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La Padania
tra storia e folclore
Noi siamo i discendenti diretti dei celti, non dei romani. I celti
erano un popolo di lavoratori (sapete, fabbricavano gli zufoli con le
mani), invece i romani non lavoravano, erano soltanto un popolo di
guerrieri con un sistema basato sulla schiavitù.
Umberto Bossi
«La Padania esiste e siamo noi.» Affermazione impegnativa, discutibile, prettamente leghista. Se non fosse che a parlare così, nel 2008, a elezioni avvenute e rovinosamente perse, è il sindaco di Bologna, nonché ex comunista di Cremona, Sergio Cofferati.
È un paradosso e l’ex leader della Cgil sorride, ben sapendo di infrangere un tabù. Ma basta sfogliare un preveggente saggio scritto pochi mesi prima della disfatta da Riccardo Illy ed ecco tornare la frase tabù: «La Padania esiste. E poco importa se si tratti o meno di un artificio geografico, se sia un espediente della Lega mirato a costruire un’identità culturale altrimenti inesistente: quella parola ha il potere di evocare una comune appartenenza, di sintetizzare il malessere e, allo stesso tempo, di tracciare un contorno di speranze».
Volendo, nello strano rimpallo politico-onomastico, si potrebbe anche ricordare la primogenitura dell’invenzione della Padania, da attribuire a un presidente di regione comunista, l’emiliano Guido Fanti.
Era il lontano 1975 e, di fronte a una trattativa con il governo romano di Aldo Moro, Fanti lanciava l’idea «della Padania e di una grande Lega del Po, un accordo tra Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto ed Emilia che consenta alle regioni di partecipare al dialogo per il rilancio economico del Paese».
Come entità amministrativa la Padania non esiste, non essendo prevista da nessuna legge. Né tantomeno si può dire che abbia una sua reale omogeneità storica, geografica, per non dire etnica.
Gli stessi leghisti, nel corso degli anni, hanno disegnato i confini in modo così cangiante e volubile da rendere evidente la mancanza di parametri certi per individuare il territorio della mitica terra degli avi.
Ma la Padania comincia a prendere miracolosamente consistenza e sostanza, sotto gli occhi increduli degli scettici.
Il perché lo spiega un sociologo di sinistra, Alessandro Dal Lago: «Il fenomeno della Lega è economico, ma in larga parte è anche legato a un immaginario... La Padania non esiste come realtà culturale. Se prendete uno di Sondrio e uno di Pavia non si capiscono... La Padania si sta reinterpretando come nazione, vedi Bossi e i celti. Questo è esattamente il processo che è alla realtà di qualunque interpretazione di sé come nazione. È un dato di fatto storico. Non è che l’Italia fosse una nazione. Cosa vuol dire nazione? Unità di popolo, lingua, cucina? L’Italia non lo era quando si è costituita. Quando questa leggenda si istituzionalizza, cioè viene creduta da tutti, costituisce una realtà . Io non sto dicendo che la nazione non esiste. Sto dicendo che è fatta esistere nel discorso pubblico e dopo di che poi la gente si regola come se esistesse».
La leggenda che prova a farsi realtà . È quanto cerca di fare, ormai da trent’anni, Umberto Bossi. Inventare un’identità . Creare l’homo padanus. Cementare intorno a radici vere o immaginarie un popolo che non è sicuro di esserlo, e che probabilmente non lo è, ma che può diventarlo, attraverso la coazione a ripetere della leggenda.
Per questo, da grande giocoliere qual è sempre stato, il Senatùr manovra un patrimonio di idee e simboli che cercano di fondare un immaginario.
Lo fa a modo suo, come confesserà a Gianfranco Miglio: «Devo fare un po’ il pagliaccio sul palcoscenico e usare espressioni forti, perché soltanto così riesco a trascinare molti leghisti».
Il Senatùr batte il territorio con comizi che trasformano i cittadini in folla. Elabora in continuazione nuove figure di nemici da combattere. Scandisce con rituali collettivi e sortilegi vari i tempi e i luoghi del movimento. Manovra ampolle di acqua sacra. Dirige sfilate con armature e corazze. Celebra matrimoni pseudo-celtici.
E reinterpreta la storia, materializzando fantasmi di eventi e persone da tutti dimenticati, che servono a forgiare un popolo e a costruire le mura che delimitano un territorio.
Il territorio e i borlotti
Nel 1996 Bossi afferma con sicurezza che la Padania arriva fino alle Marche «perché è lì che si sono fermati i celti». Ma la Padania è mobile, retrattile, dinamica. Si sposta di continuo, sfugge come un’anguilla, non si fa immortalare dalla storia in un fermo immagine statico. Si dilata e si contrae a seconda delle prospettive politiche, delle convenienze, dei punti di vista. Si materializza, a richiesta, e scompare.
Il segretario leghista ne delimita così i confini: «Direi che corrispondono più o meno alla zona in cui esisteva l’area celtica, diciamo da Senigallia a Lucca. Non c’è dubbio che questa identità venetico celtica si spinga fino alla parte alta della Toscana e alle Marche settentrionali».
Il giorno dell’indipendenza le frontiere si allargano e la Padania include la Toscana, le Marche e l’Umbria. Il dossier distribuito quel 17 settembre 1996 prevede tre Stati: Padania con l’Emilia, Etruria Romandia (il centro), Italia (il sud), più Sicilia e Sardegna.
Roberto Calderoli taglierebbe a Pesaro («so che quando la cancrena avanza occorre amputare alto»), Mario Borghezio includerebbe solo la Toscana.
Erminio Boso sarebbe ancora più radicale: «Ho applicato il metodo del fagiolo. Preso un borlotto l’ho messo sulla carta geografica: arrivava fino ai confini dell’Emilia».
Il legume come prova del nove potrebbe essere tecnica apprezzata dal gran gourmet lombardo Gianni Brera. Ma lui – che pure precorse i tempi parlando tra i primi di «Padania» (con accento sulla i) – si limitò a scrivere che «nessun Paese al mondo può vantare la coerenza etnica della Padanìa. Da Torino a Rimini puoi distinguere la gente, al più, dalle barzellette che si raccontano».
Di fronte a tanta confusione, prova a fare un po’ di chiarezza Gilberto Oneto, già «ministro della Cultura nel governo sole», ora in polemica con la Lega.
Esclude le regioni appenniniche e il Vaticano, ma ritiene inconfutabili «le comuni origini di tutta la popolazione formata dai discendenti di liguri, veneti, celti e longobardi, le quattro stirpi che hanno contribuito alla formazione del comune patrimonio genetico dei padani».
Discorso analogo per «le lingue locali (ponte fra etnia e storia): la Padania è caratterizzata dalla presenza prevalente di lingue celto-romanze e in particolare dei loro gruppi gallo-italico (padano), veneto, friulano e ladino-romancio».
Per chiudere la partita, nell’attesa che la Storia si occupi di fare il lavoro sporco, cioè di tracciare arbitrariamente i confini su una carta geografica, si può ricordare quel che scrivevano i «Quaderni padani» nel 1996: «La Padania è regione dell’anima. Mentre infatti la Pianura padana la si trova sugli atlanti, la Padania non è un luogo geografico, non ha una specifica connotazione territoriale e non ha confini, né può essere considerato uno spazio amm...