1988
«E tu, questo, come avresti fatto a capirlo?» disse Pietro, guardando fuori.
«Come ho fatto a capire che non mi sembri di umore smagliante?» dall’altra parte del filo, la voce appena ironica di Paola Cambi lo sfidò.
«Sì, come hai fatto?» ripeté.
«L’ho capito. Che vuoi da me?»
Sul Lungotevere passò un autobus.
«Io, piuttosto» continuò: stavolta con un breve sospiro, «fra tre minuti devo tornare dentro.»
«Per restarci?»
«Fino alla fine del turno.»
«Poi?»
«Vado a casa, vedo la situazione com’è, e ti faccio un colpo.»
Erano le cinque e mezzo di un pomeriggio della fine di marzo.
Dalla finestra che dava sulla piccola piazza di Santa Caterina della Rota – le altre due affacciavano su via di Monserrato e avevano le tende – i raggi del sole ancora alto al di là del Gianicolo e dei palazzi illuminavano, sulla scrivania di legno chiaro, il foglio infilato nella macchina da scrivere e quelli accanto con gli appunti scritti a mano; la pila dei trattamenti e delle sceneggiature della Delta; due quaderni neri; una cartellina gialla; la vaschetta delle matite e delle penne; racchiusa in una cornicetta d’argento, la fotografia di Giulia Angeli in costume da bagno sulla spiaggia di Anzio.
Qualcuno doveva averla scattata dalla riva. O dal mare. Infatti, dietro al pattino sul quale era seduta, si vedevano gli ombrelloni, le cabine di legno, più in alto la sagoma bianca del Casinò. A giudicare dalla quasi totale assenza di bagnanti – un bambino giocava con un secchiello, lontano – nonché dal fatto che parecchi ombrelloni erano chiusi, l’ora era con ogni probabilità quella fra le due e le tre: quando da ponente cominciava a salire il vento. I remi del pattino, sul manico dei quali, sporgendosi appena in avanti, lei poggiava le mani, toccavano la sabbia asciutta. Il costume era nero. Attorno ai capelli – segno anche questo del vento – un fazzoletto corto, di quelli a poco prezzo che si comprano al mercato, blu o rosso fuoco con i disegnini bianchi, liberava la fronte spianata, donando – se possibile – più splendore al sorriso che le colmava gli occhi, la obbligava a dischiudere le labbra.
In strada non faceva freddo. E neppure caldo. Era una di quelle tipiche giornate di marzo nelle quali, a Roma, primavera e inverno ingaggiano le ultime contese. Attraverso i portoni spalancati, dal fondo dei cortili di via di Monserrato, usciva il soffio a lungo rappreso dell’umidità e dell’ombra; dalla bottega del falegname, veniva l’odore forte del legno; dal vinaio, quello acidulo del vino. In via Giulia, più aperta di via di Monserrato, davanti alle vetrine degli antiquari, luccicavano i sampietrini. Sul Lungotevere, il sole accendeva il verde tenero delle prime foglie sui rami degli alberi. I prati di Villa Borghese erano un tappeto di margherite bianche. Grandi rami di pesco e di mandorlo addobbavano i banchi dei fiori di via Pinciana e di viale Rossini. L’inconfondibile sentore della terra smossa saliva dal giardino di via Adelaide Ristori, quando Pietro arrivò.
«Vieni a vedere» lo anticipò Livia, sulla soglia del cancelletto che avevano aperto da una decina d’anni oramai, sul quale una piccola targhetta in ferro battuto accoglieva il nome del dottor Andrea Sertoli, medico pediatra, assieme a quello dei Montenovesi e degli Angeli.
«Che devo vedere?» le chiese, scuotendo il mento.
«Lui.»
«Che ha fatto?»
«Niente. Però, secondo me, ha gli occhi chiari.»
«Celesti?»
«Penso di sì.»
Avevano raggiunto la carrozzina, frattanto. Un velo d’organza faceva barriera alle api.
«S’è addormentato» disse Livia delusa, «mentre venivo ad aprirti.»
Pietro annuì.
La carrozzina era disposta in modo che anche da quel poco di vento che eventualmente avesse varcato la siepe dell’edera era al riparo. Raccoglieva, semmai, il calore che la giornata di sole aveva consegnato al muro.
Adesso, gli ultimi raggi toccavano i grappoli ancora acerbi del glicine che incorniciava la portafinestra del salotto, la mimosa sfiorita, le violacciocche rosa al bordo dell’aiuola, la camelia, le ortensie. Precipitando dal tubo verde di plastica arrotolato attorno al rubinetto, un esile rigagnolo s’allungava sulle mattonelle. Nell’aria, percorsa a tratti dal canto degli uccelli nascosti nella magnolia, pareva che i suoni avessero un timbro nuovo, più limpido.
«Ti sei reso conto del glicine, quanto è cresciuto?» Livia disse piano.
Pietro si voltò a guardarlo.
«Mamma?» chiese, pure lui piano.
«È in camera da letto.»
In quel momento, il bambino si svegliò.
«Eccolo, Giulio!» Livia esclamò, scostando l’organza.
Quindi, facendo attenzione a che rimanesse avvolto nella copertina di lana, lo prese in braccio; si girò in modo che non avesse il sole contro; e, per sostenergli la testa che ciondolava, accostò il viso al viso.
«Non ti sembrano chiari?» disse.
«Scuri come quelli di Andrea» disse Pietro, «non sono di sicuro.»
«Secondo me verranno tipo i tuoi e quelli del nonno.»
Di nuovo, Pietro annuì.
Erano talmente vicini che poteva sentire il tipico profumo di latte, di borotalco.
«Vuoi tenerlo in braccio?» gli propose Livia.
«In braccio?» mormorò.
«Sì» disse lei ridendo, «non l’hai preso mai.»
Poi, con tutta la copertina, fece per trasferirglielo fra le braccia.
Così, Pietro allungò le braccia; lo tenne un istante sospeso, scrutando ancora una volta questo colore indefinito che doveva diventare o poteva già essere celeste o azzurro; quindi, vedendo che la testa, come prima, non riusciva a tenerla dritta, se lo appoggiò sul petto, e lui, quasi non avesse aspettato altro, gliela reclinò sul collo.
Trascorsero svariati secondi, in tal modo. Un minuto.
Il giardino era silenzioso.
A un tratto, dal fondo della casa, si udì il rumore di una porta e un suono di passi.
«Te lo ridò, Livia» disse Pietro, senza voltarsi. Dopodiché, non appena lei glielo tolse dalle mani, si rimise a posto la stanghetta degli occhiali e, attraverso la portafinestra spalancata, entrò in salotto.
«Ciao, mamma» disse, alzando leggermente il tono.
In piedi, al centro della stanza, accanto alla poltrona sul dorso della quale aveva poggiato la punta delle dita, lei si illuminò.
«E questo» con un sorriso che voleva essere incredulo, disse, «chi è?»
«Questo» rispose, «sarebbe tuo figlio.»
«Mio figlio, chi?»
«Pietro Angeli.»
«Certo… Sei tu…»
Aveva i capelli grigi, tagliati corti, ravviati da un colpo di spazzola; gli occhi infossati nelle orbite; le guance scavate; la fronte solcata da profonde rughe. La gonna le stava larga.
Vedendo che con la punta delle dita continuava a strofinare, in un movimento impercettibile, la fodera color ruggine della poltrona, Pietro si avvicinò e le prese la mano.
«Fammi sentire se è fredda» raccogliendola fra le sue, disse.
«Fredda?» scosse il viso. «Perché?»
«Perché lo dici sempre: ho le mani fredde. O me lo invento?»
Ma lei, stavolta, non replicò. Nemmeno congiunse le labbra nell’espressione diffidente che un tempo le era cara e gli anni avevano trasformato a poco a poco in una sorta di ironico stupore: essendo, codesto guizzo dell’ironia, uno degli ultimi bagliori della coscienza ancora presenti. Piuttosto, provandone evidente piacere – perché erano gelate, in realtà – si lasciò scaldare le dita; dopo una breve resistenza, seguì Pietro verso il divano; quindi, come a volersi ricomporre, sfilò la mano e la intrecciò all’altra che teneva in grembo, poggiò le spalle rigide sullo schienale, e in un punto indistinto fissò il muro.
Tenendo il bambino in braccio, Livia era rientrata nel frattempo, già da un minuto. Adesso, a giudicare dalle parole sommesse che si udivano al di là della parete, lo stava cambiando.
«Ti piace il bambino, mamma?» venendo avanti col busto in modo da poterla guardare in faccia, Pietro domandò.
Lei, col capo, fece cenno di sì.
«Non trovi» la scrutò, «che sia cresciuto?»
Ora, in quella espressione di stupore – come se non avesse capito la domanda, o non osasse rispondere – congiunse le labbra.
«Io» insistette Pietro, «penso che è cresciuto molto.»
«Molto…» ripeté.
Mancava poco alle sette.
Alle sette, la luce non s’era ancora spenta: su piazza Ungheria e su via Ulisse Aldrovandi, sui pini di Villa Borghese, sul Museo Etrusco, sulle pendici boscose che da Villa Strohl Fern scendono verso il giardino in cui è ospitata la sede dell’Accademia Filarmonica Romana, sul Lungotevere e sui tavolini già sistemati all’aperto di fronte all’antico caffè Ruschena provvisto anche di una sala interna da tè, sulla cupola color tortora della chiesa di San Carlo al Corso, il cielo conservava una trasparenza color cenere destinata a prolungarsi per almeno un’altra mezz’ora, in attesa di cominciare a cedere, lentamente, all’oscurità .
Infatti, in un primo momento, parcheggiata la macchina a una cinquantina di metri da Ruschena, Pietro cercò con gli occhi fra i tavolini all’aperto: considerando oltretutto che una bell’aria tiepida, ferma, galleggiava in quello spazio ampio sopra il fiume, in prossimità del ponte che congiunge piazza Cavour con via Frattina e via Condotti. Solo quando fu in procinto di attraversare la strada si rese conto che neppure il fatto che la totalità dei frequentatori del bar se ne stesse pigramente fuori aveva persuaso Guido ad abbandonare l’abitudine di aspettarlo nella sala da tè.
Dunque, varcata la porta a vetri, entrò nella sala da tè, che era abbastanza affollata tuttavia; per un paio di secondi volse lo sguardo intorno; poi, avendolo visto seduto di schiena a un tavolino in fondo alla sala, s’avvicinò, da dietro gli mise una mano sulla spalla, si sedette, depositò le chiavi della macchina sulla sedia che già ospitava il giornale e il cappello, poggiò i polsi sul ripiano di marmo e, da una parte, piegò la faccia.
«Ti trovo bene papà » disse piano, «o mi sbaglio?»
«Ti sbagli, non è vero» con un gesto sconsolato, suo padre lo fermò.
«D’aspetto» insistette Pietro, «stai benissimo.»
«Non è vero» scuotendo il mento, si intestardì.
Aveva ancora il loden indosso; sotto il loden, aperto, la giacca di tweed; sotto la giacca, il cardigan color cammello col quale cercava di tenersi caldo e mettersi al riparo, almeno durante il giorno, dai reumatismi che, assai spesso, la notte non gli facevano chiudere occhio. I capelli, candidi, pettinati con cura, scoprivano sulla fronte stempiata le medesime macchie color tabacco che punteggiavano il dorso delle mani e le dita. Dagli zigomi, in due leggere borse, le guance pendevano in basso. Ma il colore della pelle, roseo, e la concomitante assenza dei baffi che, non molti mesi prima, seguendo una subitanea ispirazione, s’era fatto radere dal barbiere, donavano al viso una vaga espressione infantile, in deciso contrasto con l’età . Così, mentre si alzava dalla sedia per togliersi il cappotto, Pietro lo provocò.
«Hai settantaquattro anni» disse, «e sembri un fanciullo.»
«Figurati!» esclamò.
«Non mi credi?»
Rise: «Sì, sì…».
S’era rimesso seduto, intanto. Incerto se lasciare il cappotto sulla sedia, o usarlo come scudo dello stomaco, lo teneva sui ginocchi.
«Tu, piuttosto…» disse, dopo qualche secondo.
«Io, che?» pure lui dopo qualche secondo, Pietro domandò.
«Le fai sempre quelle trasmissioni alla radio?»
«Sì, le faccio.»
«Per il resto?»
«Lavoro.»
«E basta?»
«Più o meno.»
Quindi, di comune accordo, si voltarono verso il centro della sala, per vedere dove fosse finito il cameriere.
Er...