Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato - vol. 7.
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Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato - vol. 7.

  1. 463 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato - vol. 7.

Informazioni su questo libro

Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato - vol. 7. Usciti a partire dal 1913, i sette libri che compongono, in un tutto unitario, la Recherche esplorano numerosi temi: il senso del tempo, la memoria, il sogno, l'abitudine, il desiderio. E poi ancora la gelosia, il rapporto tra arte e realtà, l'interagire di rituali ed emozioni. Indimenticabili i personaggi che il lettore incontra, dal Narratore, figura dai fortissimi tratti autobiografici, alle donne da lui amate, Gilberte e Albertine, fino a Odette e Swann, Bloch, Françoise, il barone di Charlus e la duchessa di Guermantes.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
eBook ISBN
9788858610268
IL TEMPO RITROVATO
Non avrei, comunque, ragione di soffermarmi su quel soggiorno che feci poco lontano da Combray, e che fu forse il momento della mia vita in cui pensai meno a Combray, se, proprio per questo, non mi avesse recato una verifica, almeno provvisoria, in merito a certe idee che avevo avuto dapprima dalla parte di Guermantes, e anche una verifica in merito ad altre che avevo avuto dalla parte di Méséglise. Ripresi ogni sera, andando però in direzione opposta, le passeggiate che, a Combray, facevamo di pomeriggio, quando partivamo alla volta di Méséglise. A Tansonville si cenava a un’ora in cui, un tempo, a Combray si dormiva da un pezzo. Inoltre, a causa della stagione calda e del fatto che Gilberte, nel pomeriggio, dipingeva nella cappella del castello, si andava a passeggiare solo due ore prima di cena. Al piacere di un tempo che consisteva nel vedere, rientrando, il cielo di porpora inquadrare il Calvario o immergersi nella Vivonne, si sostituiva, ora, quello di mettersi in cammino quando era già notte e nel paese non si incontrava che il triangolo azzurro, irregolare e semovente, delle greggi che rientravano. Su una metà dei campi si spegneva il tramonto, sull’altra splendeva già la luna che ben presto li inondava interamente di luce. A volte, Gilberte mi lasciava andare senza di lei, e io procedevo lasciando dietro di me la mia ombra come una barca che prosegua la sua navigazione attraverso distese incantate. Ma, di solito, Gilberte mi accompagnava. Le passeggiate che facevamo erano molto spesso le stesse che facevo una volta da bambino: ora, rendendomi conto di quanto poco fossi interessato a Combray, come non provare, e in maniera ben più intensa di quanto non provassi un tempo dalla parte di Guermantes, la sensazione che non sarei mai stato capace di scrivere, cui adesso si aggiungeva la consapevolezza che la mia immaginazione e sensibilità si erano affievolite? Ero desolato nel constatare quanto poco rivivessi i miei anni d’allora. La Vivonne mi sembrava stretta e brutta vedendola dal sentiero d’alzaia. Non che rilevassi notevoli inesattezze materiali in quel che mi ricordavo. Ma, separato dai luoghi che mi capitava di riattraversare da una vita completamente diversa, non c’era, tra essi e me, quella contiguità da cui nasce, anche prima che ci se ne renda conto, l’immediata, deliziosa, totale deflagrazione del ricordo. Non comprendendo bene effettivamente quale ne fosse la natura, mi rattristava pensare che per non trarre alcun piacere da quelle passeggiate, doveva essere probabilmente diminuita la mia facoltà di immaginare e di sentire. La stessa Gilberte, che mi capiva ancor meno di quanto mi capissi io, ne accresceva la tristezza condividendo il mio stupore. «Ma come?!» mi diceva «non provate nulla nel ripercorrere quel piccolo sentiero che salivate un tempo?» Anche lei, del resto, era tanto cambiata che non la trovavo più nemmeno bella, anzi non lo era più per niente. Mentre camminavamo, vedevo il paesaggio mutare; bisognava arrampicarsi lungo certi costoni, poi i pendii declinavano. Chiacchieravo con Gilberte in maniera per me molto piacevole, tuttavia non senza difficoltà. In tanti esseri umani esistono diversi strati dissimili tra loro, il carattere del proprio padre, il carattere della propria madre; si attraversa l’uno poi l’altro, ma l’indomani, l’ordine della stratificazione è invertito. E alla fine non si sa chi separerà le parti, di chi fidarsi per un giudizio definitivo. Gilberte era come quei paesi con i quali non si osa allearsi perché cambiano governo troppo spesso. Ma in fondo a torto, perché anche la memoria dell’essere più incostante stabilisce in lui una sorta di identità e fa sì che questi non vorrebbe venir meno a certe promesse di cui serba il ricordo, anche senza averle controfirmate. Quanto all’intelligenza, essa era, in Gilberte, salvo alcune incongruenze di sua madre, molto brillante. Ma, a prescindere dal suo valore, mi ricordo che in quelle conversazioni che facevamo passeggiando, parecchie volte lei mi lasciò esterrefatto. Una prima volta dicendomi: «Se non foste così affamato e se non fosse tanto tardi, prendendo quel sentiero a sinistra, e girando poi a destra, in meno di un quarto d’ora saremmo a Guermantes». Il che era come se mi avesse detto: «Girate a sinistra, poi prendete a destra e toccherete l’intangibile, raggiungerete le inaccessibili lontananze di cui, in terra, non si conosce altro che la direzione, e - cosa che avrei creduto un tempo unicamente possibile conoscere di Guermantes, e forse, in un certo senso, non mi sbagliavo - solo la “parte”». Altro stupore fu vedere le «sorgenti della Vivonne» che io immaginavo come qualcosa di extraterrestre, qualcosa come l’ingresso agli Inferi, e non erano, invece, che una specie di lavatoio quadrato dove affioravano delle bolle. E la terza volta fu quando Gilberte mi disse: «Se volete potremmo ugualmente uscire un pomeriggio e allora potremmo andare a Guermantes, prendendo per Méséglise, è la strada più bella», frase che sconvolgendo tutte le idee della mia infanzia mi rivelò che le due «parti» non erano così inconciliabili come avevo creduto. Ma la cosa che mi colpì di più fu quanto poco, durante quel soggiorno, io rivivessi i miei anni di allora, quanto poco desiderassi rivedere Combray, e come trovassi misera e brutta la Vivonne. Ma durante una di quelle passeggiate in un certo senso notturne, benché avessero luogo prima di pranzo, - ma Gilberte cenava talmente tardi! - lei verificò per me certe fantasie che avevo avuto dalla parte di Méséglise. Al momento di scendere nel mistero di una valle perfetta e profonda, tappezzata dal chiaro di luna, ci fermammo come due insetti che stiano per immergersi nel cuore di un calice bluastro. Gilberte, forse semplicemente per buona grazia di padrona di casa cui rincresce che dobbiate partire presto, e che avrebbe voluto farvi meglio gli onori di quel paese che sembrate tanto apprezzare, ebbe quel genere di parole in cui la sua abilità di donna di mondo che sa trar partito dal silenzio, dalla semplicità e dalla sobrietà nell’esprimere i sentimenti, vi fa credere di avere, nella sua vita, un posto che nessun altro potrebbe occupare. Riversando all’improvviso su di lei la tenerezza di cui ero ricolmo a causa dell’aria deliziosa e della brezza che si respirava, le dissi: «L’altro giorno avete accennato a quel certo sentiero; come vi amavo allora!». «Perché non me l’avete detto? Non me n’ero accorta» mi rispose lei. «Ero io che vi amavo, e ho cercato di farvelo capire per ben due volte.» «Ma quando?» «La prima a Tansonville; voi eravate a passeggio con i vostri familiari, io stavo rientrando e non avevo mai incontrato un ragazzino così carino. Avevo l’abitudine» aggiunse con aria vaga e pudica, «di andare a giocare con certi miei amichetti tra le rovine del torrione di Roussainville. Mi direte che ero proprio maleducata, perché là in mezzo c’erano ragazzine e ragazzini di ogni genere che approfittavano dell’oscurità. Il chierichetto della chiesa di Combray, Théodore, che, bisogna ammetterlo, era una vera delizia (Dio com’era bello!) e che è diventato bruttissimo (adesso fa il farmacista a Méséglise), si divertiva con tutte le contadi- nelle dei paraggi. Siccome mi lasciavano uscire sola, non appena potevo scappar via correvo là. Non vi dico quanto desiderassi vedervi arrivare: mi ricordo benissimo che un giorno, avendo solo un minuto per farvi capire quel che volevo, con il rischio che sia i miei che i vostri parenti mi vedessero, ve l’ho mostrato in maniera talmente cruda che me ne vergogno ancora oggi. Ma voi mi guardaste in maniera così cattiva che capii che non volevate saperne.»
Allora, d’un tratto, mi dissi che forse la vera Gilberte, come la vera Albertine, erano proprio quelle che si erano rivelate in quel loro primo sguardo, l’una davanti alla siepe di biancospino, l’altra sulla spiaggia; ed ero stato io che non avevo saputo comprendere quello sguardo, ma ripresolo solo più tardi nella memoria, dopo un intervallo durante il quale, a causa dei miei discorsi, tutta un’incertezza di sentimenti aveva fatto temere loro di essere sincere come lo erano state in quel primo minuto, avevo rovinato tutto con la mia goffaggine. Le avevo completamente «mancate» - benché, a dire il vero, il relativo insuccesso con loro fosse meno assurdo - per le stesse ragioni per cui Saint-Loup aveva mancato Rachel.
«E la seconda volta» riprese Gilberte, «fu molti anni dopo, quando vi ho incontrato sotto il portone di casa vostra, il giorno prima di ritrovarvi da mia zia Oriane; non vi ho riconosciuto subito, o piuttosto vi riconoscevo senza saperlo perché avevo la medesima voglia che avevo avuto a Tansonville.» «Ma nell’intervallo, però, c’erano stati gli Champs-Elysées», le dissi. «Sì, è vero, ma allora mi amavate troppo; avvertivo nei miei confronti, da parte vostra, un atteggiamento inquisitorio su tutto quello che facevo.» Non pensai di chiederle chi fosse quel giovane con il quale stava scendendo lungo il viale degli Champs-Elysées, quel giorno in cui ero uscito per rivederla, in cui mi sarei riconciliato con lei finché ero in tempo, quel giorno che forse avrebbe cambiato tutta la mia vita se non avessi incontrato le due ombre che procedevano fianco a fianco nel crepuscolo. Se glielo avessi domandato forse mi avrebbe detto la verità, così come Albertine se fosse resuscitata 1.
E, in effetti, le donne che non amiamo più, quando dopo anni ci capita di incontrarle, non c’è forse, tra noi e loro, la morte, quasi non fossero più di questo mondo poiché il fatto che il nostro amore non esiste più, trasforma quelle che esse erano allora, o quelli che noi eravamo, in altrettanti morti? Forse Gilberte non se ne sarebbe nemmeno ricordata o avrebbe mentito. In ogni caso non mi interessava saperlo perché il mio cuore era mutato forse ancora più del viso di Gilberte. Questo non mi piaceva più, ma soprattutto non ero più infelice. A ripensarci, non riuscivo a concepire di aver potuto esserlo stato a tal punto per aver incontrato Gilberte mentre camminava lentamente a fianco di un giovane, e di essermi detto: «È finita, rinuncio per sempre a vederla». Dello stato d’animo che, in quell’anno lontano, era stato per me soltanto una lunga tortura, non rimaneva più nulla. Perché in questo mondo in cui tutto si logora, in cui tutto perisce, la cosa che cade in rovina e si distrugge ancor più completamente della Bellezza, e lasciando ancor meno tracce di essa, è il Dolore.
Tuttavia, se il non aver domandato a Gilberte con chi allora stesse scendendo lungo gli Champs-Elysées non mi sorprende, perché ho già visto fin troppi esempi di una simile mancanza di curiosità causata dal tempo, un po’ più lo sono di non averle raccontato che quel giorno, prima di incontrarla, avevo venduto un vaso cinese antico per comperarle dei fiori. In effetti, durante il triste periodo che era seguito, la mia sola consolazione era stata quella di pensare che un giorno, senza pericolo, avrei potuto riferirle quella mia intenzione così tenera. E, ancora più di un anno dopo, se vedevo che una carrozza stava per urtare la mia, l’unica ragione per cui non volevo morire era per poter raccontare quell’episodio a Gilberte. Mi consolavo dicendomi: «Che fretta c’è, ho tutta la vita davanti per dirglielo». E per questo desideravo non perdere la vita. Raccontarglielo adesso mi sarebbe sembrato di cattivo gusto, quasi ridicolo e «provocatorio». «Tra l’altro» continuò Gilberte «anche il giorno che vi ho incontrato sotto il portone eravate del tutto uguale a quello dei tempi di Combray; se sapeste come eravate poco cambiato!» Rividi Gilberte nella memoria. Avrei potuto disegnare il quadrilatero di luce che il sole faceva sotto i biancospini, la zappetta che la ragazzina teneva in mano, il lungo sguardo che si fissò su di me. Solo che io avevo creduto, a causa del gesto volgare che l’aveva accompagnato, che fosse uno sguardo di disprezzo, perché ciò che io desideravo mi pareva qualcosa che le ragazzine ignorassero e facessero soltanto nella mia immaginazione, durante le ore del mio desiderio solitario. E ancora meno avrei creduto che, con tanta disinvoltura e tempestività, una di esse, quasi sotto gli occhi di mio nonno, avesse avuto l’audacia di rappresentarlo.
Non le chiesi con chi stesse passeggiando sul viale degli Champs-Elysées la sera in cui avevo venduto i vasi cinesi. Ciò che c’era stato di reale sotto l’apparenza di allora mi era divenuto indifferente. Eppure, quanti giorni e quante notti non avevo sofferto chiedendomi chi fosse quel giovane? Quante volte non avevo dovuto reprimere i battiti del cuore, più ancora forse che per non tornare a dar la buonanotte alla mamma, in quella stessa Combray! Si dice, e ciò spiega l’indebolimento progressivo di certe affezioni nervose, che il nostro cervello invecchia. Il che non è vero soltanto per il nostro «io» permanente che si prolunga per tutta la durata della vita, ma per tutti i nostri «io» successivi che alla fine in parte lo compongono.
Così, a tanti anni di distanza, dovetti far subire un ritocco a un’immagine che ricordavo così bene; operazione che mi rese abbastanza felice mostrandomi che l’abisso invalicabile che allora avevo creduto esistesse tra me e un certo genere di ragazzine dai capelli dorati, era immaginario quanto l’abisso di Pascal; operazione che trovai poetica a causa della lunga serie di anni alla fine dei quali dovetti compierla. Ebbi un soprassalto di desiderio e di rimpianto pensando ai sotterranei di Roussainville. Ma ero lieto di dirmi che quella felicità verso la quale tendevano allora tutte le mie forze, e che niente poteva più restituirmi, era esistita altrove, e non solo nel mio pensiero, ma nella realtà e così vicino a me, in quella Roussainville di cui parlavo tanto spesso e che scorgevo dal mio studiolo odoroso di iris. E non ne avevo saputo niente! Insomma, Gilberte riassumeva tutto ciò che io avevo desiderato nelle mie passeggiate, tanto da non riuscire a risolvermi a rincasare nella speranza di veder schiudersi e animarsi gli alberi. Ciò che allora desideravo tanto febbrilmente, lei, solo che avessi saputo comprenderlo e riconoscerlo, me lo avrebbe fatto assaporare fin dall’adolescenza. Più completamente ancora di quanto avessi creduto, Gilberte, a quell’epoca, era veramente «dalla parte di Méséglise».
E anche quel giorno in cui l’avevo incontrata sotto l’androne, benché non fosse Mademoiselle d’Orgevil- le, quella che Robert aveva conosciuto nella casa d’appuntamenti (e che strano dovessi chiedere chiarimenti proprio al suo futuro marito!), non mi ero ugualmente ingannato sul significato del suo sguardo, né sul genere di donna che era, e che ora mi confessava di essere stata. «Tutto questo è molto lontano» mi disse, «da quando mi sono fidanzata con Robert non ho pensato che a lui. E non sono nemmeno questi capricci da ragazzina che mi rimprovero maggiormente!»
Tutta la giornata in quella dimora un po’ troppo «campagna», che sembrava più un luogo di siesta tra una passeggiata e l’altra o durante un acquazzone, una di quelle dimore in cui ogni salotto sembra un gazebo, e dove, sulla tappezzeria delle stanze, le rose del giardino nell’una, gli uccelli sugli alberi nell’altra, vi hanno raggiunto e vi tengono compagnia, isolati dal mondo - erano infatti delle vecchie tappezzerie dove ogni rosa era separata dall’altra quel tanto che, se fosse stata vera, si sarebbe potuto coglierla, ogni uccello rinchiuderlo in gabbia e addomesticarlo, senza nessuna di quelle grandi decorazioni del giorno d’oggi, dove, su un fondo argentato, tutti i meli della Normandia sono venuti a profilarsi in stile giapponese per rendere allucinanti le ore che si passano a letto - tutta la giornata la trascorrevo nella mia camera che dava sul bel verde del parco e i lillà dell’ingresso, sul fogliame dei grandi alberi in riva all’acqua, scintillanti di sole, e sul bosco di Méséglise. E in fondo, se guardavo tutto questo con piacere era solo perché mi dicevo: «È bello, però, avere tanto verde davanti alla finestra della mia camera!» fino al momento in cui, nel vasto quadro verdeggiante, non riconobbi, dipinto di blu scuro ma solo perché più lontano, il campanile della chiesa di Combray. Non una figurazione di quel campanile, ma il campanile stesso che, mettendomi così sotto gli occhi la distanza dei chilometri e degli anni, era venuto, in mezzo alla luminosa verzura e in un tono completamente diverso, così scuro che sembrava soltanto disegnato, a iscriversi nel riquadro della mia finestra. Se poi uscivo per un attimo dalla mia camera, in fondo al corridoio che era orientato diversamente, scorgevo come una fascia di scarlatto, la tappezzeria di un salottino, che altro non era che una semplice mussolina, ma rossa e pronta a incendiarsi se vi si posava un raggio di sole.
Durante quelle passeggiate Gilberte mi parlava di Robert come se si stesse allontanando da lei, ma per andare appresso ad altre donne. Ed è vero che parecchie ingombravano la sua vita, ma, come certe familiarità maschili negli uomini che amano le donne, con quel carattere di difesa inutilmente messa in atto e di posto vanamente usurpato che hanno, nella maggioranza delle case, gli oggetti che non servono a niente.
Robert venne parecchie volte a Tansonville mentre c’ero io. Era molto diverso da come l’avevo conosciuto. La vita non lo aveva appesantito, rallentato come M. de Charlus, anzi, operando in lui un cambiamento inverso, gli aveva dato l’aspetto disinvolto di un ufficiale di cavalleria - benché avesse dato le dimissioni dal reggimento al momento del suo matrimonio - come prima non aveva mai avuto. Mentre M. de Charlus era andato via via ingrossando, Robert (certo era molto più giovane di lui ma si intuiva che con l’età si sarebbe avvicinato sempre più a quel modello), al pari di certe donne che sacrificano senza esitare il loro viso in favore della figura e, da un certo momento in poi, non abbandonano più Marienbad (pensando che, non potendo conservare a un tempo parecchie giovinezze, sarà quella del portamento la più capace di rappresentare le altre) era diventato più slanciato, più svelto, effetto contrario di un medesimo vizio. Questa sveltezza d’altronde aveva diverse ragioni psicologiche: il timore, per esempio, di essere visto e il desiderio di non dare a vedere tale timore, oltre all’ansia febbrile che nasce dalla scontentezza di sé e dalla noia. Aveva l’abitudine di frequentare certi luoghi malfamati, e, siccome non amava che lo vedessero entrare o uscire, vi si buttava letteralmente dentro per offrire, agli sguardi malevoli di ipotetici passanti, la minor superficie possibile, come quando ci si lancia all’attacco. E quell’andatura da colpo di vento gli era rimasta. Forse essa sintetizzava anche l’audacia apparente di chi vuol mostrare di non aver paura, né conòedersi tempo per pensare. Per completezza bisognerebbe anche mettere in conto il desiderio di apparire giovane quanto più invecchiava, oltre all’impazienza di quegli uomini sempre annoiati, sempre disgustati che sono le persone troppo intelligenti per la vita relativamente oziosa che conducono, in cui le loro capacità non trovano espressione. Certo l’ozio di costoro può trasformarsi in apatia. Ma, soprattutto dopo il favore di cui godono di questi tempi gli esercizi fisici, l’oziosità ha assunto una forma sportiva, anche nelle ore non dedicate allo sport, e si esprime, allora, non più in apatia ma in una vivacità febbrile che crede di non lasciar né tempo né spazio alla noia per svilupparsi 2.
Essendo divenuto - almeno durante questa fase incresciosa - molto più scostante, non dava quasi più prova, di fronte agli amici, di fronte a me, per esempio, di sensibilità. In compenso ostentava con Gilberte certe svenevolezze, spinte fino alla commedia, assai sgradevoli. Non che Gilberte in realtà gli fosse indifferente. No, Robert l’amava ma non faceva che mentirle di continuo. La sua doppiezza, se non il contenuto stesso delle menzogne, veniva continuamente allo scoperto, allora credeva di potersela cavare esagerando, fino al ridicolo, la reale tristezza che provava nel farla soffrire. Arrivava a Tansonville dicendo di esser costretto a dover ripartire l’indomani mattina per un affare con un tale del paese che, presumibilmente, doveva attenderlo a Parigi, ma costui, incontrato la sera stessa nei paraggi di Combray, svelava involontariamente la bugia di cui Robert aveva trascurato di informarlo,...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Premessa Il tempo ritrovato
  5. Bibliografia
  6. Firma
  7. Il tempo ritrovato
  8. Note
  9. Sommario