I
Il re dei matti
Usciva sempre alle otto del mattino e anche se non vi lavorava più da molti anni pensava immancabilmente di recarsi al manicomio del San Giacomo della Tomba. Qualche volta sbagliava strada e finiva proprio davanti a quel portone, chiuso da quando i manicomi erano stati eliminati perché inutili e persino vergognosi.
Dietro quel portone non c’era più nulla, solo l’ombra di un manicomio: storta, matta anch’essa. Rimaneva in piedi la facciata, puntellata, ritenuta dalle Belle Arti un reperto antico, dimenticato.
Attraverso quel portone era entrato e uscito migliaia di volte.
Era stato il direttore del manicomio, il re dei matti.
Ora doveva andare in un ospedale civile, dove la follia aveva le sembianze della normalità , collocata tra le malattie di cuore, con quelle della prostata, con il mal di denti.
Il manicomio si ergeva intatto ancora nella sua testa, con tutti i padiglioni: quelli delle donne e quelli degli uomini e nella sequenza che dalla ragione debole giungeva alla bestialità .
Non sapeva vivere senza manicomio e vi ritornava inconsapevolmente perché ne aveva bisogno come un bambino della propria madre.
Era smagrito, silenzioso e sembrava che i suoi occhi cercassero solo matti, matti da manicomio.
A mezzogiorno scendeva nelle cucine ad assaggiare il cibo prima che venisse distribuito nei padiglioni. Come fa un generale al fronte con il rancio dei soldati.
Si occupava di follia, ma anche del forno del pane se non funzionava bene, delle toilette se si intasavano.
Il manicomio era una città , non un ospedale, e lui voleva che i cittadini si trovassero bene e avessero almeno il necessario.
Si occupava della vita dei matti, non solo della loro salute, come accadeva ora, in quella nuova officina per aggiustare menti rotte, in poco tempo, in modo sempre più rapido: dalla mattina alla sera.
Un bullone da tirare, una saldatura tra due neuroni, un controllo alla memoria, una ritoccata all’umore, un’occhiata allo spinterogeno della mente.
Non era più il direttore del manicomio, ma un meccanico della follia. Un meccanico infelice.
Doveva imboccare l’autostrada per raggiungere l’ospedale civile e percorrere una decina di chilometri.
Andava piano come non volesse arrivarci, tirato dai ricordi del manicomio che nella sua testa si ergeva ancora come una fortezza, con le mura che terminavano in alto con il filo spinato e circondate all’esterno da un fossato d’acqua profonda che avrebbe annegato ogni desiderio di fuga.
Quando qualcuno voleva andare di là , nella città dei sani, le campane della chiesa del manicomio si svegliavano e tutti all’interno sembravano ancor più pazzi. Gli infermieri correvano alla ricerca di quel matto che si era forse illuso di essere guarito e non sapeva che la follia è un segno del destino che uno si trascina dietro e che non lo abbandona mai. Se scappa, scappa con la follia addosso.
Anche le suore correvano disperate come fossero inseguite dal demonio. Di fronte a un folle che scappa non serviva meditare sulla Santissima Trinità o chiedere l’aiuto della Vergine, era meglio darsi da fare e semmai andare in cappella a ringraziare i santi solo quando la caccia si fosse conclusa e il matto rimesso al suo posto.
Aveva milleduecento matti, duecento infermieri, otto medici e quaranta sante suore. Il cappellano era un matto, ma le sue benedizioni erano buone, la celebrazione della messa conforme alla santa liturgia e se avesse commesso qualche errore, una delle suore che lo vigilava lo avrebbe corretto.
Il mattino, quando il direttore entrava dal portone, si avvertiva un gran trambusto. I portieri si alzavano in piedi, sistemando la divisa e indossando il berretto che portava la scritta: Manicomio del San Giacomo della Tomba. Avvisavano, con un suonar di campanelli, che stava per giungere e così gli impiegati della direzione si mettevano a sfogliare misteriosi registri, gli ispettori uscivano dal sopore e l’agitazione si spargeva in tutti quei sani che si occupavano dei matti.
Anche i folli, con l’arrivo del direttore, diventavano un po’ più folli.
Il manicomio si animava e incominciava a vivere.
Il direttore entrava nel suo studio, enorme, un lungo tavolo ingombro di carte e di libri, indossava un camice che sistemava con l’attenzione con cui un celebrante controlla che la cotta e la pianeta indossate siano a posto e solo allora entrava nel tempio tra i fedeli.
I suoi fedeli erano tutti matti, ma lui era un vero sacerdote, amato e temuto, venerato e invidiato.
Ad accoglierlo ora nella nuova palazzina non c’era nessuno. Nessuno si accorgeva del suo arrivo, se si esclude l’orologio delle presenze in cui doveva infilare la sua tessera di dipendente dell’Amministrazione ospedaliera.
Aveva uno studiolo nello scantinato e qui si chiudeva come un monaco nella sua cella, come chi non ha voglia di mescolarsi con il mondo. Non era più direttore, ma primario dei Servizi di psichiatria.
Aveva affidati quindici letti e i malati psichici ruotavano per un breve periodo di osservazione e di riparazione, poi tornavano a casa.
In un mondo così contratto non c’erano più liturgie, celebrazioni, eventi. Tutto scorreva senza alcuna emozione, con un capo sepolto in cantina. Un generale senza esercito, senza ufficiali. Non metteva nemmeno il camice. Si sarebbe sentito ridicolo, come indossare la divisa da trincea al posto del pigiama, o l’elmo invece del cappello a tese larghe per un galá.
Chiudeva gli occhi appoggiando il capo alla poltrona che si era portato dal manicomio e così pensava, e pensando finiva sempre in manicomio. Dentro la nostalgia, in questo schermo velato di malinconia, rivedeva matti e suore, uscieri e ispettori. Si ritrovava direttore con quel suo carisma che imponeva il silenzio persino sui maniaci e sui violenti, sugli stupratori.
Prendeva qualche matto sottobraccio, una botta sulla spalla, l’ordine di tagliare una barba troppo lunga o di fare una doccia a chi si trascurava troppo.
Alla palazzina si parlava solo di cure, di terapia del sintomo, della gestione della follia. E sempre di dimissione, come fosse un peccato mortale tenere il matto lontano dal mondo.
Le cure in manicomio allora servivano per vivere meglio il manicomio, in maniera più tranquilla, magari potendo lavorare un po’ nella colonia agricola o servire in tavola alla mensa o frequentare l’atelier di pittura, dove si poteva diventare artisti: pittori matti, ma pur sempre pittori.
Anche dal manicomio si andava a casa, ma solo in permesso, per qualche giorno, come premio. Poi tutti ritornavano puntualmente e per un po’ non chiedevano più di uscire, come se stessero meglio lì, nella città dei matti dove avevano diritto a un posto per sempre, fino alla morte.
In manicomio si parlava di vita, non di terapia. Si cercava di migliorarne la qualità e il direttore faceva venire le giostre e una volta arrivò il circo. Si organizzavano feste memorabili. Pranzi da gran signori: con il panettone, due secondi, il cioccolato.
Senza vino, ovviamente, ai matti fa male e lo aveva spiegato il direttore con una dotta lezione sulla biochimica del cervello rotto.
Feste che davano la soddisfazione di essere matti e di godere di tanti privilegi.
Al Corpus Domini veniva il vescovo e distribuiva la comunione anche agli scemi, ai maniaci e persino agli omosessuali, come dono speciale di quel giorno e di quell’occasione.
Il problema della nuova psichiatria sembrava essere la diagnosi e l’immediata dimissione per diminuire i costi di gestione. Il prezzo di un matto sul mercato della sanità era da capogiro: un numero che sapeva di grandeur e di delirio.
Lui stava bene in manicomio tra i suoi matti, dove il tempo sapeva di eternità .
Chiamava uno del quinto padiglione, lo faceva sedere davanti a sé e stavano zitti, ma si guardavano. L’uno scandagliava l’altro e dalla superficie si scendeva in profondità .
Un silenzio fatto di sguardi, di automatismi, di qualche stiramento di bocca che pareva un sorriso.
I matti non dicono nulla ma ti riempiono gli occhi e ti pare di esserne parte. Una simbiosi silenziosa, come un neonato che guardi la propria madre e si attacchi a una tetta per sopravvivere.
A che servono le parole quando tutto è essenziale e non c’è bisogno di fingere? Un folle e un re dei matti non hanno nulla da nascondere e per questo niente da dire. Tutta la retorica della follia sta dentro il silenzio e uno pensa a cosa mai stia pensando quell’altro che ti guarda. Ti puoi convincere che ti vuol bene. Nel silenzio si capisce tutto.
Dopo un anno richiami lo stesso matto, tanto lui è là , non va da nessuna parte. D’estate fa un giro nel parco. Ci sono gli uccelli, cinguettano come matti. I fiori sono anch’essi strani. Qualcuno li coglie a tutto gambo e se li infilerebbe nel sedere, se subito un infermiere sano non glieli avvicinasse al naso, al luogo giusto, per sentire un profumo che non c’è.
Nel padiglione ti guardano come un graziato se sei stato dal direttore. Vogliono sapere cosa ha detto, se non ha accennato anche a loro che non lo hanno mai visto e si trovano lì da vent’anni. Si sono dovuti accontentare di un assistente, ma è un’altra cosa, come fare una marchetta con una vecchia demente del quinto femminile o con una top model della televisione.
In manicomio arrivano tutti i canali e là dentro sono convinti che i programmi siano prodotti per loro, su misura: roba da matti.
Nella palazzina tutto era invece banale.
In cantina, poi, dominava un gran silenzio e la concentrazione arrivava a livelli che sconfinavano con il sonno profondo e con il sogno, fatto comunque di manicomio. Bastava poi chiudere la luce del corridoio per rendere quel luogo assolutamente privo di attrazione.
Le rare volte in cui il primario usciva, lo faceva sempre con grande circospezione, come se temesse di incontrare qualcuno. Saliva le scale in maniera spedita per non essere visto. Al pianoterra passava davanti alla porta a vetri che dava sul reparto di degenza, in quello di sopra entrava invece in un corridoio dove avevano lo studio i medici e si trovavano la sala di psicoterapia di gruppo e quella per il day hospital.
In fondo al corridoio c’era il cesso, a cui era immancabilmente diretto, e lo raggiungeva sempre all’ultimo momento dominando un bisogno che inconsapevolmente voleva spostare per non uscire dalla sua cella.
Se era occupato, si portava davanti alla finestra da cui si scorgeva il castello sul quale si era costruita tutta la storia della cittadina, a partire proprio dagli Scaligeri che l’avevano innalzato e vi avevano attaccato due ali murarie di mattoni rossi sovrastate da merli con guglie ghibelline, per chiudere l’insediamento e fortificarlo.
Se incontrava qualcuno, tutto si limitava a un saluto come se ignorassero chi egli fosse.
Non era più nessuno, un pezzo di manicomio distrutto.
La sera, giungeva in cantina il dottor Antonio Alberti per riferire di eventuali problemi. Era l’aiuto, l’unico medico che proveniva dal manicomio e che, dunque, aveva conosciuto il direttore nell’espletamento delle sue funzioni.
Un incontro pieno di tristezza. Sembravano due ufficiali di marina su una barchetta a remi, mentre parlavano dei problemi dell’incrociatore su cui avevano operato in tempo di guerra.
Il dottor Alberti aveva un gran rispetto per il suo superiore. Rimaneva in piedi fino all’ordine di prendere posto. Non lo contraddiceva mai. Il direttore non poteva sbagliare. Lo chiamava ancora così, ma quel titolo, pronunciato in cantina, sembrava folle.
Nella palazzina ogni medico gestiva i propri pazienti e non gradiva interferenze per non perdere autorevolezza di fronte al malato. In una tale visione non serviva l’aiuto e nemmeno un primario. L’uno e l’altro stavano chiusi in una cella: l’aiuto aveva scelto uno sgabuzzino in soffitta.
Quando era accolto un malato, gli veniva indicato subito il giorno della dimissione. Lo si chiudeva dentro una diagnosi rapida quanto inutile, gli veniva confezionato addosso un farmaco e semmai un luogo alternativo alla casa di origine, se i familiari non lo volevano.
La follia non viveva più, era solo sistemata rapidamente.
Gli psichiatri sentivano la colpa del ricovero ed erano felici tutte le volte in cui riuscivano a negarlo, a non togliere il matto dalla società , dal mondo.
Il dottor Alberti si dedicava segretamente allo studio della legislazione pensionistica, con l’intento di capire ogni possibile scorciatoia per non venire più alla palazzina. Non aveva il coraggio di dirlo al direttore per paura di farlo sentire ancora più solo.
Non ne poteva più. Da quando era uscito dal manicomio stava male. Più insicuro, con i tratti ossessivi di chi fatica a vivere. Si muoveva persino più lentamente e senza il minimo rumore, come se non ci fosse, con la voglia di non esserci.
Stavano un poco insieme e poi se ne andavano: un’altra giornata era passata.
Era come se lui e il dottor Alberti fossero stati dimessi dal manicomio mentre erano all’inizio della cura. Avevano bisogno di quel ricovero, di quella puzza da padiglione matto, fatta di sudore marcito e di escrementi poltacei.
Con la normalità non avevano nulla da condividere. Con il perbenismo, la finzione, l’invidia, l’odio camuffato, il desiderio di potere, la fame di denaro.
Il direttore aveva bisogno di follia, dei suoi matti. Non sapeva più dove li avevano messi. Temeva che fossero stati abbandonati nelle strade trafficate. E talora raggiungeva le periferie della città per cercarli, per vedere se avevano bisogno di qualcosa. Forse erano stati incarcerati per comportamenti inammissibili nella città della ragione.
E ritornava davanti al portone del manicomio del San Giacomo della Tomba, come se si illudesse che un brutto sogno fosse terminato e potesse finalmente entrare ancora dentro la sua città .
Non riusciva a credere che tutto fosse scomparso, che un tifone della ragione avesse spazzato via la follia, che la morte avesse ammazzato tutti i matti, che qualcuno avesse convinto il mondo che non esistono più, che i manicomi sono inutili e vanno abbattuti come i campi di concentramento, e i direttori dei manicomi messi alla berlina, come i processati a Norimberga.
Ascoltava i matti con l’attenzione e l’interesse di chi viaggia dentro un pianeta infinito e straordinario e non per rilevare un sintomo da curare. Gli pareva che i suoi matti rappresentassero esistenze particolari, ma coerenti.
Non capiva come si potessero curare le visioni del mondo, come si potesse giungere a convincersi di poter trasformare uno che non ama vivere in un gaudente.
Le esistenze si possono soltanto condividere e magari contemplare poiché sono piene di fascino, anche quando sanno di dolore. L’esistenza appare sempre un esperimento straordinario. Un cammino nell’universo senza un perché.
Come si fa a correggere delle vite con una scossa che sbatte il corpo per un po’ o con una pillola che gira inconsapevole nel corpo prima di uscire dall’intestino crasso? L’esistenza è una combinazione misteriosa tra carne e mondo, tra desideri e sofferenze, tra relazioni che sanno di morte, anche se sorridono come la luna d’estate. La disperazione non è un sintomo, ma l’espressione di un modo di essere nel mondo. Il silenzio è la risposta alla vita, non un acceleratore rotto.
Sentiva la mancanza di quelle vite e del manicomio che le rendeva possibili per non morire. In manicomio i matti consumavano un’esistenza mancata, secondo gli schemi della normalità o del successo, ma l’unica possibile. Non potevano stare nella città della ragione, di cui non capivano nulla e dove ricevevano solo rifiuti, come fossero stranieri sgraditi.
Il delirio è un pensiero che permette ancora di vivere. Se un uomo sente la propria nullità o al contrario pensa di essere un messia, è accolto in manicomio e vive fino a che il suo corpo non cadrà a pezzi. E uno viene sepolto da ma...