Ragione e sentimento
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Ragione e sentimento

Jane Austen

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Ragione e sentimento

Jane Austen

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Elinor e Marianne Dashwood sono due sorelle legate da un fortissimo affetto, ma dalle personalità profondamente diverse: la diciannovenne Elinor, riflessiva e razionale, osserva con preoccupazione l'indole romantica, impulsiva e sognatrice della sorella minore. Quando il padre muore, lasciandole in una condizione di estrema precarietà economica, la madre teme per il futuro delle proprie figlie. Finché un giorno nella loro vita irrompe l'affascinante Willoughby: colto, galante, impetuoso, non può che rubare il cuore della giovane Marianne. Ma anche la passione più ardente è destinata a scontrarsi con la spietata realtà. Un classico immortale qui presentato in una nuova traduzione, a cura di Beatrice Masini, che rinnova la forza del racconto e la freschezza dei dialoghi del capolavoro di Jane Austen.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858602003

VOLUME PRIMO

CAPITOLO UNO

La famiglia Dashwood si era stabilita da tempo nel Sussex. La loro proprietà era grande, e abitavano a Norland Park, nel cuore della tenuta, dove da molte generazioni vivevano in un modo così rispettabile da meritarsi la buona opinione dei vicini. Il penultimo proprietario era uno scapolo ormai anziano che per molti anni della sua vita aveva avuto una costante compagna e governante nella sorella. Ma la morte di lei, avvenuta dieci anni prima della sua, provocò un enorme cambiamento nel suo modo di vivere, perché per colmare il vuoto di quella perdita invitò e accolse la famiglia del nipote, Mr Henry Dashwood, l’erede legale della tenuta di Norland, a cui intendeva lasciarla. In compagnia del nipote e della moglie, e dei loro figli, i giorni del vecchio signore trascorsero sereni. L’affetto per tutti loro aumentò. La costante attenzione di Mr e Mrs Dashwood ai suoi desideri, che derivava non da interesse ma da autentica bontà d’animo, gli diede ogni genere di conforto che potesse godersi alla sua età, e l’allegria dei bambini aggiunse sapore alla sua esistenza.
Da un precedente matrimonio Mr Henry Dashwood aveva avuto un solo figlio; dall’attuale moglie, tre figlie. Il figlio, un giovane rispettabile e serio, godeva della fortuna della madre, che era stata vasta e che era per metà diventata sua alla maggiore età. E la sua fortuna aumentò grazie alle nozze, che avvennero poco dopo. La moglie aveva una rendita notevole e poteva aspettarsi dell’altro più in là dalla madre, la sola dei genitori in vita, che era piuttosto ricca. Per lui quindi l’eredità di Norland non era importante come per le sorelle; perché la loro fortuna, a parte ciò che sarebbe spettato loro quando il padre avesse ereditato la proprietà, era modesta. La madre non possedeva nulla, e il padre solo settemila sterline, perché anche quel che restava dei beni della prima moglie apparteneva di diritto al figlio, e lui ne riceveva solo un interesse a vita.
Quando il vecchio gentiluomo morì, venne data lettura del suo testamento, che come quasi tutti i testamenti distribuì delusione e piacere insieme. Non fu così ingiusto né così ingrato da sottrarre la proprietà al nipote; ma gliela lasciò in termini tali che l’eredità risultava dimezzata. Mr Dashwood l’aveva desiderata più per il bene della moglie e delle figlie che per sé o per il figlio; invece fu a suo figlio, e al figlio del figlio, un bambino di quattro anni, che passò, in un modo che non lasciava a Mr Dashwood il potere di provvedere a coloro che gli erano più care e che più avevano bisogno di una rendita dalla divisione della proprietà o dalla vendita del legname pregiato dei boschi. Tutto questo fu vincolato a favore del bambino, che nelle sporadiche visite col padre e la madre a Norland si era guadagnato l’affetto dello zio grazie alle tipiche attrattive di tutti i bambini di due o tre anni: un modo di parlare impreciso, un gran desiderio di fare a modo suo, molti furbi giochetti e parecchio rumore, tutte cose che fecero scivolare in secondo piano le attenzioni che per anni il vecchio signore aveva ricevuto dalla nipote e dalle sue figlie. Non voleva tuttavia risultare crudele, e in segno d’affetto lasciò alle tre ragazze mille sterline ciascuna.
Mr Dashwood sulle prime rimase profondamente deluso; ma era di carattere allegro e fiducioso, e poteva ragionevolmente sperare di vivere a lungo e, facendo economia, di mettere da parte una bella somma grazie ai frutti di una proprietà grande e in grado di dare rendite anche più elevate. Ma la buona sorte, che era arrivata così in ritardo, fu dalla sua per soli dodici mesi. Non sopravvisse a lungo allo zio; e tutto ciò che rimase alla vedova e alle figlie, compresi i recenti lasciti, furono diecimila sterline.
Non appena capì di essere gravemente malato, Mr Dashwood mandò a chiamare il figlio e gli raccomandò con tutta l’energia consentita dalla malattia di provvedere alla matrigna e alle sorelle.
Mr John Dashwood non era un uomo di sentimenti intensi come il resto della famiglia; ma fu colpito da un tale ammonimento ricevuto in un momento del genere, e promise di fare tutto ciò che poteva. Il padre fu rassicurato dalla sua rassicurazione, e Mr John Dashwood ebbe modo di riflettere su quanto poteva ragionevolmente fare per matrigna e sorelle.
Non era un cattivo giovane, a meno che essere piuttosto freddi e decisamente egoisti non voglia dire essere cattivi; perché nel compimento dei suoi doveri quotidiani si comportava con decoro. Se avesse sposato una donna più affettuosa, forse sarebbe potuto diventare più stimabile; forse sarebbe potuto diventare addirittura più amabile, perché era molto giovane quando si era sposato, e molto innamorato della moglie. Ma lei era una sua caricatura, di vedute ancora più ristrette e ancora più egoista.
Quando fece la sua promessa al padre, John Dashwood decise di aggiungere alla fortuna delle sorelle un regalo di mille sterline per ciascuna. Era davvero convinto di poterlo fare. La prospettiva di quattromila sterline l’anno da sommare alla rendita che già gli spettava oltre alla metà restante della fortuna della madre gli scaldò il cuore e lo rese capace di slanci. Sì, avrebbe dato loro tremila sterline: che gesto bello e generoso! Sarebbe bastato a consentire loro una vita di agi. Tremila sterline! Poteva ben rinunciare a una somma così importante. Ci pensò tutto il giorno, e per molti giorni ancora, e non se ne pentì.
Il funerale si era appena concluso quando la moglie di John Dashwood, senza annunciarsi alla suocera, arrivò a Norland con il figlio e i domestici. Nessuno poteva discutere il suo diritto di presentarsi; la casa apparteneva al marito dal momento della morte di suo padre; ma la sua insensibilità fu evidente, e a una donna nelle condizioni di Mrs Dashwood che avesse nutrito sentimenti ordinari sarebbe apparso decisamente spiacevole; ma in lei albergava un senso dell’onore così vivido e una generosità così romantica che qualunque offesa del genere, da chiunque fosse imposta o ricevuta, non poteva che essere fonte di insopprimibile disgusto. Mrs John Dashwood non era mai stata amata da nessuno della famiglia del marito; ma fino a quel momento non aveva mai avuto modo di dimostrare lo scarso riguardo per i sentimenti altrui che sapeva manifestare in caso di necessità.
Mrs Dashwood tanto patì un simile comportamento, e tanto per questo disprezzò la nuora, che al suo arrivo avrebbe lasciato la casa per sempre, se le suppliche della figlia maggiore non l’avessero indotta a riflettere sull’opportunità di una partenza così affrettata; e il tenero affetto che provava per le tre figlie la convinse a restare e a evitare per amor loro una rottura col loro fratello.
Elinor, la figlia maggiore che era stata capace di dispensare consigli così preziosi, possedeva un’intelligenza e un equilibrio che a soli diciannove anni facevano di lei la consigliera della madre, e le davano modo di bilanciare spesso, a vantaggio di tutte loro, l’impetuosità di Mrs Dashwood che talvolta la portava a essere imprudente. Elinor era di buonissimo cuore; era affettuosa, e i suoi sentimenti erano saldi; ma sapeva come controllarli: una sapienza che sua madre doveva ancora apprendere, e che una delle sorelle era ben decisa a non farsi insegnare mai.
Le virtù di Marianne erano per molti versi pari a quelle di Elinor. Era sensibile e brillante; però entusiasta in tutto; le sue pene e le sue gioie non conoscevano misura. Era generosa, amabile, interessante; era tutto tranne che prudente. La somiglianza tra lei e la madre in questo era straordinariamente spiccata.
Elinor era preoccupata dalla sensibilità eccessiva della sorella; ma da Mrs Dashwood questo tratto veniva considerato con generosità, e anzi, tenuto caro. In quel momento di dolore Marianne e la madre s’incoraggiarono a vicenda a soffrire di più. Il dolore per il lutto veniva deliberatamente rinnovato, cercato, ricreato. Si consegnavano tutte al loro dolore, cercando una disperazione acuta in ogni riflessione che potesse alimentarla, e si convinsero che mai in futuro si sarebbero potute consolare. Anche Elinor soffriva profondamente; eppure riusciva a reagire, riusciva a sforzarsi. Riuscì a parlare col fratello, a ricevere la cognata al suo arrivo, e a riservarle tutte le attenzioni opportune; e riuscì a tentare di convincere la madre a fare uno sforzo simile, incoraggiandola a manifestare la stessa tolleranza.
Margaret, la terza sorella, era una ragazza allegra e aperta; ma poiché aveva già assorbito un bel po’ del romanticismo di Marianne senza possedere la sua ragionevolezza, a tredici anni non prometteva di uguagliare le sue sorelle, una volta cresciuta.

CAPITOLO DUE

La moglie di John Dashwood si insediò a Norland come padrona e la madre e le cognate vennero degradate alla condizione di ospiti. Come tali, tuttavia, vennero trattate da lei con tranquilla urbanità; e dal marito con tutta la gentilezza che poteva esprimere nei confronti di qualcuno che non fosse se stesso, la moglie e il loro bambino. In verità insistette perché considerassero Norland come casa loro; e poiché per Mrs Dashwood la cosa migliore era restare finché non avesse trovato una sistemazione nei dintorni, l’invito fu accettato.
Restare in un luogo in cui ogni cosa le ricordava la gioia passata era ciò che più le dava piacere. Nelle stagioni della gioia non c’era umore più lieto del suo, e nessuno più di lei possedeva quella sincera attesa della felicità che è la felicità stessa. Ma nel dolore era ugualmente guidata dal capriccio, e inconsolabile quanto nella gioia era inalterabile.
La moglie di John Dashwood non approvava affatto ciò che il marito aveva in mente per le sorelle. Togliere tremila sterline dalla fortuna del loro caro bambino sarebbe equivalso a impoverirlo terribilmente. Così pregò il marito di riconsiderare la questione. Come avrebbe potuto perdonarsi se avesse derubato suo figlio, il suo unico figlio, di una somma così grande? E potevano forse pretendere le signorine Daswhood, legate solo per metà a lui e per lei nemmeno parenti, che fosse tanto generoso? Lo sapevano tutti che non si può nemmeno supporre che esista dell’affetto tra i figli di matrimoni diversi; e perché doveva rovinare se stesso e il loro povero Harry regalando tutto il suo denaro alle sorellastre?
«Me l’ha chiesto mio padre» fu la risposta del marito, «che mi prendessi cura della sua vedova e delle figlie.»
«Io direi che non sapeva quello che diceva; scommetto che vaneggiava. Se fosse stato in sé non avrebbe certo potuto pensare di chiederti di sottrarre metà del patrimonio a tuo figlio.»
«Lui non ha stabilito una cifra, mia cara Fanny; mi ha solo chiesto di assisterle e di rendere le loro condizioni più agiate possibile. Forse sarebbe stato più giusto se avesse lasciato tutto a me, doveva ben sapere che non le avrei trascurate. Ma siccome mi ha chiesto di promettere, non ho potuto non acconsentire: almeno al momento ho pensato così. Quindi la promessa è stata fatta e deve essere mantenuta. Bisogna fare qualcosa per loro quando andranno via da Norland.»
«Be’, allora che si faccia qualcosa; ma questo qualcosa non deve essere una donazione di tremila sterline. Ricorda» aggiunse «che quando il denaro è andato, non può più essere restituito. Le tue sorelle si sposeranno, e sarà perso per sempre. Se invece potesse tornare al nostro povero bimbo…»
«Be’, certo» proseguì il marito, molto serio, «farebbe una gran differenza. Può venire un momento in cui Harry rimpiangerà di aver dovuto rinunciare a una simile somma. Se dovesse avere una famiglia numerosa, per esempio, gli farebbe molto comodo.»
«Certo che sì.»
«Forse allora sarebbe meglio per tutti se la somma fosse dimezzata. Cinquecento sterline sarebbero un immenso contributo alla loro fortuna!»
«Oh! Enorme, direi! Quale fratello sulla terra farebbe anche solo la metà per le sue sorelle, anche se fossero vere sorelle! E invece… lo sono solo per metà! Ma tu sei tanto generoso!»
«Non voglio fare niente di malvagio» disse lui. «In circostanze del genere è meglio fare troppo che troppo poco. Nessuno così potrà pensare che non ho fatto abbastanza per loro: nemmeno loro possono aspettarsi di più.»
«Non c’è modo di sapere cosa potrebbero aspettarsi» disse la signora, «ma noi non dobbiamo pensare alle loro attese: il punto è cosa puoi permetterti di dare.»
«Certo. E credo di potermi permettere di regalare loro cinquecento sterline ciascuna. Così, senza altri contributi, alla morte della madre ciascuna avrà più di tremila sterline: una fortuna notevole per qualunque fanciulla.»
«Sicuro: e penso che non potrebbero volere di più. Avranno diecimila sterline in tutto. Se si sposano staranno bene, e se non succede possono comunque vivere con agio tutte insieme, con gli interessi di diecimila sterline.»
«Verissimo; e quindi forse sarebbe meglio fare qualcosa per la loro madre finché sarà in vita invece che per loro: stavo pensando a una rendita annua. Le mie sorelle godrebbero dei suoi effetti quanto lei. Cento sterline l’anno garantirebbero loro un certo benessere.»
La moglie esitò un istante, tuttavia, nel dare il suo consenso.
«È vero» disse, «è meglio che separarsi da millecinquecento sterline tutte in una volta. Ma se per caso Mrs Dashwood dovesse vivere per altri quindici anni, ci ritroveremmo in difficoltà.»
«Quindici anni! Mia cara Fanny, non vivrà la metà.»
«Certo che no, ma le persone diventano immortali quando c’è da pagar loro una rendita a vita; e lei è molto robusta e sana, e ha appena quarant’anni. Una rendita di quel genere è una cosa molto seria; va avanti, anno dopo anno, e non c’è modo di liberarsene. Tu non sai quello che fai. Conosco bene i guai legati alle rendite, perché mia madre era gravata dall’obbligo di pagarne tre a certi vecchi domestici in pensione, secondo il testamento di mio padre, ed era una cosa molto spiacevole. Bisognava pagare due volte l’anno; e poi c’era il disagio di consegnare la somma; e poi qualcuno di loro pareva fosse morto, e invece non lo era. Mia madre era proprio stufa. La sua rendita non era davvero sua, diceva, con tutte quelle eterne pretese; e mio padre era stato davvero poco gentile, perché altrimenti il denaro sarebbe stato tutto di mia madre, senza vincoli di quel genere. Per questa ragione detesto tanto le rendite annue che non vorrei doverne pagarne una per niente al mondo.»
«È certo spiacevole» osservò Mr Dashwood «che il proprio patrimonio subisca questo genere di perdite ogni anno. La tua fortuna, come dice giustamente tua madre, non è più tua. Essere legati al pagamento regolare di una somma del genere non è per niente desiderabile: ti priva dell’indipendenza.»
«Già; e nessuno che ti dica grazie. Si ritengono al sicuro, tu non fai più di quanto ci si aspetti, e non ne sgorga gratitudine alcuna. Se fossi in te, agirei solo a mia discrezione. Non mi legherei alla concessione di una rendita annua. In certi anni potrebbe essere molto spiacevole dover sottrarre cento o anche solo cinquanta ste...

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