Un italiano in America
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Un italiano in America

  1. 221 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Un italiano in America

Informazioni su questo libro

È vero che gli americani impazziscono per il ghiaccio, pretendono le mance facoltative, praticano la religione dello sconto e il culto delle poltrone reclinabili? Beppe Severgnini ci porta in viaggio negli Usa tra domande (perché non abbassano l'aria condizionata?) e risposte (perché gli piace così), descrivendo le molte sorprese della vita quotidiana, perché l'America vera si scopre solo attraverso i dettagli: le scaramucce con un idraulico di nome Marx; la terribile potenza dei telefoni e dei bambini, veri padroni del paese; le fallimentari escursioni nello shopping elettronico e le battaglie per (non) ottenere una carta di credito. Ironico, intelligente e divertente, Un italiano in America "è frutto di una lunga inesperienza", perché, ammettiamolo, crediamo di sapere tutto ma in realtà siamo impreparati. Allora pronti a cominciare?

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817035798
eBook ISBN
9788858610619
Un italiano in America
Per Antonio

INTRODUZIONE

Mi sembrava che solo in un posto simile, tranquillo,
un poco antiquato, si potesse sorprendere l’America indifesa,
scoprire ciò che gli americani fossero in realtà.
Luigi Barzini, O America!
Gli Italiani che vengono in America, ci vengono con una testa italiana.
Giuseppe Prezzolini, America in pantofole
Questo libro è il frutto di una lunga inesperienza. E il racconto di un anno trascorso negli Stati Uniti, un Paese nel quale, mi sono reso conto, si arriva assolutamente impreparati. Quello che avevo imparato in molti viaggi precedenti non è servito a niente, e il bombardamento di «notizie americane» sull’Europa funziona come un riflettore puntato negli occhi: la luce è molta, ma si vede poco. L’America normale – quella che s’incontra uscendo dagli aeroporti, a meno d’essere particolarmente sfortunati – è uno dei segreti meglio custoditi del mondo.
Le cose importanti di questo Paese le ho capite – se le ho capite – restando fermo. C’è, ho scoperto, un’America che impazzisce per il ghiaccio, che pretende le mance facoltative, che pratica la religione dell’aria condizionata e il culto delle poltrone reclinabili (le micidiali easy-chairs). Un’America di rumori insoliti, sapori forti e odori inesistenti. Quest’America quotidiana, a mio giudizio, rimane fondamentale. Pochi, tuttavia, hanno provato a spiegare come funziona.
Al lettore, propongo di scoprirlo insieme. Ho trascorso dodici mesi, da primavera a primavera, in una casetta di Georgetown, un vecchio quartiere dove Washington diventa una città normale. Un luogo adatto per porsi le prime domande (perché non abbassano l’aria condizionata?), e ottenere le prime risposte (perché gli piace così). Il campo di battaglia ideale per le scaramucce con un idraulico di nome Marx, le imboscate di un postino laconico e l’assedio di vicini fin troppo affettuosi.
Come i lettori forse ricordano, nei libri precedenti ho pedinato gli italiani in viaggio, ho spiato i popoli dell’Est, ho studiato gli inglesi. Ebbene, passare dall’Inghilterra, dove «caldo» vuol dire «tiepido», all’America, dove «caldo» vuol dire «bollente», non è stato facile. Altrettanto traumatico è stato l’incontro con il locale senso dell’umorismo. Negli Stati Uniti, l’understatement non esiste. Dire «non sono molto bravo» – I’m not very good, che in Gran Bretagna vuol dire «sono bravissimo» – significa veramente ammettere di non essere molto bravi. Se gli americani sono bravi a fare qualcosa (lavoro, sport, sesso), lo dicono.
La maggior parte delle sorprese, tuttavia, si è rivelata piacevole. Ho scoperto, ad esempio, che da queste parti comandano i bambini, e la morte è considerata un optional. Ho sperimentato lo «shopping con il computer», mi sono perduto nei parcheggi, ho lottato per (non) avere una carta di credito, ho celebrato il 4 di luglio, ho inseguito un opossum tra i fiori del giardino, ho discusso di politica con un vicino di nome Greg. Ho capito la passione per il neon – il calmante delle ansietà americane – e ho indagato l’amore per il gadget, che non va deriso. Questo Paese, inseguendo tutto ciò che è Piccolo & Portatile, ha fatto molta strada.
Rileggendo il libro, mi sono reso conto che la mia visione dell’America si è fatta via via più chiara, e lo sbalordimento dei primi mesi ha lasciato il posto ad alcune conclusioni (giuste o sbagliate, starà a voi dirlo). Ho deciso di mantenere questo senso di «scoperta progressiva», perché credo corrisponda all’atteggiamento di molti italiani di fronte a questo Paese. Certo: esistono connazionali che arrivano negli Stati Uniti convinti di sapere tutto, ma sono una minoranza (la stessa che sa tutto di politica, di calcio e di vino). Per la maggior parte, gli italiani sono contenti di guardare, imparare e commentare (appena trovano qualcuno che li sta a sentire).
Di una cosa vorrei convincerli: la scoperta dell’America – che resta una faccenda complicata, come fu quella originale – non dipende dalle miglia percorse in automobile, o dal numero degli Stati visitati. L’America si scopre attraverso i dettagli. Per trovarli, occorre avere la curiosità del nuovo arrivato e la pazienza di un beachcomber, uno di quei matti che passano al setaccio le spiagge alla ricerca di piccoli oggetti preziosi. La spiaggia è l’America. Il matto sono io. Auguratemi buona fortuna, e andiamo a incominciare.
Washington, aprile 1995

APRILE

aprile
La casa è di legno bianco, e guarda verso occidente. Ha una porta verniciata di nero, un ventaglio scolpito sopra la porta, e tre finestre con le imposte inchiodate contro la facciata, nel caso qualche europeo pudico pensasse, la sera, di chiuderle.
Sul retro, invisibile dalla strada, c’è un giardino con un’aiuola ricoperta dall’edera. In mezzo all’edera, come una sirena tra le onde, sta un putto di cemento. I proprietari forse speravano che gli inverni di Washington lo rendessero antico. Se è così, dovranno attendere ancora. Il putto di cemento, per adesso, sembra un putto di cemento, e continua a versare acqua immaginaria dalla sua brocca di cemento, fissando con aperta ostilità il mondo che lo circonda: scoiattoli, merli, l’occasionale ospite italiano.
La casa è sulla 34esima strada, senso unico in discesa, nel quartiere di Georgetown. È una strada curiosa. Si riempie solo dalle quattro alle sei del pomeriggio, quando gli impiegati di Washington scendono verso M Street, imboccano il Key Bridge sul fiume Potomac e tornano a casa, nei sobborghi immacolati della Virginia del Nord. Nelle altre ventidue ore, e nei fine settimana, la 34esima è una via tranquilla di case colorate, dove la gente si chiama per nome, fingendo che Georgetown sia ancora il villaggio che era ai tempi dell’Unione, quando viveva del commercio del tabacco.
Oltre a un certo numero di avvocati, che in America sono praticamente inevitabili, nel nostro tratto di 34esima, tra Volta Place e P Street, abitano uno specialista in allergie; un’impiegata alla Banca Mondiale; la figlia di un ex funzionario della Cia; un senatore del Montana; e cinque educatissimi studenti del New England, che ho invitato inutilmente a comportarsi come John Belushi nel film Animal House. Dave, il loro portavoce, mi ha fatto capire che non è dignitoso, per un giovane americano, assecondare gli stranieri nelle loro fantasie.
Georgetown, ufficialmente, si chiama West Washington, un nome che non usa nessuno. Copre un miglio quadrato, e ha conosciuto alterne fortune. Quando alla Casa Bianca tira aria democratica (Kennedy, Carter, Clinton), le sue quotazioni salgono; quando arrivano i repubblicani (Nixon, Reagan, Bush) scendono; i conservatori, alla bohème del centro, preferiscono infatti la quiete dei sobborghi. Nella parte occidentale del quartiere, verso il fiume Potomac, c’è l’università, fondata alla fine del Settecento dai gesuiti. Nella parte orientale, oltre le luci di Wisconsin Avenue, si trovano le case più grandi e più antiche. Al centro stanno quelle che un tempo erano le abitazioni degli artigiani e dei commercianti. Noi stiamo al centro.
Queste case – piccole, scure, con le scale ripide – sono quanto di meno americano si possa immaginare. Un farmer dell’Oklahoma vi alloggerebbe, forse, le galline. I proprietari di Washington fanno lo stesso: soltanto che i polli, questa volta, vengono da oltreoceano. Questo tipo di abitazioni, a noi europei, piace immensamente. In una villa dei sobborghi ci sembrerebbe di essere in America; le stanze piccole e i pavimenti di legno tarlato di Georgetown riducono il trauma del trasferimento. Per avere queste scomodità, siamo disposti a pagare un sovrapprezzo. Le agenzie immobiliari lo sanno, e ne approfittano.
***
Cercare, tra molte case scomode, quella adatta a noi, non è stato facile. Sapendo di restare negli Stati Uniti soltanto per un anno, abbiamo pensato, da principio, a una casa ammobiliata (furnished). A Washington ce ne sono. Il problema è il mobilio. Durante una settimana di ricerche – insieme a tale Ellen, che ci ripeteva di stare tranquilli, rendendoci nervosi – abbiamo visitato alcuni luoghi bizzarri. Tra questi: un seminterrato arredato come un castello in Baviera (trofei di caccia compresi); una casa di P Street su sei piani, una stanza per piano; un arredamento viola, compresi i bagni e la cucina; una casa a Glover Park dove, per girare un film dell’orrore, mancavano solo le vittime; presumibilmente, noi.
Siamo passati perciò alle case non ammobiliate (unfur-nished), che negli Stati Uniti sono la norma. Gli americani, infatti, si trasferiscono da un indirizzo all’altro con l’arredamento, come tartarughe; quello che cresce, lo vendono, lo buttano, o lo mettono in storage (deposito). La nostra ricerca avviene sui piccoli annunci del «Washington Post». Il quartier generale delle operazioni è la cucina di amici inglesi, che ci aiutano a decifrare le offerte più interessanti. Cosa significa, ad esempio
NE-3br, 1 1/2 ba semi-det, w/w cpt, eat-in kit, Sect 8 welcome?
Chi sono gli «adepti della setta numero 8»? Perché il proprietario di
GEO’TN 3br, 2 1/2 ba, spac, renv TH, Pkg, WD, Lg-trm lse
non ha speso due dollari in più, e si è comprato qualche vocale (Lg-trm lse = long term lease)? E cosa dire di
GEO’TWN Classic 3br TH, fpl, gdn, plus guest or au-pair?
Forse il proprietario intende affittarci anche un ospite (guest) o una ragazza alla pari? E classic? Questo è il Paese dove Classic è il nome della Coca-Cola. Quindi, alla larga.
Alla fine, quando gli amici inglesi cominciavano a preoccuparsi, abbiamo scovato
GEO’TWN Grace and charm. 3br, 3½ ba, immac, lib, cac, lg grdn. Ph Ms Webb.
L’informazione chiave, in questo caso, non è «3br» (tre camerette monastiche), e neppure «3½ ba» (tre bagni e mezzo, che insieme non arrivano alle dimensioni di un bagno condominiale italiano). Non è nemmeno «immacolata» e «cac» («aria condizionata centralizzata»). Le parole chiave sono grace and charm, due vocaboli che, per gli europei, sono irresistibili, come i vermi per i pesci.
Di «grazia e fascino», tuttavia, questa casetta ne possiede davvero. L’agente, signora Webb, non aveva mentito. E, se anche avesse mentito, meglio non dirglielo. Sposata con uno storico, Patty Webb è magra, scattante, dolcemente autoritaria. Sotto un caschetto di capelli grigi, ha un volto piccolo, e due occhi attenti. Veste in blue-jeans, e possiede in assoluto il più efficace bye-bye che io conosca. Dopo un bye-bye di Patty Webb, non c’è altro da aggiungere.
Il fatto d’esser spiccia, non le impedisce d’essere premurosa. Oltre a tifare per noi nel corso delle trattative con il padrone di casa, Patty Webb intende assicurarsi che abbiamo il necessario per sopravvivere. La sera del nostro arrivo si presenta con una pentola, due piatti, due forchette e due bicchieri che, insieme con la lampada da tavolo poggiata sul pavimento, danno alla casa un piacevole aspetto bosniaco. Se avessimo il telefono, potremmo ordinare una pizza da Domino’s, sederci nella stanza vuota e brindare. Nei film americani, di solito, le coppie fanno così. Non avendo il telefono, usciamo in cerca di un hamburger. Chiudiamo a chiave la porta, e ci dirigiamo a passo di carica nella direzione sbagliata.
***
Per gli italiani che arrivano negli Stati Uniti, la soddisfazione non è vedere un film sei mesi prima che arrivi in Italia, scegliere tra cinquanta marche di corn-flakes e leggere due chili di giornale la domenica mattina. Ciò che ci rende felici è combattere con la burocrazia americana. Il motivo? Allenati a trattare con quella italiana, ci sentiamo come un torero che deve affrontare una mucca. Una faccenda deliziosamente rilassante.
L’esperienza purtroppo dura poco, e ci lascia insoddisfatti. Dopo aver risolto i nostri problemi, vorremmo ancora qualche telefonata da fare, qualche garbuglio da dipanare, qualche impiegato da convincere. Ma non c’è niente da fare. Gli americani non vedono significati esistenziali nella pratica d’allacciamento del telefono (la lotta, le suppliche, l’attesa, la vittoria). Appena l’apparecchio emette il primo segnale di linea libera, ci abbandonano alla nostra vita.
Quella che segue è la cronaca di una mattinata, breve ma entusiasmante, trascorsa alle prese con la burocrazia di Washington. Posto di combattimento, un telefono piazzato dentro Sugar’s, una cafeteria coreana all’incrocio tra P Street e la 35esima strada. Armi e munizioni: cinque monete da venticinque centesimi (quarters); carta; penna; passaporto; mappa della città; buona conoscenza della lingua inglese; discreto ottimismo.
La prima mossa, in un Paese dove tutto si deve poter fare per telefono, è avere il telefono. È sufficiente chiamare la C&P (la Sip-Telecom locale, privata e perciò efficiente) e chiedere l’assegnazione di un numero. L’impiegata pone alcune domande, alle quali qualsiasi allievo di un corso Shenker è in grado di rispondere: nome, cognome, età, indirizzo. Al termine della conversazione, la medesima impiegata ordina: «Prenda la penna e scriva: questo è il suo numero di telefono. Verrà allacciato tra ventiquattro ore». Tempo totale per la pratica: dieci minuti. Costo: venticinque centesimi.
A questo punto è necessario collegare il nuovo telefono a un long distance carrier, una società di telecomunicazioni che fornirà i collegamenti interurbani e internazionali. La concorrenza tra AT&T, Mci e Sprint è spietata. Ognuna offre condizioni particolari: sconti sul numero chiamato più spesso, su un Paese straniero a scelta, su alcuni orari del giorno, su alcuni giorni della settimana. Tempo necessario per la scelta: quindici minuti. Costo: zero. Ogni società offre infatti un numero verde (negli Stati Uniti iniziano con 1-800).
Seguono: allacciamento alla televisione via cavo (telefonata a Cablevision, che indica l’orario esatto in cui gli operai si presenteranno il mattino successivo) e assicurazione del contenuto della casa contro furto e incendio (dieci minuti, nessuna formalità). Per la richiesta del numero di social security (previdenza sociale), che negli Stati Uniti sostituisce di fatto il documento d’identità, il telefono non basta. Occorre recarsi presso l’apposito ufficio, dove un’impiegata pone le domande e batte le risposte direttamente nel computer (coda: inesistente; moduli: nessuno; tempo dell’intervista: cinque minuti).
Per il permesso provvisorio di parcheggio, visita pr...

Indice dei contenuti

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