La vita di Lazarillo de Tormes
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La vita di Lazarillo de Tormes

  1. 325 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La vita di Lazarillo de Tormes

Informazioni su questo libro

Quando apparve nel 1554, il Lazarillo de Tormes ebbe un enorme successo. Il romanzo offriva un'immagine inedita e veritiera della realtà spagnola, segnata da una crisi incipiente di impoverimento e di degrado. Il protagonista - un ragazzo di strada, costretto a vivere di espedienti sotto miserabili padroni - trova sul suo cammino una folla di diseredati, vagabondi, bricconi, mendicanti, avventurieri, per i quali la vita non è che quotidiana, rabbiosa difesa della sopravvivenza. Sullo sfondo, i paesaggi assolati della Spagna cinquecentesca, le strade sassose, i borghi, le chiese, le locande, gli interni oscuri coi loro poveri arredi e gli oggetti consunti. Lazarillo, piccolo Ulisse cencioso e scaltro, precocemente maturato, conosce la fame, il freddo, i maltrattamenti, la meschinità dei padroni, e infine approda a una modesta tranquillità materiale, conquistata a prezzo dell'onore. Scritto in uno stile rapido e colorito, il romanzo si impone come autentica novità, e segna l'avvio di quella letteratura picaresca destinata a costituire uno dei tratti distintivi della letteratura spagnola.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817166508
SECONDA PARTE
DEL
LAZARILLO DE TORMES
TRATTA DALLE ANTICHE CRONACHE
DI TOLEDO DA H. DE LUNA, INTERPRETE DI LINGUA SPAGNOLA
(1620)
AI LETTORI
Il motivo, amico lettore, per cui ho fatto stampare questa parte del Lazarillo de Tormes, è stato il fatto che mi venne tra mano un libriccino che racconta alcune cose della sua vita, ma senza traccia alcuna di verità. La maggior parte di esso è dedicata a raccontare come Lazzaro cadde in mare, dove si convertì in un pesce chiamato tonno, e visse laggiù per molti anni, ammogliandosi con una tonna, dalla quale ebbe tre pesci come figli, uguali in tutto al padre e alla madre86.
Narra anche delle guerre che i tonni facevano, capitanati da Lazzaro, e tante altre scempiaggini non meno ridicole che menzognere, non meno infondate che sciocche. Indubbiamente colui che lo scrisse intese raccontare uno stupido sogno o una stupidaggine sognata.
Questo libro, ripeto, è stato il primo motivo che m’ha spinto a pubblicare questa seconda parte, letteralmente, senza aggiungere né toglier nulla, tal quale la vidi scritta in uno scartafaccio nell’archivio della malavita di Toledo. E il racconto scritto coincideva perfettamente con ciò che avevo sentito narrare le cento volte dalla mia nonna e dalle mie zie durante le serate d’inverno, accanto al fuoco, e con quel che mi snocciolava la balia all’epoca dello svezzamento. Anzi, debbo aggiungere che spesso discutevano tra loro e con altre vicine come fosse potuto accadere che Lazzaro fosse rimasto per tanto tempo dentro l’acqua (come si narra in questa seconda parte), senza restarvi affogato. Chi parlava a favore delle possibilità della faccenda, e chi contro: le une accettavano la testimonianza di Lazzaro stesso, che dice che l’acqua non gli poteva entrar dentro perché era pieno stracolmo di vino fino alla bocca.
Un buon vecchio, esperto nel nuoto, per dimostrare che la cosa era fattibile, mise sulla bilancia il peso della propria autorità, asserendo di aver visto un uomo che, buttatosi a nuoto nel Tago, s’era tuffato ed era rimasto entro certe caverne da quando il sole era tramontato a quando era spuntato di nuovo il giorno appresso, perché solo allora, allo splendore dei suoi raggi, aveva potuto ritrovare la strada; e quando tutti i suoi parenti ed amici erano ormai stanchi di piangerlo e di ricercarne il corpo per dargli onorata sepoltura, era venuto fuori dall’acqua sano e salvo.
L’altra difficoltà che riscontravano nel racconto della sua vita, era il fatto che nessuno si fosse accorto che Lazzaro era un uomo e che chiunque lo vedeva lo scambiasse per un pesce; ma a questa obiezione rispondeva un bravo canonico (che essendo ormai molto vecchio se ne stava tutta la giornata al sole con le filatrici armate di rocca) che la cosa era possibilissima; e si rifaceva all’opinione di molti autori antichi e moderni, tra i quali Plinio, Eliano, Aristotele, Alberto Magno87, che attestano come nel mare esistano certi pesci che vengon chiamati tritoni, se maschi, e nereidi, se femmine, e son designati, nell’insieme, con il nome di «uomini marini», i quali dalla cintola in su hanno figura d’uomini perfetti, e dalla parte di sotto son pesci.
E io dico che, quand’anche questa opinione non fosse sostenuta da tanti autori e così qualificati, basterebbe a giustificare l’ignoranza spagnola l’autorizzazione che i pescatori ottennero dai signori Inquisitori. Perché sarebbe un caso da sottoporre all’Inquisizione, se mettessero in dubbio una cosa che le signorie loro permisero che come tale fosse mostrata pubblicamente.
A questo proposito (per quanto non sia strettamente attinente a ciò di cui sto parlando), racconterò un fattarello che accadde ad un contadino del mio paese; e si fu che, avendolo mandato a chiamare un Inquisitore per chiedergli di mandargli un po’ di certe pere straordinarie delle quali aveva sentito parlare con grandi elogi, non sapendo il povero villano che cosa volesse da lui sua signoria, s’afflisse tanto della cosa da essere costretto a mettersi a letto ammalatissimo, fino a che non ebbe saputo per tramite d’un suo amico che cosa si desiderava da lui. Si levò su dal letto, corse in giardino, sradicò addirittura l’albero di pero e lo mandò all’Inquisitore con tutta la frutta appesa, dicendo che non voleva tenersi in casa una cosa per la quale avrebbe potuto mandarlo a chiamare un’altra volta. Tanta è la paura che hanno, non soltanto i contadini e la gente di basso ceto, ma persino i signori e i grandi; tutti tremano quando odono i nomi di Inquisitore e Inquisizione, più che le foglie dell’albero al blando zeffiro.
Di questo ho voluto avvertire il lettore affinché possa rispondere se siffatte questioni avvenissero in sua presenza; e così pure l’avverto che deve considerarmi cronista e non autore di quest’opera, con la quale potrà passare un po’ di tempo. E se gli piacerà, aspetti che esca la terza parte88, con la morte e il testamento di Lazzarino, che è la più bella di tutte. Altrimenti, accetti almeno il buon volere di chi scrive.
Vale.
CAPITOLO PRIMO
IN CUI LAZZARO RACCONTA
LA SUA PARTENZA DA TOLEDO
PER ANDARE ALLA GUERRA DI ALGERI
Chi ha il bene e non se ne serve, non c’è confessore che l’assolve. Dico questo a ragion veduta, perché non potei né seppi mantenermi nella buona e piacevole vita che la sorte m’aveva offerto; si vede che il continuo mutare era in me quasi un accidente inseparabile che m’accompagnava tanto nella vita gradevole e agiata, quanto in quella trista e piena di guai.
Mentre dunque mi stavo godendo il miglior periodo che mai patriarca abbia goduto, mangiando come un frate invitato a nozze e bevendo più di un imbonitore; vestito meglio che un padre teatino e con un par di dozzine di reali in saccoccia, meglio garantiti che quelli d’una rivendugliola di Madrid; con la casa piena d’ogni ben di Dio come un alveare, con una figliuola venuta proprio a proposito, e con un mestiere che m’avrebbe potuto invidiare perfino lo scacciacani della chiesa di Toledo, si sparse la notizia della spedizione dell’armata ad Algeri. E fu un rumore che mi mise a disagio e fece sì che da buon figliuolo decidessi di seguire l’esempio e le orme del mio bravo babbo Tommaso Gonzáles (che Dio l’abbia in gloria), con il desiderio di lasciare ai secoli venturi un esempio e un modello, non di servir di guida a un astuto cieco o di rosicare il pane d’un avaro prete o di servire uno scudiero miserabile o, infine, d’andare in giro gridando a gran voce le altrui colpe; ma esempio e modello di render la vista ai mori acciecati dal loro errore, d’aprire e sfondare i temerari vascelli corsari, di servire il mio valoroso capitano dell’ordine di San Giovanni, presso il quale m’ero allogato come dispensiere, con il patto che tutto quel che avrei guadagnato sarebbe stato per me (e in verità così fu). Volli infine lasciar dopo di me l’esempio di gridare e incoraggiare, invocando a gran voce: «Santiago, e forza, Spagna!89».
Presi congedo dall’amata consorte e dalla cara figlioletta: questa mi pregò di portarle un moretto, e quella mi raccomandò di ricordarmi di spedire con il primo messaggero che mi capitasse una schiava che potesse servirla e un bel po’ di zecchini90 barbareschi che l’avrebbero aiutata a consolarsi della mia assenza. Chiesi licenza all’arciprete mio signore, al quale raccomandai vivamente di aver cura di mia moglie e di mia figlia e di vegliar su di loro, ricevendone la promessa che le avrebbe trattate come fossero cosa sua.
Partii dunque da Toledo, allegro, baldanzoso e soddisfatto come soglion fare tutti quelli che partono per la guerra, pieno di belle speranze, e in compagnia d’un gran numero d’amici e vicini che facevano lo stesso mio viaggio, spinti dalla speranza di migliorare la propria sorte. Arrivammo a Murcia91 con l’intenzione di recarci a Cartagena per imbarcarci; e là m’accadde un fatto che proprio non avrei voluto, perché mi fece comprendere che la fortuna la quale m’aveva collocato nel punto più alto della sua volubile ruota, sollevandomi fino al vertice della terrena felicità, cominciava con il suo corso veloce a precipitarmi nel più infimo stato. E il caso fu questo: che, arrivando all’alloggiamento, vidi un semiuomo che appariva piuttosto come una specie di caprone per le filacce e i brandelli che gli pendevano dal vestito; portava un cappellaccio ficcato in testa fino agli occhi, tanto che non si riusciva a vedergli la faccia; teneva una mano sulla guancia e una gamba buttata negligentemente sulla spada che portava ficcata in una mezza guaina di stracci; il cappello era «alla furfantesca», senza fondo alla cupola, in modo che potessero svaporare agevolmente i fumi; il giubboncello era «alla francese»92, talmente traforato di strappi che non c’era posto da legarci dentro un mezzo soldo di semi di sesamo; la camicia era di carne, e la si vedeva benissimo attraverso la gelosia delle vesti; i calzoni erano un press’a poco; le calze, una rossa e una verde, non gli arrivavano neanche alla caviglia; le scarpe erano alla moda degli scalzi, fruste e scalcagnate.
Da una penna che portava cucita al cappello, immaginai che fosse soldato; e con questa idea gli domandai di che paese fosse, e dove fosse diretto. Alzò gli occhi per vedere chi fosse colui che l’interrogava, e subito mi riconobbe, ed io riconobbi lui: era lo scudiero che avevo servito tanti anni prima a Toledo, e restai stupefatto nel vederlo ridotto a quel modo. Vedendo la mia meraviglia, mi disse:
– Non mi stupirei, amico Lazzaro, della tua meraviglia nel vedermi come mi vedi; ma ben presto cesserai di guardarmi ad occhi sbarrati, se ti racconto quel che m’è intervenuto dal giorno che ti lasciai a Toledo fino ad oggi. Mentre tornavo a casa con il mio doblone cambiato in ispiccioli per pagare i creditori, m’imbattei in una donna tutta avvolta nello scialle che, tirandomi per un lembo del ferraiolo, con lagrime e sospiri misti a singhiozzi, mi supplicò ardentemente di soccorrerla in una necessità in cui si trovava. La pregai di dirmi le sue pene, giacché avrebbe impiegato più tempo lei a dirmele che io a mettervi rimedio. E lei, senza smetter di piangere, con una pudicizia addirittura virginale, mi disse che la grazia che dovevo farle e che da parte sua mi scongiurava di fare, si era d’accompagnarla fino a Madrid, dove le avevano detto che si trovava un certo signore che non s’era accontentato di disonorarla, ma che per giunta s’era portato via tutti i suoi gioielli, senza avere alcun riguardo per la promessa di matrimonio che le aveva fatto; e che, se io avessi fatto questo per lei, dal canto suo avrebbe fatto quanto era stretto dovere d’una donna riconoscente. La consolai come mi riuscì meglio, lasciandole sperare che, se il suo nemico viveva in questo mondo, poteva fin da quel momento considerarsi vendicata. In conclusione, senza nemmeno voltarci indietro, partimmo per la capitale, ed io le pagai tutte le spese fin là. La signora, che sapeva benissimo dove andava, mi condusse ad un quartiere di soldati, dove fu accolta con grandi dimostrazioni di gioia e venne condotta in presenza del capitano, affinché la inscrivesse nel ruolino delle “infermiere”. Poi, ritornando da me con una faccia di svergognata, mi disse: “Addio, sor babbione, la sottoscritta non vi serve più”. Nel vedermi beffato a quel modo, cominciai a sentirmi la schiuma alla bocca e le dissi che se, invece d’essere donna, fosse stata un uomo, le avrei cavato l’anima dal corpo. Un soldatino che era lì presente mi s’accostò e mi diede la baia, non osando appiopparmi un ceffone; ché, se me l’avesse dato, potevan mettersi a scavargli la fossa. Come vidi che la faccenda si metteva male, senza dire né ai né bai, me la filai più che di passo per vedere se mi ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Introduzione
  5. Bibliografia
  6. La vita di Lazarillo de Tormes e delle sue fortune e avversità (1554)
  7. Seconda parte del Lazarillo de Tormes e delle sue fortune e avversità (1555)
  8. Seconda parte del Lazarillo de Tormes, tratta dalle antiche cronache di Toledo da H. de Luna, interprete di lingua spagnola (1620)
  9. Sommario