Uno
Adele
Metto giù il telefono. Oggi c’è il sole: a quest’ora del giorno entra come il vento e accende tutta la sala, si appoggia sugli oggetti, sul divano. Il telefono è accanto al divano. Mi accorgo che è arrivato il sole perché devo socchiudere gli occhi per la troppa luce. Li strizzo come un panno e il panno è bagnato, scendono gocce d’acqua, mi solcano le guance, arrivano alle labbra, alla lingua. I miei occhi piangono. Solo dopo che accade qualcosa mi rendo conto che è accaduta. Mi alzo in piedi, ho la testa vuota, non ho la minima idea di cosa fare quando si deve uscire di corsa fuori di casa. Non so da dove cominciare: le chiavi, i soldi, l’auto, il cane da chiudere in cucina altrimenti si perde per casa pisciando e cagando dove gli capita... e poi è un cucciolo.
E io? Che devo fare? Come faccio ad arrivare fino alla porta? La testa è vuota, sì, ma pesa tonnellate, le gambe non ne vogliono sapere di dover mettere un piede davanti all’altro per raggiungerla. Mi sento come fossi lontanissima dal mio corpo. Ricado sul divano. Piango. Piango davvero, con il dolore nella voce, il lamento delle viscere. Ecco, sento riaffiorare i miei sensi, il mio corpo. Ora sono di nuovo qui.
Mi rialzo, stavolta so quello che devo fare, in una sorta di automatismo, come una cantilena ripetuta ogni giorno, ogni volta.
Prendo le chiavi di casa, chiudo la porta della cucina, mi ricordo addirittura di controllare se le due ciotole sono sufficientemente riempite. Sbatto la porta alle mie spalle.
Scendo le scale, il volto di Andrea mi sale, come l’ascensore sale mentre scendo. Passa dalla pancia, attraversa il cuore arriva ai polmoni e poi in gola. Si ferma davanti agli occhi. I miei occhi bruciano, non vedo dove metto i piedi... inciampo... sto per cadere. Dai Adele, cazzo! Ok, rallento, mi asciugo gli occhi, finalmente il portone. Odio questa giornata di sole che non vuole comprendere il mio dolore, che se ne frega se ho gli occhi rossi, e non la smette di ridere. Dov’era quando ne avevo bisogno? Arriva adesso, quando vorrei che tutti piangessero con me, compreso il cielo; sarebbe un modo per non sentire questa solitudine stringerti il collo fino a soffocarti. Il modo migliore per rassegnarsi alla sofferenza, dicono, è toccare il fondo.
Devo concentrarmi, mi devo ricordare dove ho parcheggiato la macchina ieri sera. Era tardi... Adele stai calma, non farti prendere dal panico, non pensare di essere sola al mondo. Stai tranquilla, l’auto si trova. Pensa, pensa... eccola. La apro con il telecomando a distanza: risponde con un beep: è lei. Entro nell’abitacolo, infilo la chiave ed esco dal parcheggio in retromarcia. Comincio a correre. Corro. Aspetta Adele, devi imboccare la strada giusta. L’ospedale è in direzione est. Ok, ci sono, il pilota automatico del mio cervello si è inserito.
Ho di nuovo davanti la faccia di Andrea. Non piango. Penso al suo viso, ai capelli, al suo corpo nervoso, a quella sua pelle morbida. Ha un sorriso rassicurante e uno sguardo che riscalda. Sto per tamponare un’auto. Inchiodo. Il cuore mi sale nel cervello insieme all’odore del pranzo di oggi. Respira Adele, respira, non devi vomitare, stai calma. E il terrore del vomito porta via il volto di Andrea. Ho paura del vomito come della morte. Non si respira più, c’è un’azione contraria al corso naturale, fisiologico. E quel fetore che sa di sporcizia, di miseria, di dolore.
Il sangue ritorna a circolare nelle mie vene, perle di sudore si formano in mezzo alla fronte e tra il naso e le guance. Mi attacco al clacson ma la Renault davanti a me impiega un secolo prima di ripartire. L’uomo alza il braccio destro e mi fa cenno di andare affanculo. Lo supero con lo stesso disprezzo che oggi nutro per questo sole magnifico, per le persone che sorridono e per le cose belle che, pur non volendo vedere, vedo.
Arrivo all’ospedale. Parcheggio l’auto. Il piazzale è affollato di gente vestita di verde o di bianco, oppure con il pigiama sotto la vestaglia addosso... Bene, non sono sola.
Dora
Che silenzio. Sento la testa come immersa nell’acqua, ovattata, sotto pressione. Un po’ mi gira, tipo vertigine. Ma che pace. Per fortuna vedo, vedo tutto. I suoni non hanno nitidezza, fanno eco, sono opachi, come ritardati rispetto alle labbra che si muovono. Mi faceva lo stesso effetto telefonare negli Stati Uniti: mezz’ora, prima di sentire la risposta e le voci si accavallavano. Anche su Skype funziona così, se non hai le cuffiette col microfono.
Vediamo, faccio altre verifiche, mi passo in rassegna: non ho saliva in bocca, e nemmeno l’umido necessario agli occhi, infatti mi stanno riempiendo di collirio. Non sento odori. Zero assoluto. Vabbe’. Per fortuna non ho dolore. Da nessuna parte. Non provo più niente. Sono un po’ morta.
Sento caldo sulle gambe, spero non sia pipì, che vergogna. È pipì. Ecco lo staff in soccorso. Mi toccano, mi muovono, poi mi massaggiano.
Dunque, ricostruisco per la cronaca, così mi tengo allenata e la mente non s’incartapecorisce subito: via Acherusio, ennesimo semaforo che passo con il rosso, frenata lunghissima, chiudo gli occhi, un rumore terribile di lamiere, gelo addosso tipo bagno nel ghiaccio. Stop.
È incredibile morire di una morte annunciata senza fare niente per cambiarla, pur potendo. È che non riesco, non riesco a stare ferma davanti a un palo che mi dice se posso passare o no, per di più con i colori, come all’asilo. A ogni rosso mi dicevo che prima o poi ci avrei rimesso qualcosa, e mi accusavo di avere un pessimo senso civico, una mancanza assoluta di rispetto delle regole e dell’autorità , un egoismo selvaggio, e oltretutto di mettere ingiustamente in pericolo gli altri. Un essere senza amore, isolato dal resto del mondo. E continuavo a passare col rosso, a non fare la raccolta differenziata (il cassonetto era molto lontano... io ero spesso da sola... consumavo poco vetro... avevo solo il motorino ed era scomodo), a buttare i chewing gum per terra, e altre inciviltà di cui ero perfettamente consapevole con conseguenti attacchi di autodisprezzo.
Ho paura della noia. Tanto adesso arriva Riccardo, sarà uno spasso. Riuscirà ad attirare l’attenzione su di sé perfino al mio capezzale.
Arriverà per primo, gli verrà da ridere, che cretino, lo fa sempre quando è nervoso. Sarà bello perché si sarà preoccupato di come vestirsi. Sarà di corsa, resiste pochissimo alle tensioni e avrà costretto la sua agenda a trascinarlo via per forza di cose.
Una donna entra nella stanza. Ma chi è? Ha i capelli neri, lunghi oltre le spalle, un po’ spaghetti, gli occhi scuri, una bocca pronunciatissima. Sembra un animale, mezzo volto sfregiato. Che bella. Viene vicino. A me? Oddio ho perso la memoria. Non la riconosco. No no, proprio non la conosco. Mi guarda. Serissima. Non piange. Magari mi odia. Perché non faccio la raccolta differenziata? Ma chi diavolo è? Parla con i medici, sembra saperci fare. È decisa. Eccola, prende una sedia dal corridoio, in camera non ce ne sono, e si siede tra il mio letto e quello del mio vicino, un bel maschio adulto. Mi guarda come fosse la prima volta, infatti è la prima volta. Mi scruta. Che vuole? Forse è uno di quei curiosi che girano negli ospedali o nelle carceri o nei parchi pubblici alla ricerca di storie di vita da spiare, su cui parassitare. Ah no, parla al tipo. È la sua donna?
Adele
Il pensiero di essere già stata qui mi rassicura. Quantomeno posso evitare di chiedere informazioni sul reparto nel quale hanno messo Andrea, perciò non esito un istante e vado dritta verso le scale: una rampa, la seconda, ci sono. Ecco la porta a vetri. C’è una persona che la apre prima di me. Guardo dentro. Il corridoio è largo e curva dolcemente verso sinistra, dalla parte delle stanze. A destra le vetrate danno sul piazzale. Le porte, a doppia anta, sono tutte spalancate. Strano, non mi era mai capitato di vederle tutte aperte ma forse non ci avevo mai fatto caso prima d’ora. Il numero della stanza mi torna su come un rigurgito e, coincidenza, ecco che me lo ritrovo davanti agli occhi come se lo avessi chiamato ad alta voce. Chino leggermente la testa e allungo il collo. Il cuore, maledetto, di nuovo in gola.
Dalla posizione in cui mi trovo, sull’uscio della porta, riesco a vedere solo un letto vicino alla finestra e una ragazza dai capelli castani. È immobile, pare stia dormendo, sembra serena. Vorrei prolungare il più possibile questo momento e non vedere Andrea in nessun altro luogo se non fuori di qui, con me al ristorante, al tavolino di un bar, al cinema, a fare una passeggiata mano nella mano. Ovunque, ma non qui. Mi giro. Gli occhi chiusi e i capelli rasati non mi aiutano a stare calma. Il suo corpo, fermo come il suo sguardo, giace sotto un lenzuolo bianco. Sento le lacrime attraversare le tempie e arrivare agli occhi quando entrano due medici in camice bianco, come il lenzuolo che copre Andrea. Guardano la ragazza, guardano Andrea, mi vedono. Mi salutano.
Faccio un cenno con il capo come a dire siamo qui, sembra incredibile ma è successo. Possiamo fare...