Da bosco e da riviera
eBook - ePub

Da bosco e da riviera

  1. 350 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Da bosco e da riviera

Informazioni su questo libro

In un paese del levante ligure la vita scorre tranquilla, quasi estranea alle leggi del tempo che passa alto sopra la traversa come un rigore sbagliato. C'è una chiesa, per chi ci crede, e c'è la sede della Scorza e Formaggio in cui trovarsi a bere con il siò Luigi e giocare a carte con il Professore e il Carnesecca. Nel nulla che accade, qualcosa però sta per succedere. Pochi se ne accorgono, qualcuno ne parla, nessuno sa cosa fare. In un paese del ponente ligure c'è un cantiere familiare che da secoli costruisce barche, e c'è anche Pietro, un giovane che vede un futuro diverso da quello che il destino ha riservato da sempre alla sua famiglia. Un giovane che non si accontenta e vuole mettersi alla prova. In una città affacciata sul mare, Maddalena, "due gambe che finivano in Norvegia e un culo che era una bottiglia di sciacchetrà", vuole dimenticare a tutti i costi la miseria patita da ragazza di condominio popolare. Non sa dove andare, sa solo che vuole andarsene da lì, ed è disposta a tutto pur di riuscirci, pur di far perdere le sue tracce. In un paese che parla con voce corale, al limitare del mondo, due inquietudini si incrociano, due storie si fondono per raccontare una grande avventura di mare e vita, di fughe e ritorni. Un cantiere navale diventa il palcoscenico inatteso di tre anime con un'unica certezza: quella di non essere come tutti gli altri. Ma solo gente nata e cresciuta su una sottile striscia di terra. Tra bosco e riviera.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2011
Print ISBN
9788817032292
eBook ISBN
9788858607183

1

Cioè, ancora oggi, quelli laggiù siamo noi.
Insomma, per capirci, quelli del paesino in fondo alla baia…

È che poi noi non siamo come gli altri della città in cima al golfo, o come quelli sulla costa di levante e ancora di meno come la gente della colonia genovese sul promontorio, per non parlare infine delle isole qui di fronte, che fanno un mondo davvero a parte.
Qua tutto è diverso: è come se, a quest’angolo e a noi, non ci avesse pensato il Dio di tutti quanti ma un padreterno a scarto ridotto dopo una serata all’osteria.
Una definitiva conferma dal cielo ci era arrivata durante la prima edizione del Natale Subacqueo, organizzato da don Elmo e dalla nostra società di mutuo soccorso.
Tutto era andato abbastanza bene fino al momento in cui Gianni l’Incursore era entrato in chiesa con la muta gocciolante e le pinne.
Aveva faticosamente arrancato dalla spiaggia al sagrato fino all’altare per deporre il bambinello, simbolicamente emerso dalle acque, nelle braccia della madre, tra il giubilo dei fedeli.
Ma, proprio davanti al santissimo, vedemmo le sue spalle enormi da ex sommozzatore della marina sussultare freneticamente, chine sul cestone pieno di cozze che, aspettando la mezzanotte, aveva raccolto in mare per ammazzare il tempo.
E nemmeno gli stonati Venite adoremus del coro, riuscirono a coprire i suoi «Ma dove cazzo si è infilato» mentre ravanava nella cesta, sconchigliando a destra e a manca, nell’impossibile tentativo di ritrovare il bambin Gesù che, quell’anno, aveva deciso di far Natale con chi vuoi sul vecchio canotto dove Gianni lo aveva dimenticato con i datteri raccolti di frodo che, lo sapevano tutti, rivendeva a quelli della marina.
Tutti noi allora, il siò Luigi detto il Migliore, il Carnesecca detto il Saggio, il Professore detto il Tuttologo, il Mesciùa, il Trenetta e tanti altri del paese, scoppiammo a ridere e quel povero cristo di don Elmo alla fine aveva tirato via la funzione a denti stretti, spedendoci a casa con un «la messa è finita e andatevene un po’ a quel paese».
Noi avevamo continuato a sghignazzare dal sagrato fino alle rispettive case a dispetto delle gomitate delle consorti, che ci faceva male la bocca tanto non riuscivamo più a fermarci.
E non era per prenderci gioco di don Elmo, povero diavolo, ce la metteva davvero tutta per cercare di darci una raddrizzata e accompagnarci sulla collina in pari con la coscienza, ma perché solo un’altra volta, come ebbe a dire il siò Luigi, memoria storica del gruppo, ci era capitato di ridere così tanto, ed era stato per via della barcona dell’americano, quando…
Ma forse stiamo correndo troppo.

Noi non siamo gente capace di andare molto veloce: ci piace smarrirci in dettagli, accompagnati dalle lampadine fresche e dalle acciughe alla battitacco, senza assilli, e non ce ne frega proprio niente di perdere tempo.
Perché anche quello è diverso da noi: trascorre in un altro modo, con distacco, ed è veramente galantuomo il tempo, qui. Come i vecchi signori di una volta, non si arrabbia se qualcuno protesta le sue cambiali e quando uno ha in scadenza la propria, capita che lui se ne dimentichi e lo lasci in pace sotto al bersò dell’osteria, salutandolo con una pacca sulla spalla, come per dirgli «fa niente, ci vediamo il prossimo mese, intanto non muore nessuno».
Dunque, dicevamo, riprendendo il discorso dove lo abbiamo lasciato, qui da noi è tutto diverso e lo è a cominciare dal mare: quello vero resta fuori dalla piccola insenatura guardata dalla vecchia fortezza, subito dopo la chiesa, mentre la roba liquida che entra fino al molo è una specie di laguna puzzolente di cozze, crema solare e gasolio.
Anche le case sono diverse e si sviluppano in alto, con stanze così piccole che la Maria si vantava di poter mescolare il sugo stando seduta sul cesso, e le scale sono come non se ne sono viste mai: ripide e strette tanto che due di noi in lite tra loro, non si parlavano da trent’anni per una vecchia storia di puttane e abitavano nello stesso casamento, incrociandosi per le scale dovevano fare lo struscio sulla pancia perché uno non voleva dare il passo all’altro.
Però si dicevano buongiorno a denti stretti, perché noi avremo anche mille difetti, ma siamo persone educate e quando incontriamo qualcuno, amico o foresto, lo salutiamo sempre.
Sarà anche perché la strada passa alta e che facce nuove da salutare qui se ne vedono poche, dal momento che se uno proprio non sa che siamo qui e non prende il bivio non ci scopre, ma forse è meglio così.
Però, se per caso qualcuno di voi arriva fino in fondo al paese e si ferma pure, dopo aver costeggiato i recinti arrugginiti del vecchio cantiere navale e fatto due passi sul molo, può anche capitare che si azzardi alla Scorza e Formaggio per prendere qualcosa di fresco, e allora è possibile che lì incontri noi.
È bene precisare una cosa: la nostra vecchia società di mutuo soccorso, orgoglio del paese e fonte di ristoro nella macaia estiva, non si chiamava così ma aveva un altro nome che gli era stato dato dal nonno del Mesciùa.
Una volta che era sconsideratamente sobrio il Mesciùa ce lo aveva raccontato, anche se la storia la sapevamo perché era scritta nella lapide sul muro sotto al bersò, proprio dietro la sua testa, e potevamo leggerla mentre parlava, ma eravamo stati a sentirlo per educazione e poi non avevamo altro da fare: Forza e Coraggio era stata chiamata dai nostri vecchi all’atto della fondazione, nei primi anni del secolo.
Ma poi, per via della politica, ne ha avuto un altro: sembrava un nome troppo vicino a Forza Italia e una mattina il Professore, di ascendenze anarchiche, con un exploit che tanto ricordava le sue cartucce al tritolo per pescare di frodo, l’aveva ribattezzata Scorza e Formaggio e tutti eravamo stati d’accordo anche perché era un modo come un altro per berci sopra una lampadina con due acciughe alla battitacco.
La politica, a dire il vero, qui interessa poco ed è anche questo che ci rende differenti.
Certo, anche da noi c’è chi tifa per un partito o per l’altro, ma poi non ci interessa più di tanto perché abbiamo visto facce delle diverse fazioni scannarsi in tv per poi sedersi insieme ridendo allo stesso ristorante dove una pastasciutta costava come tre mesi di pensione, e da allora siamo sempre stati d’accordo sul fatto che non valeva la pena incazzarsi per quella gente.
E quando ci fu un comizio, a uno degli oratori venuti da fuori che si infervorava nell’urlare ai quattro venti che lui era l’uomo del destino ed era capace di far qualsiasi cosa per noi, qualsiasi cosa, diceva… il siò Luigi si fece avanti e gli chiese a bruciapelo se anche lui riusciva a dire bazar con il culo come Pinin delle Case Rosse e lo spettacolo finì lì perché come il tizio provava a ricominciare la filippica veniva fucilato a colpi di bazar o peggio.
Questo per dire delle diversità, di noi, della Forza e Coraggio e della politica.
Tornando alla gente che capitava lì, se per caso qualcuno da fuori imboccava il bivio, scendeva in paese e si fermava per un’oretta, poteva incontrare uno di noi, fermarsi a bere qualcosa e magari sentire qualche storia.
Raccontare storie è una delle nostre grandi passioni, insieme alla pesca, alla cirulla e al lavoro in cantiere.
E di storie, qui da noi, in passato ce ne sono state tante e tutte belle da ascoltare ma, a onor del vero — per il quale abbiamo sempre grande rispetto, e se sbagliamo è perché le acciughe erano troppo salate, ci hanno messo sete e le lampadine hanno fatto il resto —, nessuna era stata così importante per noi come quella volta là.
Dunque l’unica storia che ancora oggi ci fa parlare, poi magari domani ce ne succede una migliore perché la vita è così, è quella cui dicevamo prima, cioè del barcone dell’americano: una storia che non sarebbe stata così importante se non ci fosse stato di mezzo lui, l’uomo che ci ha ridato il sorriso, e la prima cosa degna di nota è che non era venuto dalla strada, ma dal mare.

Non che non approdi nessuno qui da noi, ma di solito sono cumenda sulle loro barche con scritti a poppa i nomi dei figli sotto alle bandiere ombra: arrivano, scendono a farsi pelare in qualche ristorante, e poi cercano di andarsene solo per scoprire che l’ancora si è impigliata.
Allora, dopo un mezzo infarto e una lite col marinaio che non li sopporta più, chiedono aiuto a noi della banchina che li guardiamo come si possono guardare solo gli scemi.
A quel punto, immancabilmente, arriva Gianni l’Incursore, che con quel secondo lavoro ci si è comprato un appartamento: si butta, sgroppa l’ancora e si becca la mazzetta.
La storia che vogliamo raccontarvi però non inizia così, anche se lui, l’uomo che era venuto dal mare, come cantava uno pelato a Sanremo anni fa, arrivò in vela e senza motore e, se guardate lì come è la nostra baia, vi rendete subito conto di cosa vuole dire. L’uomo che era venuto dal mare gettò l’ancora al buio nell’unico metro quadrato dove Gianni non aveva messo le sue trappole di cavo per incastrare le ancore dei “coglioni della domenica”, come se questo già fosse stato un segno del destino, e scese a terra il mattino dopo.
Nessuno di noi ricorda esattamente il suo aspetto: le donne dicono fosse bellissimo, chi se lo ricorda alto e magro, chi basso e con la pancia, chi calvo, chi con la coda di cavallo, insomma di tutto di più…
E poi anche di lei bisogna parlare, la segretaria del cantiere, perché la storia riguarda soprattutto quello che successe tra loro due, altrimenti non sarebbe completa.
Lei era splendida: aveva due gambe che finivano in Norvegia e un culo che era una bottiglia di sciacchetrà, e quando in minigonna scosciava per scendere dalla macchina, ti lasciava a bocca aperta e con l’occhio da polpo per delle ore, sicché bastava vedere uno di noi in quello stato pietoso per capire se era già passata la tizia che lavorava in cantiere.
Bella e impettita, sembrava suo nonno Dorino quando portava il cristo grande alla processione dell’otto settembre.
Suo nonno Dorino era veramente una bestia d’uomo, un demolitore del paese vicino, ed era l’unico in zona a riuscire a reggere i due quintali della croce per tutta la funzione: come lei, lui tirava dritto, senza guardare in faccia nessuno, tutto preso dalla sua responsabilità, e ogni tanto bisognava dargli un urlaccio perché si fermasse, come quella volta che il Filipòn gli urlò sopra alla banda dove cazzo stava portando quel cristo che la madonna era ancora indietro a bagasce.
Ecco, quella è una grande storia e ancora oggi, quando ce la riraccontiamo, non riusciamo a tenerci dal ridere come quando era successo tutto l’ambaradàn, anche se ora il tempo ha fatto il suo e in giro non se ne sente dire granché. All’epoca però ne avevano parlato i telegiornali, e quelli nazionali ed esteri, mica la tv locale dei venditori di pentole.
Se volete, se le lampadine e le acciughe bastano, se la Giarona — l’ostessa — non ci manda in culo, la vorremmo raccontare anche a voi, perché per noi è un modo per far passare il tempo alla nostra maniera, così come siamo abituati da sempre a farlo passare qui, nel paesino. Quello della baia, col suo vecchio cantiere navale, affacciato sul golfo, sul mare e sul resto del mondo che resta distante, sempre. E che può pure rimanere dov’è perché, come al resto del mondo non frega nulla delle nostre storie, noi non sappiamo neanche se questo resto del mondo esista ancora e come faccia a tirare avanti con tutto il casino che sanno fare.
Fate un po’ voi…

2

Allora vi fermate…
Bene, bravi.
Mettetevi comodi, che poi qualcuno vi porterà un piatto e un bicchiere, e stateci a sentire.
Dunque lui era arrivato una sera.
Ancora oggi nessuno in paese ricorda la data esatta: forse era il periodo in cui in tv ci fu quel programma degli scemi chiusi nella casa che scopavano sempre e noi li guardavamo solo per vedere un po’ di cosce che non fossero quelle dei polli alla cacciatora.
Di certo la barca dell’americano era da tempo in costruzione nel cantiere: dal bersò della Forza e Coraggio la vedevamo ergersi minacciosa, ancora più alta delle nostre strette case a torre che avevano resistito agli assalti dei mori, ai moccoli dei pisani, alle grinfie di Napoleone che scappava, a quelle dei Savoia che arrivavano, alle ore immortali del destino che battevano e alle bombe incendiarie degli alleati che scoppiavano; ma, scrollava la testa, il siò Luigi questa volta non era sicuro che ce l’avremmo fatta, e tutti allora gli davamo ragione perché…
Siamo di nuovo andati troppo in avanti, come Dorino col cristo.
Fateci un favore… Se succede di nuovo dateci un urlaccio come faceva don Elmo e noi ci metteremo una mano sul petto — di solito a quel punto la croce sbandava e metà delle vecchiette dietro saltavano strillando sul ribaltabile dell’Ape addobbata del Pipéo, quasi in braccio al vescovo allibito — e vi risponderemo come ci rispondeva lui: «Belìn e ditele le cose! A me mi basta che lo sapio…».
Tornando a bomba, del resto parleremo dopo perché ora vi dobbiamo dire bene di lui, la prima notizia del suo arrivo ce l’aveva data il Professore.
Aveva visto la scena dal suo gozzo tornando dalle scogliere delle Rosse, dove per inciso tutti, anche i finanzieri, i carabinieri, la polizia e quelli dell’igiene mentale sapevano che continuava imperterrito a pescare col tritolo nonostante i quasi ottanta anni e le poche dita rimaste; al bar della Forza e Coraggio, sfidando le ire della Giarona, l’ostessa, che voleva chiudere, ci aveva scassato i coglioni fino allo sfinimento, raccontandocela nei minimi dettagli infinite volte.
La manovra era stata così bella da sembrare quasi una cosa tirata fuori da un libro di storie di mare, diceva: dopo il tramonto, la barca a vela era entrata con pochi bordi fino in fondo alla baia, aveva sentito la presa sull’ancora, c’era stato appena un fremito delle vele ed era rimasta immobile alla fonda.
E così noi lo avevamo preso per il culo come facevamo sempre.
Non dubitavamo fosse vero quello che diceva, ma veniva spontaneo pigliarlo in giro quando uno come lui si metteva a parlare di libri… Perché il Professore, come lo chiamavamo, non era un professore, neppure un maestro e, meno che mai, una persona istruita.
Non era del tutto analfabeta, almeno non più della maggior parte di noi ma, tanto per dirla chiara, bastavano le storie che circolavano su di lui per far capire che quel nome che gli avevamo affibbiato era da intendersi nel senso più ironico del termine.
Sembra infatti che, da ragazzo, una volta avesse detto alla maestra di non aver fatto i compiti perché aveva dovuto accompagnare suo padre a pescare con le bombe a mano in diga e che, per rendere la cosa credibile, ne avesse mostrate un paio che diligentemente aveva infilato nella cartella di cartone autarchico.
Tutti noi sapevamo che fin dalla più tenera età il Professore aveva appreso, sotto l’attento occhio del genitore, i rudimenti dell’arte difficile di tenere la carica di tritolo innescata in mano e gettarla all’ultimo momento per farla esplodere alla profondità giusta, portando a casa pranzo, cena e tutte le dita: ora lo sapeva anche la maestra che, alla vista degli ordigni, fu c...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Rizzoli Best
  3. Frontespizio
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. Postfazione
  44. Ringraziamenti