L'impero
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L'impero

Traffici, storie e segreti dell'occulta e potente mafia dei Casalesi

  1. 420 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'impero

Traffici, storie e segreti dell'occulta e potente mafia dei Casalesi

Informazioni su questo libro

Dopo l'esplosione dello scandalo delle discariche in Campania e la sentenza d'appello del processo Spartacus, i Casalesi sono balzati alla ribalta della cronaca. Come nel caso dei Corleonesi in Sicilia, il clan più potente e sanguinario della camorra non viene dalla città ma dalla campagna: il paese di Casal di Principe, in provincia di Caserta. E proprio un'alleanza organica con la mafia è all'origine del trionfo dei Casalesi, che incarnano lo spirito e i riti della vecchia camorra e insieme dimostrano una straordinaria capacità di adattarsi al presente. Fin dagli anni Ottanta hanno sviluppato un controllo paramilitare del territorio, esigono percentuali sulla vendita di droga, sulla prostituzione, sul gioco d'azzardo, esercitano estorsioni su ogni attività commerciale, si infiltrano in tutti gli appalti pubblici, governano gli investimenti immobiliari, diversificano le loro attività in settori che vanno dalle pompe funebri alla produzione di mozzarella di bufala fino al calcio, riciclano milioni di euro e si arricchiscono col business dei rifiuti tossici e delle discariche abusive, allargando sempre più la loro influenza in Italia e nel mondo; e tutto questo in mezzo a delitti eccellenti, lupare bianche, sanguinose guerre fra clan. Attraverso documenti, atti giudiziari, testimonianze, cronache giornalistiche e una serrata ricostruzione storica, Gigi Di Fiore, che dalle pagine del "Mattino" segue anche le vicende di quella "periferia della periferia dimenticata", compone con L'impero il primo racconto complessivo di un'agghiacciante realtà criminale che ha superato i confini della cronaca nera ed è diventata un vero e proprio cancro sociale.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
Print ISBN
9788817025980
eBook ISBN
9788858607695

L’impero




«Contro la camorra vedo troppi
tifosi e pochi giocatori.»
(Antonio Manganelli, capo della Polizia)

Introduzione
La provincia ignorata

«L’impressione è che, a fronte della presunta
ineliminabilità del fenomeno camorrista
in provincia di Caserta, scarso rilievo
debba essere dato ai fatti di sangue
che pure accadono con frequenza.
Ci si riferisce all’informazione nazionale,
pubblica e privata, che ormai dimentica
la provincia di Caserta, sempre più
abbandonata come fosse una periferia
della realtà nazionale non più guaribile.»
(Associazione nazionale magistrati, sottosezione
di Santa Maria Capua Vetere, dossier 2005)
Con i Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, quella dei Casalesi è l’unica mafia italiana a essere identificata con il nome di un piccolo paese: Casal di Principe in provincia di Caserta. Periferia della periferia dimenticata, lontana dai riflettori abbaglianti dei grandi mezzi di comunicazione di massa. È il territorio dove la criminalità si è arricchita con il traffico di rifiuti tossici, dove la pratica assassina delle «lupare bianche» non meraviglia più nessuno e dove la camorra ha tentato di infiltrarsi persino nel settore delle pompe funebri e nella produzione e vendita della famosa e invidiata mozzarella di bufala di cui si è tanto parlato qualche mese fa. Eppure, se Napoli fa sempre e comunque notizia tanto che ogni vicenda campana viene descritta in maniera sbrigativa e superficiale come accaduta nel capoluogo, all’opposto Caserta resta luogo sconosciuto alla maggioranza degli italiani che ne ignorano l’esistenza e la storia. Lo denunciano da anni i magistrati in attività nei malandati uffici giudiziari di Santa Maria Capua Vetere, sempre alle prese con sconfortanti problemi di organici.1 Da tempo si affannano a mettere insieme approfonditi documenti-dossier puntualmente spediti al Csm, accolti di continuo dalla generale indifferenza. «Assistiamo a un abbandono mediatico che rispecchia l’abbandono istituzionale nel quale si ha la sensazione di essere ormai caduti»2 scrissero quei giudici nel 2005.
Un silenzio e un oscuramento perenne, che hanno segnato il destino e la fortuna della criminalità organizzata attiva in quel territorio. Eppure, a Caserta e provincia lavorano agguerriti cronisti impegnati in un lavoro difficile e spesso rischioso, come Rosaria Capacchione, da oltre vent’anni giornalista in prima linea nella redazione casertana del «Mattino» di Napoli o Raffaele Sardo, corrispondente della redazione partenopea di «Repubblica». E con loro pattuglie di intraprendenti giovani in servizio nei piccoli quotidiani locali.3 Una scuola di giornalismo sul campo assai prolifica, che ha radici lontane e ricorda ancora l’attività dello scoppiettante Vito Faenza, aversano di nascita, per anni punto di riferimento nell’ormai chiusa redazione napoletana dell’«Unità». Ma su nulla possono incidere i giornalisti al lavoro in zona, se il sistema generale dell’informazione relega quello spicchio di territorio campano nel limbo grigio della «non-notizia». Difficile attrarre l’attenzione del grande pubblico su un’area poco spendibile e poco «commerciabile» all’interno del carrozzone mediatico nazionale. Se la camorra in generale fa vendere meno copie di quotidiani e ha meno audience televisiva della mafia, figuriamoci poi una camorra in azione a molti chilometri di distanza dalla grande metropoli partenopea.
Caserta non è Napoli, appunto. Non attira luoghi comuni, facili equazioni, scontate battute. Una provincia dimenticata, poco nota, totalmente esclusa dai giri e dall’interesse di giornali nazionali e tv. Così, dell’esistenza della mafia casertana si sono accorti in tantissimi solo dopo il gran botto commerciale di Gomorra, il libro di Roberto Saviano. Nella seconda parte di quel testo, scritto con la rabbia partecipata dell’io narrante, settantasette pagine ispirate da vicende di cronaca note solo agli addetti ai lavori sono riuscite a rompere la barriera del silenzio. E hanno finalmente portato fuori dagli stretti confini provinciali il quadro di una criminalità violenta e aggressiva, un’organizzazione delinquenziale che non limita la sua attività nell’ambito locale, ma riesce a estendere i suoi rapaci artigli affaristici sul Norditalia (soprattutto nell’Emilia Romagna e in Lombardia) e all’estero: Sudamerica, Francia, Portogallo, Scozia, Spagna.
È una forma di camorra-mafia con caratteristiche sociali e culturali assai simili a quelle di Cosa Nostra:4 d’origine rurale, in grado di attuare studiate strategie criminali, capace di organizzare omicidi «politici»,5 corrompere rappresentanti delle istituzioni,6 intimorire esponenti dello Stato, della politica e del giornalismo,7 riciclare centinaia di migliaia di euro, accumulare profitti illeciti attraverso un totale controllo degli appalti e delle opportunità imprenditoriali sul territorio. Una mafia che, per mentalità ormai acquisita, è assai meno provinciale dei clan napoletani nei modi, nelle visioni culturali, negli atteggiamenti: poco folklore e molta consistenza concreta. Una forma di camorra rurale,8 ormai evoluta e arrivata alla seconda e anche terza generazione nel corso degli ultimi trent’anni.
Non a caso i suoi capi, sin dalla fine delle guerre contro la Nco, la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo,9 hanno sempre dimostrato di possedere modi e gusti da «gente di mondo»: passioni per l’arte e per la storia, unite ai viaggi, ai bei ristoranti in Francia come in Brasile, in Scozia come nell’Europa dell’Est. Tutto cominciò con Antonio Bardellino, l’uomo che, sulle ceneri della guerra contro la camorra centralizzata di Raffaele Cutolo ’o prufessore,10 il capo e fondatore della Nuova camorra organizzata che mirava a controllare tutte le attività illegali sul territorio campano, diede il «la» all’autonomia dell’organizzazione casertana. Già allora Bardellino poteva contare su migliaia di affiliati, disperati e piccoli delinquenti attratti dal guadagno facile e pronti a sparare. Gente agguerrita e con tanta voglia di scalare i gradini della società con la violenza, disposta a non andare tanto per il sottile. Gente che contribuì in poco tempo a stendere, tra i confini della provincia a nord di Napoli (con i comuni di Giugliano, Acerra e Casalnuovo) e la provincia di Latina, una cappa oppressiva di omertà e paura.
Le velleità di autonomia criminale di Antonio Bardellino partivano da ricordi lontani. Avevano radici antiche: risalivano addirittura alla fine dell’Ottocento, quando fu proprio la camorra casertana ad assestare un duro colpo all’unità dell’organizzazione delinquenziale campana, allora strutturata in forma gerarchico-piramidale con il suo vertice saldamente ancorato nella città di Napoli. Nella grande metropoli, sin dai tempi del Regno borbonico, venivano riconosciuti dodici capintriti alla guida dei picciotti in azione nei quartieri napoletani. Erano proprio quei dodici rappresentanti della Onorata società, come veniva chiamata la camorra storica ottocentesca, a eleggere al loro interno il capintesta. Il capo dei capi di allora, quasi sempre originario delle zone del centro storico: Montecalvario e Vicaria.11 Era una forma di criminalità che, secondo una felice definizione riportata per primo dal giornalista-scrittore Marco Monnier nel 1863,12 faceva uscire l’oro dai pidocchi,13 esercitava cioè la sua oppressione violenta e le sue estorsioni soprattutto sui ceti meno fortunati della società: facchini, cocchieri, piccoli artigiani.
Proprio dal Casertano, partì l’assalto all’unità della camorra storica. Già nel 1860, la Onorata società di Terra di Lavoro,14 come anche viene definita la provincia di Caserta, poteva contare su quasi duemila affiliati.15 Tanti, in un’area che allora non superava gli ottocentomila abitanti. E il cuore dell’organizzazione era nella città di Aversa, da dove partì il primo vero capo della camorra casertana: Vincenzo Serra. Fu lui a sfidare i napoletani e a rivendicare l’autonomia nel controllo delle estorsioni sul suo territorio tra Aversa, Marcianise e Santa Maria Capua Vetere.16 Un gruppo tanto potente che il fascismo fu costretto a mettere in piedi una delle sue più dure repressioni poliziesche. Nel 1927, si arrivò a una significativa operazione: ben quattromila affiliati furono arrestati in provincia di Caserta, nel corso di più retate, come allora si definivano i blitz, concluse solo dopo diversi giorni.17 I casertani pretendevano, non a torto considerando il loro spessore criminale, di staccarsi dal controllo di Napoli e poter decidere — tra gli affiliati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere così come nei gruppi in libertà — come e dove sviluppare i loro affari illeciti. Senza dover chiedere il permesso ai capi camorra napoletani. Durante lo stato d’assedio del 1862, quando il generale Alfonso La Marmora era a Napoli insieme prefetto e comandante militare, in una corrispondenza tra la Prefettura napoletana e il Comando delle truppe mobili di Terra di Lavoro già si leggeva: «Caserta era divenuta il quartiere generale dei camorristi perseguitati vivamente a Napoli».18
Quando, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, Antonio Bardellino divenne punto di riferimento per i gruppi criminali casertani, resuscitò quindi una camorra autonoma dalle vecchie radici, che ben presto assunse connotazioni assai violente. Dichiarò Tommaso Buscetta, nell’audizione del 17 novembre 1992 dinanzi la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante: «Bardellino era un uomo d’onore, addirittura un rappresentante in Campania di Cosa Nostra».19 Dunque, una camorra che tendeva a uniformarsi alla mafia siciliana, a diventarne alleata assumendone rituali e codici violenti. Non a caso: se rurale era l’origine storica di Cosa Nostra, nei piccoli centri di campagna nasce anche l’organizzazione criminale in provincia di Caserta. 20 Così, mafiosi e bardelliniani parlavano la stessa lingua, rispettavano gli stessi riti. Bardellino diede sempre molta importanza alla cerimonia di affiliazione, andava fiero della sua appartenenza a Cosa Nostra che gli assicurava potenza, rispetto e controllo su un numero consistente di gruppi di fuoco senza eguali in Campania. Già nel 1981, scrivevano i giornalisti napoletani Marisa Figurato e Francesco Marolda: «Si dice che a Casal di Principe, una delle roccaforti della terra dei Mazzoni,21 ai bambini si faccia dono di una pistola nel giorno della prima comunione. È una favola che si racconta ed è anche un modo per far comprendere che da Giugliano ad Aversa a Villa Literno le bocche che parlano più di frequente sono quelle di fuoco».22
E proprio a partire da quei primi anni Ottanta che la camorra-mafia casertana, lontana dai riflettori, si rafforzò: con le infiltrazioni in tutti i grandi appalti pubblici nella zona, il controllo del business calcestruzzi, gli investimenti immobiliari, le imposizioni negli acquisti di latte, le estorsioni a tappeto su ogni attività commerciale, le percentuali sulla vendita della droga concessa sul proprio territorio a gruppi delinquenziali di origine straniera, le tangenti anche sulle sale del gioco d’azzardo e sui guadagni delle prostitute nigeriane e albanesi che vendono il loro corpo sul litorale domitio. Ha una struttura organizzativa di tipo piramidale.
Se con Bardellino il centro era San Cipriano d’Aversa, paese d’origine di don Antonio, con i suoi successori l’asse si sposta a Casal di Principe. Ma il triangolo San Cipriano-Casale-Casapesenna esprime ormai tradizionalmente i capi dell’organizzazione, tutti originari di quell’area. Le altre famiglie, attive nei paesi vicini, restano satelliti dei Casalesi e le loro attività possono svolgersi solo con l’assenso dei capi nati nel triangolo predominante. In trent’anni, così, si è passati via via da Bardellino a Mario Iovine, Schiavone, De Falco, Bidognetti, Zagaria, Antonio Iovine. Una successione al vertice non indolore, che ha lasciato dietro di sé scie di sangue e immagini di morte. A volte, negli agguati sono incappati anche innocenti uccisi per caso. E per errore di killer spregiudicati. Come l’agricoltore Tammaro Bocchino, o il dodicenne Salvatore Richiello.
Scrive la Commissione parlamentare antimafia della XV legislatura, nella relazione finale approvata nel febbraio del 2008:
Il clan dei Casalesi risulta mantenere formalmente salda la sua struttura unitaria, di tipo piramidale, con un gruppo di comando e con una cassa comune in cui confluiscono i profitti illeciti per l’erogazione centralizzata di uno stipendio ai quadri del gruppo. […] Agiscono poi gruppi di riferimento su specifiche zone di influenza o in particolari settori, pur nella consapevolezza di far parte di una struttura unitaria.23
In poco più di una ventina di chilometri si concentrano rigide assegnazioni di controlli criminali. Se a Napoli città i singoli clan esercitano la loro influenza violenta su determinati quartieri, la camorra-mafia casertana si divide l’egemonia sui paesi distribuiti nel territorio: si passa dalle famiglie di vertice Schiavone, Bidognetti, Iovine, Zagaria nel triangolo Casale-San Cipriano-Casapesenna, per arrivare ai gruppi tollerati nei centri confinanti. Così, a Pignataro Maggiore ci sono i Lubrano; a Villa Literno i Tavoletta; a Mondragone gli Esposito-La Torre; a Marcianise i Belforte. Scrive la Dia, la Direzione investigativa antimafia, nel suo rapporto del 2007: «Nell’area risulterebbero operare circa 11 sodalizi di matrice camorristica».24 E aggiunge ancora la Commissione parlamentare antimafia: «All’interno del gruppo Schiavone, rimasto sostanzialmente egemone, sono pure in atto importanti movimenti per ricostruire gli equilibri di potere».25
Appare emblematico, a dimostrazione della caratteristica chiusura strutturale dei Casalesi, che ogni guerra esplosa sul territorio sia scaturita sempre da rotture di equilibri all’interno dell’organizzazione. Quasi sempre per stabilire una supremazia, una successione alla guida del gruppo nel controllo degli affari e dei business criminali. E fino al 1993 sono state quasi inesistenti le collaborazioni con la giustizia di affiliati: un sistema chiuso, in cui le componenti familiari restano determinanti e l’allargamento ai reclutamenti di guaglioni non legati da vincoli di sangue con i capi è rigidamente regolato e curato con attenzione. Un sistema che, soprattutto negli ultimi anni, ha però ricevuto dure batoste giudiziarie grazie agli improvvisi pentimenti di esponenti di rilievo nell’organizzazione: la collaborazione di Carmine Schiavone, cugino dei boss dei Casalesi, con la Dda, la Direzione distrettuale antimafia napoletana; i più recenti pentimenti di Anna Carrino e Domenico Bidognetti (detto Mimì ’o bruttaccione,26) convivente e fratello del boss Francesco soprannominato Cicciotto ’e mezzanotte. Si è trattato di collaborazioni determinanti per il lavoro investigativo.
Negli ultimi anni, in provincia di Caserta le guerre di camorra si sono susseguite con preoccupante frequenza. Centinaia i morti ammazzati. Qualche dato: in diciannove anni, dal 1985 al 2004, nell’area casertana sono stati eseguiti 646 omicidi di mafia, che hanno avuto per scenario il territorio di ben 54 dei 104 comuni della provincia; dal 1991, invece, è stato sciolto per infiltrazioni mafiose il rilevante numero di 34 amministrazioni comunali.27 Sono cifre da brivido, da associare al quarto posto in Italia conquistato dalla provincia casertana per il numero di beni confiscati dagli inquirenti nel periodo compreso tra il 1985 e il 2004.28 Eppure, tutto scorre fuori dall’attenzione generale. E lo stesso fenomeno letterario di Gomorra sembra suscitare più emozioni momentanee, discussioni salottiere in cui la conoscenza della personalità del suo autore prevale su ciò che ha scritto. Ben altre erano le intenzioni di Saviano, che dalla sua denuncia sperava scaturissero spunti per ulteriori approfondimenti.
Il buio invece permane, anche se tanto ancora ci sarebbe da raccontare, capire, analizzare su quello che da decenni si sta verificando in provincia di Caserta. Ed è sintomatico che finora non sia mai stato pubblicato un saggio documentato, in grado di fornire una ricostruzione storica sull’evoluzione della realtà criminale dei Casalesi. Sfogliando la scarna bibliografia pubblicata sulla realtà criminale casertana, si trovano in prevalenza testi su episodi o singoli aspetti, piccoli flash, con attenzione soprattutto alla figura di Antonio Bardellino. Non esiste ancora un racconto di ricostruzione storica sulla camorra di Terra di Lavoro. Un vuoto che questo libro si propone di colmare, utilizzando documenti, atti giudiziari, testimonianze, cronache giornalistiche. Tutti citati con rigore. Al testo narrativo di Saviano va riconosciuto il merito di aver sollevato in modo clamoroso la polvere dal silenzio dell’indifferenza. E lo ha dimostrato la straordinaria attenzione prestata dai mass media il 19 giugno 2008 alla sentenza d’appello del processo Spartacus, il maxidibattimento sui Casalesi che solo in primo grado produsse una sentenza di oltre 3000 pagine.
Dopo essermi occupato per oltre vent’anni di clan della camorra napoletana, su cui ho pubblicato alcuni saggi a partire dal 1991, mi sembrava quasi una sfida al mio impegno civico e professionale proseguire le mie ricerche sulle organizzazioni criminali campane con i Casalesi. Ed è nato questo libro.

Capitolo I
C’era una volta la terra dei Mazzoni

«C’è stata una provincia soppressa,
che ha dato spettacolo superbo
di composta disciplina: Caserta.
Caserta ha compreso che bisogna
rassegnarsi ad essere un quartiere di Napoli.»
(Benito Musso...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. L'impero
  4. Note
  5. Appendici
  6. Bibliografia e atti consultati
  7. Ringraziamenti
  8. Indice