fluviale e che alla fine si era sistemato in un aranceto in Florida. Dopo la fine del loro matrimonio aveva continuato a portarne il nome e ogni tanto raccontava su di lui storie vagamente eroiche: una volta in Florida aveva trovato sul tavolo una tarantola «pronta al balzo»; aveva chiamato suo marito, che le aveva detto di non muoversi, era comparso con un asciugamano umido e l’aveva calato su quella cosa, uccidendola. Le chiese perché l’aveva lasciato. Perché teneva una pistola carica sul comodino, rispose lei. Fece la stessa domanda a sua madre; gli rispose che a Mae piaceva viaggiare, aveva amato gli alberghi e i battelli fluviali ma non l’aranceto. Quando crebbe iniziò a fare da solo le cose che aveva fatto con Mae, ma rimasero vicini. Era sempre d’accordo con lui, anche quando, aveva la sensazione, non lo capiva o quando questo significava non essere d’accordo con suo padre e suo fratello (tranne se uno dei due era presente). Rispondeva generosamente alle domande e visto che era stata in tanti posti sapeva molte cose. Tuttavia lui a volte dubitava di quello che diceva: lei sosteneva che l’appendicite era causata dall’avere inghiottito semi di mela; che i cibi che cuocevano lentamente, come i canditi, costavano meno negli empori a causa del prezzo del gas; che dopo una certa età non bisogna camminare a piedi nudi sulla sabbia perché i granelli ti si infilano nei pori e ti finiscono nel sangue. Mae occupava poco spazio e possedeva poche cose. Un libro, L’enciclopedia standard dei rimedi (di F.E. Brown, pubblicato nel 1910), ne conteneva 1001: come indurire i cappelli, ammorbidire i corsetti, fabbricare un surrogato del brandy, curare il cancro (descriveva cinque cure, di cui due «sicure»). Gli permetteva di prendere il libro per periodi brevi ma si agitava se ne restava priva a lungo. Quando decise di sposarsi, disse a Mae e a sua madre che la sua fidanzata aveva insistito perché lui si confessasse in modo da poter fare la comunione durante la messa nuziale, e di averle dovuto mentire riguardo alla confessione. La trovava una storia divertente; però Mae, con una voce stentorea che non le aveva mai sentito usare, lo accusò di essere egoista e ipocrita, «e sei sempre stato così, fin da bambino» aggiunse. Lui e sua madre restarono attoniti: avevano sempre pensato che Mae gli volesse molto bene. Da allora tra loro si stabilì una certa freddezza, anche se sua madre gli riferì che Mae si era mostrata dispiaciuta per quello che aveva detto. Quando suo padre morì fu felice che Mae tenesse compagnia a sua madre. Dopo gli ottanta Mae si raggomitolò su uno dei divani di sua madre, non si mosse, rifiutò il dottore, mangiò poco, evacuò poco, dimagrì. Lui la portò in ospedale, con l’intenzione di trasferirla in un ospizio dopo un controllo. In ospedale fu chiaro che stava morendo. Era così fragile che nessuno aveva voglia di scoprire cos’aveva, a parte il fatto che c’era «una massa consistente nella regione addominale». Un’infermiera consolò sua madre con l’informazione che Mae «non soffriva», cosa che gli diede la misura di quanto possono essere brutte certe morti. All’agenzia di pompe funebri non venne nessuno tranne lui, sua madre e suo fratello. Quando sua madre sarà l’unica superstite della sua famiglia originaria lui le farà delle domande sul passato e lei spesso risponderà : «Questo Mae lo sapeva di sicuro». «Forse lo trovi difficile da credere» gli dirà , «ma da giovane Mae era molto attraente, c’erano un sacco di uomini interessati a lei.» Capirà che sua madre si sente più fortunata perché ha avuto un matrimonio come si deve e dei bambini. Verso la fine della vita dirà : «Sono contenta che Mae se ne sia andata per prima, così non dovrà restare sola», e lui ne dedurrà che sapeva che né lui né suo fratello se ne sarebbero presi cura. «Mi è sempre dispiaciuto per lei» dirà anche, «era la più grande e ha avuto il peggio.» «E tu eri la più giovane e hai avuto il meglio?» le chiederà . Lei annuirà sorridendo.
I suoi otto anni alla scuola elementare St. Ursula coincisero con la Depressione. Le famiglie non potevano permettersi di spostarsi da un quartiere a un altro, così le classi rimasero inalterate. In prima ebbe come insegnante la signorina Thoma, che era carina e giovane e gli disse che lo vedeva sempre arrivare a scuola con un sorriso. In seconda ebbe la signorina King, a cui una volta uscirono i seni dal reggiseno mentre stava raccogliendo da terra un gessetto; si girò verso la lavagna e si risistemò. In terza ebbe suor Noelita, che piaceva a tutti – maschi e femmine, intelligenti e stupidi, docili e ribelli. Un giorno portò in classe suo fratello gemello, che era divertente e suonava la chitarra. La classe le chiese di invitarlo di nuovo. Lei disse di sì, ma il fratello non tornò. In quarta ebbe madre Ecclesiastica, la suora più vecchia della scuola. Era scura e rugosa e una volta frustò lui e un altro bambino con un gatto a nove code dopo avere loro ordinato di abbassare le calze che portavano con i calzoncini e scoprire i polpacci. Il giorno dopo sua madre lo accompagnò a scuola e si lamentò con la preside, e non ci furono più punizioni corporali, nemmeno con il righello. In quinta ebbe di nuovo suor Noelita; tutti erano d’accordo che era una gran fortuna. L’anno dopo suor Noelita lasciò l’ordine, poco prima di pronunciare i voti definitivi. Uno dei suoi compagni di classe gli disse che un giorno l’avrebbe sposata. In sesta i maschi e le femmine, che avevano studiato insieme, furono separati. I maschi ebbero suor Barnabas, una donna alta e bella che diceva di preferire insegnare alle femmine. In settima ebbero suor Clement, una donna gradevole e assennata sotto le cui gonne lui e altri ragazzi cercarono di sbirciare attraverso la griglia del pianerottolo dell’uscita posteriore da cui lei teneva d’occhio quelli che facevano ricreazione. Suor Clement gli diede la biografia di un giovane cattolico morto a vent’anni, beatificato ma non canonizzato. Gli disse che quel giovane gli ricordava lui. Non lesse quel libro; la sola idea lo faceva sentire fasullo. In ottava ebbe suor Immaculata, che sosteneva che le invenzioni e le scoperte moderne erano cattive, tranne quelle in campo medico. Per esempio, le onde radio amplificavano i rumori della strada e quindi insegnare era più difficile. Sosteneva anche che i pavimenti delle aule diventavano sempre più duri con il passare degli anni. Raccontò che suo zio, un uomo ricco e indipendente, aveva scoperto delle erbe che curavano il cancro. Però si era portato il segreto nella tomba. «Che Dio lo perdoni» aggiunse. A questo proposito, un ragazzo le chiese se il rifiuto di suo zio di condividere quella scoperta con l’umanità era peccato mortale. Gli occhi le brillarono di lacrime mentre rispondeva che non stava a lei giudicare. Una coppia di suoi amici le chiese di prendere in classe il figlio; il ragazzo era stato espulso da parecchie scuole. Lei spiegò alla classe che il ragazzo, che aveva la testa grossa, proveniva da un ambiente privilegiato ed era viziato. La classe si coalizzò contro di lui e dopo tre mesi fu processato. Suor Immaculata nominò un avvocato dell’accusa, uno della difesa e la giuria; il giudice era lei. Dopo due giorni di discussioni, il ragazzo fu dichiarato colpevole di essere un imbroglione, un codardo e un bullo. Leggendo la sentenza, suor Immaculata disse che il processo era stato una punizione sufficiente, che il ragazzo aveva imparato la lezione e che sperava che avrebbe intrapreso una strada nuova. L’organista della chiesa era un uomo fragile e lento con i capelli grigi di cui si diceva che fosse stato un religioso, una volta. Lui e sua moglie avevano un figlio idiota, che inciampava e sbavava. Suor Immaculata confidò alla classe che forse il ragazzo era la punizione divina per i peccati di uno o di entrambi i genitori. Ogni tanto passa in auto davanti alla chiesa e alla scuola, sempre di notte. Come molti luoghi della sua infanzia, gli sembrano rimpicciolite. Quel quartiere, un tempo abitato da tedeschi e irlandesi, ora è nero e marrone. Per puro caso uno dei ragazzi più grandi di una famiglia della località dove trascorrevano le vacanze estive è diventato pastore. Sente dire da alcuni amici che quel prete è amareggiato perché gli è stata assegnata una parrocchia povera. Il negozio di dolci e le officine che servivano gli abitanti della zona, ebrei di classe media, ci sono ancora. Tra qualche anno, d’impulso, farà pubblicare sul giornale un annuncio per una riunione di classe. Al ristorante del centro si presenteranno in tre, tutti maschi – un tenente di polizia, il direttore di un negozio di ferramenta e un ex pugile e macchinista teatrale disoccupato. Verrà a sapere che il ragazzo più intelligente della classe è stato direttore di uno studio di ingegneri del Maryland e ora è morto, e che anche il secondo e il terzo in graduatoria al diploma sono morti. Si chiederà se questo ha un significato, visto che il quarto è lui.
Sua madre era cattolica praticante, suo padre un protestante virtuale; quindi fu cresciuto come cattolico e a casa non si discuteva di religione. Sua madre gli insegnò a dire le preghiere ma solo in senso rituale. Il mondo sembrava funzionare anche senza l’intervento divino e, pur non facendo affidamento su Dio, a volte lo invocava per evitare pericoli o disagi. Se, per esempio, andando a letto pensava di potersi svegliare durante la notte e stare male di stomaco, chiedeva a Dio di impedire che accadesse. Oppure chiedeva a sua madre di dargli dieci centesimi la mattina successiva, se fosse successo. Uno di questi due metodi lo aiutava ad addormentarsi. Non ebbe alcun problema con l’idea di Dio fino a quando non andò a scuola e le suore sollevarono questioni teoriche sul dogma come se volessero trovare le risposte prima che queste sorgessero nella mente degli studenti. Se Dio conosce tutte le cose, disse una suora, sa anche quello che faremo? Gli studenti risposero tutti di sì. Come possiamo essere dotati di libero arbitrio, allora, disse la suora, dal momento che Dio sa ciò che faremo prima che lo facciamo, come se non potessimo fare altrimenti? Nessuno riuscì a rispondere e lui scoprì che la spiegazione della suora era come il trucco di un prestigiatore: sapeva che si trattava di un’illusione ma non riusciva a capire come funzionava. Com’è possibile, disse la suora, se Dio è buono, che nel mondo ci sia così tanto male? La risposta – che l’uomo provoca il male utilizzando il libero arbitrio in maniera sbagliata – non lo soddisfece. Perché Dio ha dato all’uomo il libero arbitrio se sapeva che l’avrebbe utilizzato così? domandò alla suora, aggiungendo che lui non l’avrebbe mai fatto. Ma tu non sei Dio, rispose la suora, come se quella potesse essere una spiegazione. Inventò per le suore altre domande: due neonati vengono portati in chiesa per essere battezzati; uno muore lungo l’andata, l’altro al ritorno; il secondo va in paradiso, il primo no. Come può un Dio giusto avere organizzato le cose in questo modo? Incalzate, le suore rispondevano che si trattava di un Mistero; una suora usò la parola Mystère, spiegando che in francese si definivano così certi capisaldi teologici profondi e bellissimi. A lui e ad altri studenti veniva chiesto di trascorrere molte ore in chiesa; le cerimonie lo annoiavano, come le preghiere e gli inni. Per distrarsi studiava i profili, i mezzi profili e le nuche ...