Uno
La finestra è a qualche metro da noi e davanti a me c’è un letto. Ci dorme una ragazza di diciott’anni. Ha i capelli corti e neri, gli occhi verdi e io la veglio, toccata dalla sua disgrazia, scruto ogni suo piccolo movimento e le racconto storie nella speranza di riempire la scatola della memoria che al momento è svanita come la sua coscienza. Gliele racconto quando siamo sole e al buio, mentre lei è in un dormiveglia che non so dire quanto sia vigile. La notte mi è amica, col suo silenzio avvolgente. Perché di giorno un televisore sistemato su un tavolo angolare di fronte a noi spezza la quiete, ci riempie di schegge di eventi e di accidenti che ci descrivono in modo caotico il caos. Lo ha fatto installare Magdalena, di proposito, per compagnia alla figlia. Per tenerla sveglia.
La ragazza si chiama Federica, è bellissima. Ma essere bella ora non le serve, perché è stata vittima di un terribile incidente. Un impatto violento, mille volte più forte di quello che abbiamo avvertito poco fa contro la finestra e si è accasciata in un sonno profondo simile al coma. Proprio così, racconto storie a una ragazza svanita. Anzi: una storia. La nostra, mia e sua. Perché gliela racconto? Perché ho preso un impegno con la madre. Mi ha chiesto in più momenti di sconforto di operare un miracolo, provare a svegliare la figlia e ridarle ciò che ha perduto, la memoria. Un miracolo che stento a realizzare. Perché io non so fare miracoli, non ne ho mai fatti.
«Un tentativo» ha detto lei, «prova a risvegliarmela.»
Seguo un esempio cui ho assistito molti anni fa, l’esempio di una rimediante, una raccoglitrice che sapeva raccontare e risvegliare. Una certa Ardeniza.
Ogni tanto Federica spalanca gli occhi, agita una mano come l’ala di un gabbiano, ma non credo che abbia coscienza del reale. Lei vive in un altro luogo, in un mondo a parte, dove c’è tutto quello che gli uomini vedono. Ma non c’è quello che gli uomini pensano, ciò che c’era ieri, l’altro ieri, ciò che ci sarà domani. Lei probabilmente non sa chi è, non ricorda chi siamo, cosa ha fatto finora e forse neppure che si chiama Federica. Federica Cacciante. O forse sa tutto questo e non ce ne mette a parte, perché quando prova a parlare emette dei suoni incomprensibili, agita la mano sinistra, perché la destra è paralizzata, come è paralizzata la gamba. Il professor Lamorgese, un uomo minuto e gentile, sostiene che un grumo di sangue le ha occluso la parte del cervello che muove il lato destro del corpo e articola la lingua. Viene a trovarla frequentemente, si trattiene con Bruno Cacciante per ore, dialogano di medicina e del senso della vita.
«La scienza ha fatto grandi passi» prova a consolarlo Vito Lamorgese, è un mezzo efficace per lenire la difficoltà del vivere. Bruno è d’accordo, ma solo in generale, mentre si mostra scettico per il caso della figlia. Perché in altri momenti Lamorgese ha spaventato Bruno e Magdalena dicendo che Federica potrebbe restare così tutta la vita, altri cinquanta sessant’anni o potrebbe chiudere la sua esistenza in soli tre giorni o tre mesi oppure riaversi d’un colpo e stupire tutti. Li ha disorientati. Fortuna che lei riesce a deglutire e a sostenersi. Ma è una foglia appesa a un albero, attraversata da un filo di linfa. E basta. Posso chiamarla vita?
Il passero sbattuto contro il vetro l’ha svegliata. Federica spalanca gli occhi, sbadiglia e sorride al soffitto. Un grappolo di luci gialle, come la coda di una cometa, sta attraversando la finestra. Dev’essere la Sveti Stefan che scende da Dubrovnik, oppure la Sansovino che da Venezia tocca Bar e prosegue per Bari e poi per Patrasso o per Alessandria d’Egitto. Suppongo. Dal mio punto di vedetta, io, Maria delle Battaglie, sistemata tra i soppalchi di una libreria, non posso che supporre. Mentre si formano i pensieri i ricordi le parole dentro la mia casa di legno e nel silenzio provo a pronunciarli, a offrirli a questa povera ragazza che condivide il mio destino, è immobile come me. Posso approfittare per cominciare a raccontarle una storia che la riguarda. La storia di un suo antenato, un Cacciante vissuto tanti anni fa e offeso come lei. Ma più fortunato di lei, perché è riuscito a risollevarsi. Ho pensato che una storia così le possa essere di stimolo, di lievito.
Quelle stelle che attraversano la finestra mi ricordano gli sciami di spari con i quali lui incendiava il cielo. Belisario Maria Cacciante, un artificiere e sparafuoco. Un grand’uomo.
Ma forse devo partire da un altro Cacciante, da Braccio, padre di Belisario; o forse ancora prima, dai suoi nonni, i quali commisero un errore che la gente non tollera, una colpa grave che io non accetto e non condanno, perché la natura cerca tutte le strade per dare corpo alle sue ragioni e l’uomo non sempre riesce ad arginarla. Una storia che ho sentito raccontare in versi da un cantastorie, un certo Colantonio Occhiostracciato, un ortolano di Bovino che sapeva appena leggere e scrivere ma aveva una fantasia fertilissima e compose una lunga ballata. Il cantare in ottave era diviso in tre parti; la prima si chiamava Successo di un amore peccaminoso tra una giovane e un vecchio fisico che nella libertà scoprì il senso del vivere e girò per almeno tre secoli nelle piazze e nelle fiere di mezza Italia; la seconda parte era invece la Crudelissima historia di Braccio Cacciante che assaggiò una nobildonna della quale non doveva, mentre la terza si intitolava Immaginosa historia di Belisario Maria Cacciante e delle macchine di pirotecnia. E ora te le racconterò.
Storia di un desiderio molesto
Nel 1501, mentre i francesi combattevano tra la Calabria e la Basilicata contro gli spagnoli, accadde in tenimento di Lucera un fatto spaventoso tra Laviero Plantamura e sua nipote Maria Trafitta. Colantonio Occhiostracciato così attaccava:
Ascoltate signore e signori
questa storia di un brutto destino
che gettò confusione e dolore
e due amanti alla morte mandò.
Mettiti in mente Federica che proprio quell’anno si scatenò nel regno di Napoli una peste avicola che ammazzò non si sa quante galline. Entravi nei gallinai e trovavi cadaveri, penne e piume dappertutto e nidi sempre più vuoti, tanto che si temette potesse trasmettersi agli uomini. Don Ferdinando Maria Cantarella, un massaro della Daunia, se ne scappò sulle montagne di Deliceto dove aveva una seconda casa di campagna e concepì, tra terrore, lamenti e damigiane di vino che a suo dire tenevano lontana la peste, l’idea che la figlia Maria Trafitta dovesse diventare medichessa.
«Una medichessa?» disse la moglie, Maria Stella Plantamura, dandosi di mani in faccia, «Nanduccio mio, ma è una pazzia pensare una figlia medichessa! È il vino, è tutto questo bere. Non vedete che non vi fa tenere in piedi?»
L’idea le appariva insensata perché a quei tempi non era concesso alle donne di essere iscritte all’università né di seguire corsi presso qualunque medico e toccare e ragionare dei corpi spettava solo ai maschi. In quanto al vino, non vedeva che contadini e carrettieri cantavano tutta la notte nelle campagne sfatti di vino eppure morivano come mosche?
Ma Nanduccio Cantarella era fissato, aveva una paura grande quanto una montagna, una paura che lo aveva accompagnato fino dalla nascita e che si tramutò in terrore quando scoppiò la peste.
Bisogna dire, Federica mia, che questo Nanduccio era nato settimino, la sua vita era stata sempre in bilico, muore e non muore e aveva avuto spesso febbri da cavallo, ora di pancia, ora di gola e ora di crescenza. Perciò stava sempre in mano di medico e sotto la protezione di Nenella Paradiso, una magara che lo sfascinava e gli cacciava il malocchio:
«Tre diavoli t’hanno pigliato
e tre santi t’hanno aiutato
non t’aiuto come a figlio mio
ma come a figlio di Maria».
Dopodiché Nanduccio si lavava la faccia nel bacile e Chiacone, il figlio di Nenella, lo andava a svuotare lontano da casa.
Primo di quattro figli, aveva ereditato la masseria Larotonda, in agro di Lucera, con cento tomoli di terreni, per metà coltivati a seminativi e per l’altra metà incolti; glieli amministrava il gualano Vitonicola Colucci che era sempre sui campi a guidare il lavoro di pastori, pastoricchi e braccianti che alloggiavano con le famiglie nella masseria.
Colucci era una iena, stava sugli operai al lavoro, sui pastori alla mungitura ed era sempre con l’archibugio pronto per scoraggiare sbandati e ladroni che avevano rifugio sul Gargano e veramente faceva gli interessi dei Cantarella.
L’arcangelo Gabriele che custodisce il brogliaccio dei devoti aveva registrato per il giudizio finale a favore di Nanduccio Cantarella queste notizie: «Si tiene da capo a letto un crocifisso di olivo e un reliquiario d’argento con dentro un osso della mano di sant’Oronzo e una scheggia della croce di San Pietro». Ma aveva anche segnato tra le cose negative «Tre cornicelli di corallo di varia misura sparsi dentro le boffette e nei materassi». C’era poi la presenza per casa di Chiacone Paradiso, un gobbo senza mezza orecchia, la faccia squadrata, ma che gli stava sempre a comandi. Per qualunque cosa Nanduccio chiamava Chiacone e posava la mano sulla gobba o cercava Nenella Paradiso per farsi sfascinare e liberare dal malocchio. E quando si diffuse la peste delle galline fece sfascinare prima la masseria e i dormitori, poi le stalle e il gallinaio e infine mandò a chiamare il vicario don Pierino Pistorio per la benedizione della casa. Si manteneva insomma in una fede che era fatta di cielo e di fango.
Chiacone Paradiso aveva una voce stridula e nasale e puzzava non solo di suo, ma anche di vino e di merda di vacca, perché dormiva nella stalla con le bestie e i vaccari per scaramanzia. Occhiostracciato si dimostra meravigliato di questa doppia fede sebbene a quei tempi ne fossero tutti impastati, e canta così nel Successo:
Come si può signori miei cortesi
servire messa insieme a due padroni,
dare cera ai santi e pagar tornesi
al malocchio e alla fascinazione?
Nanduccio Cantarella aveva una sola figlia, Maria Trafitta, per cui rimproverava la moglie a ogni circostanza.
«Io volevo un maschio medico» le diceva, «ma tu non lo sapesti fare.»
Per molto tempo era stato sul punto di sciogliere il contratto di matrimonio, rimandare la donna dalla madre senza i sacconi, la cristalliera e le sartascine avute in dote e guardava la figlia disgustato. Maria Trafitta bella non era, ma brutta nemmeno. Era bianca slavata, alta e magrolina, con una voglia di lampascione sul seno ma che tradiva una voglia di tante cose, perché intelligente era anche troppo ma malauguratamente era femmina. Nanduccio si aggirava nella casa come tra nemici, sempre inquieto. Perciò il giorno di San Giuseppe del 1501 ebbe l’idea pazza di fare medica Maria Trafitta. Contro tutte le leggi. Contro tutte le tradizioni.
«E se mai avvenisse» pianse Maria Stella, «avreste la spudoratezza di farle tastare carni di maschi, di appestati e di pezzenti?» Lei era facile al pianto.
Nanduccio si arrabbiò, la parola “spudoratezza” era troppo forte, una moglie non la dice al marito. Oh se si arrabbiò e urlò che il medico in casa serviva a lui, ma anche a lei. «Mi hai fatto una figlia? E che comodità viene da una femmina?»
«Maria Trafitta vi riempie una casa» continuò Maria Stella, attizzando il fuoco alla varola.
Nanduccio chiamò il cognato, Laviero Plantamura, che era il medico di casa, ma che a lui non bastava, perché voleva una persona più fidata, uno che avesse il coraggio di non ingannarlo sulla sua salute. Perché diffidente era diffidente. Questo cognato non aveva moglie e a sessant’anni si teneva tosto come una sorba.
«Laviero» disse bevendo a garganella dalla cantaruccia di cacc’e mitt, «voi non avete una sorella, avete una strega nata per contraddirmi e darmi veleno. E vi preannuncio che se continua a rispondermi come mi risponde la rimando a casa.»
Laviero era gentile e delicato e passava per uno dal cuore di coniglio, di fronte al cognato si scioglieva e rimproverò immediatamente la sorella, le ricordò che nelle condizioni di bassa fortuna in cui erano caduti i Plantamura non poteva permettersi quell’atteggiamento. E in modo particolare con un marito che aveva tolto loro la fame. Le chiese di scusarsi subito. In effetti Nanduccio Cantarella aveva accolto in masseria con la moglie anche il cognato, al quale passava il denaro per i vizi, ricevendone in cambio assistenza medica.
Maria Stella andò a scusarsi dal marito: «Fate di me e di vostra figlia quello che volete, metteteci sotto i piedi o vendeteci alla fiera che noi siamo le pecore della vostra stalla».
E non smetteva di piangere. Allora Nanduccio chiamò il cognato e gli disse «Accompagnatemi».
«Dove andiamo caro cognato?»
«Accompagnatemi!»
Si misero in calesse dopo aver fatto caricare una damigiana di dieci litri di bianco di Sansevero e di nero di Lucera e andarono a trovare il capitano del battaglione don Mariano Zunica del Carrillo, in una masseria a nord di Lucera, dove il tratturo regio sbucava dalle montagne. Da quella strada arrivavano gli armenti in principio dell’autunno. Venivano a svernare in Puglia Piana dagli stazzi della montagna. Di lì ripartivano in primavera dopo aver visitato la grotta di San Michele sul monte Gargano per raggiungere gli stazzi di provenienza. Perché, cara Federica, devi sapere che gli uomini semplici non hanno mai tenuto lontano i santi dal proprio cuore. E così canta il Successo:
C’era lontano la Mena di Lucera
la comandava un certo del Carrillo.
Fernando venne col fido Laviero
pronto a smussar con oro ogni cavillo.
Si presentarono dunque di tutta lena
a proporre un progetto rio e insano
nelle terre erbose della Mena
e si rivolgono a questo capitano.
Il capitano era custode dei pascoli della Corona Aragonese. Questi pascoli erano stati fino a sei mesi prima in mano ai francesi, poi gli spagnoli, alleati degli Aragonesi, attaccano la Mena e se ne impossessano.
Salendo salendo verso il palazzo della Mena cresceva la puzza di vacca e crescevano le montagne di letame che producevano le mandrie dei pascoli reali.
Don Mariano Zunica del Carrillo era un bestione che si portava un triste ricordo della guerra contro la Francia.
Devi sapere che nel 1494 re Carlo Ottavo, un nanetto incazzoso, era sceso dalla Francia e aveva seminato il terrore nel regno di Napoli. Poi cade da cavallo e schiatta e gli spagnoli comandati da Consalvo di Cordova attaccano da Reggio Calabria il regno e salgono fino a S...