“Manca un ponte fra i cuori...
Se questo ponte ci fosse
gli uomini si scambierebbero i segreti,
i pensieri lieti,
il sorriso e il perdono...
... fanciullo,
costruisci con le tue mani,
senza travi, questo ponte d’oro.”
Emilia Alboret
Capitolo uno
«Dai, prendetelo!... prendetelo!...» Nella foga della corsa una pentola fu rovesciata e Amebais, la vecchia ubriacona, uscì dalla capanna urlando imprecazioni contro quei demoni che buttavano tutto all’aria.
«Non c’è più tranquillità, no! Ma se vi prendo vi farò frustare tutti!» urlò rivolta al gruppo dei ragazzi che correvano verso la foresta.
Ma questi non le badavano.
Un po’ perché Amebais era sempre stata una pazza brontolona; ma, maggiormente, perché la loro caccia era interessante.
La selvaggina era rappresentata da Isa, il ragazzo che Amûnai aveva portato dalla foresta.
Amûnai, il Ring-kop (che significa: il grande guerriero), l’aveva trovato nove, dieci anni prima, avvolto in una fascia rossa in una cesta appesa ad un grosso ramo. La cesta era stata legata in maniera che né serpenti, né belve potevano raggiungerla.
L’aveva preso con sé e portato al villaggio.
La vecchia Amebais aveva dovuto fargli da madre, ma adempì al suo compito fin quando il ragazzo non fu in grado di trovarsi qualcosa da mangiare tra i rifiuti del villaggio. La sua avarizia non le permetteva di più.
E fino a che Amûnai fu il capo, Isa – questo era il nome che gli avevano dato – Isa, dunque, ebbe di che sfamarsi e fu trattato con rispetto.
Ma allorché il Ring-kop perse il comando, Isa dovette arrangiarsi per vivere.
Era trattato così per un solo motivo: perché era un bianco; se bianca poteva dirsi quella pelle bruciata dal sole e dal vento.
Isa era ora nel suo undicesimo anno di vita; età in cui i nostri ragazzi sono capaci soltanto di portare la cartella a scuola e di imparare qualche lezione a memoria.
Ma per Isa la vita era stata dura; e se non sapeva leggere, né scrivere, sapeva però tante altre cose che gli permettevano di vivere, sia pure stentatamente, fra il disprezzo del villaggio e la “grande padrona”: la foresta.
Oltre tutto Isa era schernito e assalito dagli altri ragazzi. E doveva difendersi dalle loro crudeltà, prendendone spesso a sangue, fino a che non sopraggiungeva a liberarlo qualche uomo del villaggio. Solo allora la masnada lo lasciava pesto e sanguinante sul terreno.
Oppure fuggiva, se poteva.
E mentre gli altri lo cercavano, egli se ne stava immobile, acquattato in un cespuglio, respirando appena.
Per questo Isa era un ribelle.
Solo la frusta gli incuteva timore. Ma ormai si era assuefatto anche a quella.
«Dai, dai, prendetelo!... prendetelo!...»
I ragazzi lo stavano inseguendo.
Quale gioco più bello per dei futuri cacciatori che inseguire una preda viva?
Isa correva velocemente sullo scosceso terreno.
Aveva un buon distacco. Le lunghe cacce lo avevano reso veloce, pronto. Se avesse voluto, avrebbe distaccato di molto gli inseguitori per poi rifugiarsi tranquillamente su qualche albero e lì giocare a tirar frutta e rami secchi alle scimmie.
Ma non voleva.
Anzi, rallentò.
Avanti a tutti veniva Mései, il nipote dello stregone. Mései che da anni lo tormentava; Mései che lo derideva sempre. Specialmente da quando non era considerato più Um-fan, un ragazzo portatore, ma un aspirante guerriero.
Di lì a poco egli avrebbe fatto la sua “prova” e se fosse riuscito avrebbe avuto la sua lancia e il suo tucul.
Isa, invece, era stato scacciato persino dagli Um-fan.
Non poteva seguire il villaggio alla guerra o alla caccia neppure come portatore.
Egli era un orzowei, uno sciacallo d’uomo, un niente.
Era bianco.
Rallentò. Gli altri gridarono, certi della buona riuscita della caccia. Ma l...