
- 183 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Disonora il padre
Informazioni su questo libro
Sospesa tra romanzo d'invenzione e scrupolosa autobiografi a, cronaca familiare e ricostruzione storica, la storia di un ragazzo nato a Pianaccio, sull'Appennino tosco-emiliano, che per sfuggire alla coscrizione della Repubblica sociale entra a far parte di Giustizia e Libertà e nel dopoguerra diventa caporedattore del "Resto del Carlino". Un romanzo intenso, un affresco compiuto del nostro Paese nei primi decenni del Novecento, che ha la capacità di restituirci con leggerezza e ironia la percezione del "secolo breve", con i suoi orrori, le ideologie, le tragedie.
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Informazioni
VIII
Vidi Eugenio durante un allarme. Andammo a sdraiarci sotto i vecchi alberi, nei giardini di Porta Saragozza. Era settembre inoltrato. Tornava dalla Russia: c’era dovuto andare per farsi assolvere di uno scandaloso articolo pubblicato su «Architrave», la rivista del Guf.
Sosteneva che bisognava cacciare i gerarchi corrotti, quelli che accettavano qualunque compromesso pur di far carriera, perché la rivoluzione fascista trionfasse davvero. Pulizia, via i mascalzoni. Un bravo ragazzo, dalle spalle larghe, i baffetti neri, un romagnolo un po’ casinista, ma ci credeva.
Cominciò di lontano il rombo basso degli aerei, tanti, e lui continuava a parlare: «Adesso anche il duce si sarà reso conto che avevo ragione io; era circondato da imbroglioni e da truffatori. Dobbiamo cambiare tutto, e da dentro».
«Hai visto il 25 luglio? Se avanzo seguitemi. Uno, uno solo, si è ammazzato per il dispiacere, e forse non aveva capito bene.»
«A me del duce, per essere sinceri, non me ne frega proprio. Ma c’è di mezzo l’onore, la parola data. Coi tedeschi ci siamo comportati come sempre: da farabutti.»
«A me, invece, non me ne importa niente neppure di loro. Mio zio dice che, almeno, non rubano: abbiamo constatato come sono svelti a grattare anche gli orologi.»
La contraerea non si faceva sentire, e dal sud cominciarono a spuntare le formazioni, nitide nel sole.
«Allora stai con quelli lì?» disse Eugenio.
«Anche di loro: un’ostia.»
«Non puoi; ascolta che musica.»
Stavamo a pancia in giù, le mani sulla testa nell’illusione di proteggerci; le bombe cadevano così rapide che parevano mitragliassero, poi le esplosioni.
«Buttano tutto per aria» dissi. «È come picchiare un bambino.»
«Che cosa ti aspettavi? Fanno la loro guerra, non la tua.»
Ci lasciammo appena si allontanarono; nessuno li aveva disturbati, neppure un caccia. Non lo vidi più.
Corsi verso casa: via Pietralata era quasi distrutta. Aiutai a tirar fuori una donna rimasta tra le macerie; era senza una gamba, ma non si lamentava. Nella bottega del fornaio ricordo delle galline che beccavano allegre. Un tassì, all’angolo di via dei Mille, era rimasto colpito in pieno di schegge: l’autista stava con la testa appoggiata sul volante, pareva dormisse. Dietro c’era una anziana signora con gli occhialini, aveva accanto una bambola dai riccioli stopposi, vestita di organza rosa.
Un ometto era rimasto fulminato sul cesso, col giornale tra le gambe e le bretelle a penzoloni, e la parete era crollata; due giovani sposi bloccati nell’ascensore, sospeso a mezz’aria, si stringevano ancora la mano. I motofurgoni dell’Unpa correvano all’impazzata; caricavano soprattutto dei morti.
Al giornale c’era un direttore nuovo: il terzo cambio in due mesi. Veniva dal «Popolo d’Italia»; per anni, ogni sera, telefonava al duce le novità . «È buono, sapete» diceva per convincerci.
Prometteva di essere obiettivo: «Daremo tutti i bollettini, Berlino e Londra»; poi i fatti, e l’antica fede, gli fecero cambiare programma. Andò a trovare Mussolini alla Rocca delle Caminate, e fu come l’incontro tra due innamorati che inaspettatamente si ritrovavano.
«È un po’ stanco, con quello che ha passato,» raccontava «ma ha una grande volontà di ricostruire. Lo hanno sempre ingannato, anche Galeazzo, anche quel rinnegato di Grandi.»
Riapparve il professor Martelli col cuore diviso tra il duce e la Germania, Schopenhauer e Goebbels, la sua giovinezza ad Heidelberg e le risorse nascoste della Wehrmacht.
«Avete visto» diceva con orgoglio «come sono riusciti a portarlo via dal Gran Sasso? Hitler non aveva dimenticato l’amico, il camerata fedele. E quello sporcaccione di Badoglio, intanto, tramava.»
Pensavo ai vagoni carichi di soldati spediti nei Lager, alla fuga disordinata, ai magazzini, spesso pieni, saccheggiati, botti di cognac, forme di parmigiano, lenzuola, sacchi di riso sventrati, a gente di cui non sapevo più nulla. Boris dov’era?
E poi, che cosa bisognava fare? E re, il duce, l’alleato amico che minacciava, gli Alleati nemici che promettevano, la monarchia al Sud, la repubblica al Nord. Mi facevano ugualmente schifo — si può dire così di un sovrano? — tanto Vittorio Emanuele come Benito Mussolini, come il maresciallo cavaliere Pietro Badoglio.
Diceva Antonelli, sconsolato: «Sarà un bell’esercizio salvare il culo».
Rifondarono il fascio di combattimento; aderirono in pochi, il direttore, naturalmente; un cronista che diceva: «Mi hanno dato da mangiare per vent’anni, e non l’ho dimenticato»; anche quello degli Interni col nastrino azzurro della medaglia, che non era mai stato iscritto e gridava: «Si ritorna sul Piave; o si vince, o tutti accoppati».
Tano Barbetti non si era fatto più vedere; mi dissero che si nascondeva da un amico parroco di campagna e che, in attesa di un po’ di calma, passava le giornate a giocare a tressette col sacrestano. «Vedrai che prima o poi ritorna» diceva Antonelli.
Eugenio era stato nominato federale; ordinò di affiggere un manifesto per chiamare tutti a raccolta «in nome della Patria umiliata».
La risposta all’appello fu scarsa. Stava salendo i gradini della mensa universitaria dove avevano sistemato gli uffici, si voltò indietro per salutare qualcuno. C’erano davanti al portone due ragazzi in bicicletta, tirarono fuori dalla tasca della giacca la pistola e mirarono giusto. Cadde bocconi. Aveva, credo, poco più di trent’anni, e posso assicurare che non era cattivo.
Si scatenò la rappresaglia. Presero anche Tano Barbetti, lo portarono a San Giovanni in Monte. Nella cella c’erano un professore, un avvocato, altri tre o quattro, stessa imputazione. Era, anche lui, un camerata che, nel momento della prova, aveva mancato.
Non gli perdonavano nulla: di essere stato socialista da giovane, di avere frequentato qualche compagno di una volta, di aver fatto il legionario, perché doveva pur vivere, di aver urlato: «Viva la libertà !» quando credeva, finalmente, di poter scegliere.
In redazione nessuno parlava. C’era quel tempo buio e bagnato che riempie le ossa di freddo, e sa di foglie fradicie. «Non possono fargli del male,» diceva anche il capo «non ha ammazzato nessuno.»
Il direttore era in giro, tentava di ottenere qualcosa per Tano, sapeva che i suoi volevano dare un esempio, non importava chi avrebbe pagato.
Il processo fu sbrigato di notte, in prefettura, da un tribunale speciale, tutte camicie nere, solo qualche parente venne ammesso nell’aula, e i difensori poterono parlare, a quanto si seppe, ben poco, si limitarono a chieder clemenza.
Dicevano che Tano era tranquillo, forse gli sembrava uno scherzo stupido. Quando l’accusatore chiese per gli imputati la pena di morte, lo fissò come si guarda un matto. Non capiva. Si era impadronito della bicicletta del federale, è vero, ma subito era stata restituita: soltanto un gesto dimostrativo. Poi Sua Maestà , ufficialmente, bastava sfogliare la collezione del «Carlino», aveva ordinato lo scioglimento del Pnf. Si erano ribellate le legioni? Forse qualcuno pensò di andare a salvare il duce?
L’avvocato gli stava accanto, una mano appoggiata sulla spalla: «Chiederemo la grazia».
Domandò dei sigari e della carta da scrivere.
«Miei cari,» cominciava la lettera «in questo momento io mi sento come Nazario Sauro, come Guglielmo Oberdan, come quel crocefisso che ho davanti agli occhi. Non ho fatto niente.»
All’alba, lo condussero al Poligono.
Per invitare i giovani ad arruolarsi organizzarono un grande spettacolo al Medica, con orchestra, cantanti, attori; c’erano anche Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Lei indossava una camicetta bianca e la gonna nera, pareva una giovane italiana. «La sua carnalità , tipicamente romagnola,» si leggeva nel programma «il fisico forte e sessuale, la rendono l’attrice più amata del cinema italiano.»
Declamò un discorsetto di circostanza che le avevano preparato, ma senza troppa convinzione. Non sembrava adatta alla parte.
Osvaldo Valenti, in divisa da ufficiale della Decima Mas, continuava a recitare il personaggio dello scettico che sfida la vita. «È drogato» dicevano.
Sui muri cominciarono ad apparire i cartelloni di Boccasile: negri che abbracciavano statue romane mutilate, SS che puntavano il dito minaccioso: «E tu, cosa fai?».
Lo zio Gigi, rimpatriato per cause belliche, si arruolò subito nella Guardia nazionale repubblicana. Gli riconobbero i gradi che aveva nei militari, sergente, e la paga adeguata; prestava servizio sui treni. Si sentiva giovane. Molti chiesero di entrare nella Todt, a scavare postazioni e trincee, o ad aggiustare linee ferroviarie. Guai a non avere il Papier.
Venne a cercarmi Giobatta, e con lui andammo a trovare Amleto: aveva combattuto a Roma ma, spiegava: «Adesso sono felice». La sua domanda di entrare in seminario era stata accolta. «Chi sa,» diceva ridendo «ora che indosso la tonaca io, se ci sarà ancora bisogno di preti.»
«Piuttosto che fare l’impiegato di banca» lo provocava Giobatta «accetti anche il voto di castità .»
«È vero, e vado, se me lo ordinano, missionario tra gli ultimi cannibali.»
«Amleto,» chiesi «tu che parli con Dio, fatti dire come dobbiamo regolarci.»
«C’è un libro di un Della Robbia, che narra l’ultima notte di un condannato alla decapitazione, Pier Paolo Boscoli, perché ha cercato di uccidere il Medici. Non prende cibo, vuole che lo spirito sia leggero, che nulla ingombri la lievità dell’anima, e discute con un domenicano, che è lì per consolarlo, della sua colpa e del suo destino, e quel monaco, che ha in sé qualcosa di Savonarola, gli ridà la pace, sostiene che è lecito attentare al tiranno.»
Amleto aveva i capelli tagliati corti, come i militari, la faccia abbronzata, portava ancora la camicia grigioverde, ma mi pareva che le sue mani tracciassero già dei segni di assoluzione.
Disse Giobatta: «Ciò che va contro l’uomo, va contro Dio».
In via D’Azeglio sfilava un reparto della Decima; erano bei giovanotti, che marciavano cantando, pareva che volessero sfidare tutto:
Le donne non ci vogliono più bene
perché portiamo la camicia nera.
Hanno detto che siamo da catene,
hanno detto che siamo da galera.
«Han detto la verità ,» mormorò Giobatta «anche perché siete figli di puttana.»
Si divertivano a tagliare qualche ciuffo ai molli borghesi, bloccavano interi quartieri per far controlli o requisizioni, tutti quelli che non erano con loro dovevano essere considerati badogliani o sovversivi. Ricordo che mozzarono la barba a un professore di filosofia che passeggiava per via Rizzoli dando il braccio alla moglie. «Quello è Lenin» sghignazzavano, e lui smarrito e indifeso, timidamente protestava: «Ma signori, mi scusino, questo, me lo lascino dire, non è comprensibile, non è civile».
La moglie guardava e piangeva.
Rientrò Enrico; l’avevano preso a Marsiglia, già imbarcato in un merci, ma ce l’aveva fatta a saltar giù. Gli pareva che fosse arrivato il momento della grande avventura. Raccontò che il suo comandante lo avevano steso con il calcio di un mitra, e sorrideva. «Qualcuno la pagherà ,» diceva «vedrai se mi sbaglio.»
Era diventato autista dell’organizzazione Todt; fregava qualche gomma, un po’ di benzina, aiutava la famiglia. Ci trovavamo certe sere dalla Lella, nella cucina calda, ed Enrico portava sempre qualcosa da mangiare.
«Lella,» diceva «non fare la stronza. Stai lontana dai tedeschi.»
Veniva anche la signora Ines, anche Giobatta, la comunista e il cattolico erano sicuri che Stalin e il Signore avrebbero alla fine sistemato tutto. Imparammo che Boris si era rifugiato dalle parti di Comacchio, nella palude. «È commissario» disse con soddisfazione la signora Ines.
Ogni tanto Enrico spariva, ma nessuno ne parlava. Una sera a San Giovanni in Monte si presentò una camionetta mimetizzata carica di militi e di tedeschi, armati e disinvolti. Bussarono, e dopo poco fu un fuggi fuggi generale, le celle dei «politici» erano state spalancate.
Enrico leggeva il giornale e sorrideva: «Non è mica difficile; ti ricordi le bilance automatiche? Basta trovare il ferro adatto, e le serrature si sbloccano».
Un’altra volta, al Baglioni, gli ufficiali del comando della piazza davano una festa da ballo. «Es ist Fasching,» dicevano «ist carnovale.»
Avevano fatto preparare molte cose buone, invitate parecchie disponibili signore, c’era anche il cantante e anche il comico, un piccolo attore napoletano, tagliato fuori dell...
Indice dei contenuti
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- BUR
- Frontespizio
- Dedica
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- II
- III
- IV
- V
- VI
- VII
- VIII
- IX
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