Il sosia
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Il sosia

  1. 237 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Il mite e umile consigliere Jakòv Petrovic' Goljadkin non è quelloche sembra: vive in lui un doppio, un "sosia". Il suo io non è un tutto compatto e unico, bensì un mobile e disintegrabile complesso di impulsi che possono scindersi in altri io, tra loro in alternanzae in conflitto. Il suo sosia non è semplicemente una persona tanto somigliante a lui da poter essere per lui scambiata, ma, come dice la parola russa dvojnik, È la proiezione di un io in un altro io autonomo rispetto al primo. Esistono nel romanzo due Goljadkin che si completanoin quanto totalmente opposti: uno timido e sottomesso, l'altrofurbo e arrivista. E Goljadkin, come spiega Vittorio Strada nell'introduzione, è la patologia dell'uomo qualunque, il primo gradino di quello 'sdoppiamento' che costituisce la malattia dell'uomo moderno".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817028844
eBook ISBN
9788858618707
IL SOSIA
POEMA PIETROBURGHESE

I

Mancava poco alle otto del mattino allorché il consigliere titolare Jakòv Petrovic’ Goljadkin si svegliò da un lungo sonno, fece uno sbadiglio, si stiracchiò e aprì finalmente del tutto gli occhi. Per due minuti, però, rimase a giacere immobile nel suo letto come un uomo non completamente sicuro se sia sveglio o se ancora dorma e se tutto ciò che accade attorno a lui sia realtà o non piuttosto la continuazione di un fantastico sognare. Ma ben presto i sensi del signor Goljadkin ripresero ad accogliere, più chiare e più precise, le consuete, abituali impressioni. Lo guardarono familiarmente le affumicate pareti verde sporco della sua stanzetta, il comò di mogano, le sedie imitazione mogano, la tavola tinta di rosso, il divano alla turca d’incerata rossa a fiorellini verdognoli e, ancora, il vestito di cui in gran fretta si era liberato la sera precedente e che aveva buttato malamente sul divano. Infine una grigia giornata autunnale, cupa e sporca, occhieggiò nella stanza attraverso i vetri appannati della finestra con un’aria così stizzosa e una smorfia talmente acida che il signor Goljadkin non poté più avere alcun dubbio di trovarsi non in un qualche favoloso regno in capo al mondo, ma a Pietroburgo, nella capitale, in via delle Sei Botteghe, nel suo appartamentino al quarto piano di un grande edificio. Fatta una simile importante scoperta, Goljadkin chiuse convulsamente gli occhi, quasi rimpiangesse il sogno di poco prima e desiderasse farlo ritornare, almeno per un momento. Ma un attimo dopo balzò di scatto giù dal letto, colpito finalmente dall’idea attorno alla quale si erano andati aggirando fino a quel momento i suoi svagati pensieri non ancora imbrigliati in un ordine ben stabilito. Balzato appena dal letto, corse verso un piccolo specchio tondo che stava sul comò. Benché la figura assonnata, dalla vista debole e dalla incipiente calvizie, riflessa nello specchio fosse tanto insignificante da non attirare l’attenzione di qualcuno, tuttavia era chiaro che il suo possessore era rimasto soddisfattissimo di tutto quanto aveva veduto nello specchio. “Sarebbe davvero un bell’affare,” disse a mezza voce Goljadkin “sarebbe davvero un bell’affare se proprio oggi non fossi in piena regola, se, poniamo il caso, mi fosse spuntata qualche novità, come per esempio una bella pustola assolutamente inopportuna, o mi fosse capitato qualche altro guaio; del resto, per ora non c’è niente da dire, per ora va tutto bene.” Molto rallegrato che tutto andasse per il meglio, Goljadkin ripose lo specchio dov’era e, nonostante fosse a piedi nudi e portasse ancora addosso gli indumenti coi quali abitualmente si coricava, corse a una finestra e con grande interesse si mise a cercare con lo sguardo qualcosa nel cortile della casa, sul quale si aprivano le finestre del suo appartamento. Era evidente che anche ciò che scorse in cortile lo aveva accontentato, giacché il suo volto si illuminò di un sorriso di soddisfazione. Poi, dopo aver dato una occhiata dietro il tramezzo nel bugigattolo del suo cameriere Petruska e aver constatato che Petruska non c’era, si accostò in punta di piedi alla tavola, aprì un cassetto, si mise a rovistare in un angolo proprio in fondo e finalmente tirò fuori di sotto un mucchio di vecchie carte ingiallite e di certe cianfrusaglie un logoro portafogli verdastro; lo aprì con precauzione e gettò uno sguardo tenero e compiaciuto nel suo scomparto più interno e più nascosto. È probabile che anche quel mucchietto di biglietti verdognoli, grigiastri, azzurrognoli, rossicci e variamente screziati dovette guardare Goljadkin in modo molto affettuoso e consenziente: con viso radioso pose sul tavolo davanti a sé il portafogli aperto e, in segno di grande soddisfazione, si diede una vigorosa fregatine di mani. Infine lo tirò fuori, quel suo confortante mucchietto di assegni governativi, e per la centesima volta, a partire anche soltanto dal giorno prima, prese a contarli facendoli scorrere con gran cura uno dopo l’altro tra il pollice e l’indice.
“Settecentocinquanta rubli di assegnati!” concluse, quasi in un sussurro. “Settecentocinquanta rubli… è una bella somma! È una somma che fa piacere,” proseguì con voce tremante, fattasi più debole per la gioia, stringendo il pacchetto tra le mani e sorridendo in modo significativo “è una somma che fa davvero piacere! Piacere a chiunque! Mi piacerebbe tanto vedere ora una persona per cui questa somma fosse davvero una somma insignificante! Una simile somma può condurre lontano un uomo…
“Ma che vuol dire questo?” pensò Goljadkin. “Dove diavolo è Petruska?” Sempre ancora vestito degli stessi indumenti, diede di nuovo un’occhiata dietro al tramezzo. Petruska non c’era nemmeno ora; c’era invece un samovàr, posato sul pavimento, che s’irritava, si riscaldava, andava fuori di sé, minacciando continuamente di sbollire, e cicalava in fretta e con calore, come se nel suo complicato linguaggio, ciangottando e tartagliando, volesse dire non so che cosa al signor Goljadkin; con tutta probabilità questo: prendetemi, brava gente, io sono stato puntuale e sono perfettamente pronto.
“Che il diavolo se lo porti!” pensò Goljadkin. “Quel poltronaccio di un animale riesce, alla fin fine, a far perdere le staffe a un uomo; dove mai si sarà cacciato?” Pervaso da legittima indignazione uscì nell’anticamera, costituita da un piccolo corridoio in fondo al quale si trovava l’uscio che dava nell’andito, lo dischiuse un tantino e vide il suo servitore, circondato da un abbastanza numeroso gruppo di ogni genere di lacchè, di donnette di casa e di estranei. Petruska stava raccontando qualcosa e gli altri ascoltavano. Evidentemente né l’argomento del discorso né il discorso stesso andarono a genio a Goljadkin. Diede sulla voce a Petruska e tornò in camera sua scontento e addirittura turbato. “Quell’animale è pronto a vendere un uomo per un soldo, e tanto più se si tratta del suo padrone” pensò “e mi ha venduto, certamente mi ha venduto, sono pronto a scommetterlo che mi ha venduto per meno di una copeca. Be’, che c’è?”
“Hanno portato la livrea, signore.”
“Mettila su e vieni qui.”
Indossata la livrea, Petruska, sorridendo stupidamente, entrò nella camera del padrone. Era combinato in un modo strano oltre ogni limite. Aveva indosso una livrea verde molto usata, con galloni d’oro sfilacciati, cucita evidentemente per un uomo di statura superiore di ottanta centimetri almeno a quella di Petruska. Teneva in mano il cappello pur esso con galloni e penne verdi e sul ventre aveva lo spadino da lacchè in un fodero di cuoio. E, per ultimo, tanto per completare il quadro, Petruska, seguendo la sua prediletta abitudine di essere sempre in disordine, alla buona, era anche adesso a piedi nudi. Goljadkin guardò Petruska dalla testa ai piedi e fu evidentemente soddisfatto. La livrea, si vedeva, era stata presa a nolo per qualche solenne occasione. Si poteva anche notare che durante l’ispezione Petruska osservava il padrone con una certa aria di attesa e seguiva con insolita curiosità ogni suo gesto, il che turbava estremamente il signor Goljadkin.
“Be’, e la carrozza?”
“Anche la carrozza è arrivata.”
“Per tutta la giornata?”
“Sì, per tutta la giornata. Venticinque rubli in assegnati.”
“E gli stivali li hanno portati?”
“Anche quelli, sì.”
“Imbecille! Non puoi dire: sissignore, li hanno portati. Dammeli qui.”
Dopo aver espresso la sua soddisfazione perché gli stivali gli andavano a puntino, Goljadkin chiese il tè e l’occorrente per lavarsi e per radersi. Si rase con molta cura e con altrettanta cura si lavò, bevve il tè a grandi sorsate, e si dedicò alla sua importante e definitiva vestizione: indossò un paio di pantaloni pressoché nuovi, poi un pettino con piccoli bottoncini di bronzo, un panciotto a fiorellini vivaci e graziosissimi; si annodò al collo una cravatta di seta a colori e, infine, s’infilò una giacca da divisa, nuova anch’essa e accuratamente spazzolata. Mentre stava vestendosi guardò parecchie volte con amore i suoi stivali, sollevò alternativamente ora un piede ora l’altro, ne ammirò la forma e continuò a borbottare qualcosa tra i denti, ammiccando di tanto in tanto con una smorfietta significativa a un certo suo pensierino. Quel mattino, poi, Goljadkin era straordinariamente svagato, poiché non si avvedeva neppure dei sorrisi e delle smorfiette che faceva Petruska al suo indirizzo, mentre lo aiutava a vestirsi. Finalmente, compiute tutte le formalità necessarie e vestitosi di tutto punto, Goljadkin ripose in tasca il portafogli, ammirò definitivamente Petruska che aveva calzato gli stivali e che era in tal modo anche lui in perfetto assetto; dopo aver considerato che ormai tutto era fatto e che non c’era più motivo per attendere oltre, in fretta e tutto affaccendato si precipitò giù dalle scale non senza un leggero palpitar di cuore. Una carrozza da nolo azzurra, con non so quali stemmi, rotolò con fracasso verso la scaletta d’ingresso. Petruska, scambiando strizzatine d’occhi col vetturino e con alcuni bighelloni che erano lì attorno, fece sedere il suo signore in carrozza; con voce insolita e trattenendosi a stento dal ridere scioccamente, gridò “avanti!”, balzò sul seggiolino posteriore e finalmente il tutto, rumoreggiando e strepitando, tra tintinnii e scricchiolii, rotolò verso il Nevskij Prospèkt1.
L’azzurro equipaggio aveva appena fatto in tempo a varcare il portone che Goljadkin si fregò convulsamente le mani e proruppe in una risata sommessa e silenziosa, proprio come chi, per giocondità di carattere, sia riuscito a giocare a qualcuno un bel tiro del quale egli stesso si compiace infinitamente. Però, subito dopo quell’esplosione di allegria, il riso si trasformò sul volto di Goljadkin in una strana espressione preoccupata. Nonostante il tempo fosse umido e minaccioso egli aprì tutti e due i finestrini della carrozza e prese con aria inquieta a osservare i passanti a destra e a sinistra, assumendo un’aria seria e grave non appena si accorgeva che qualcuno lo guardava. Alla svolta dal Litéjnij sul Nevskij Prospèkt, a causa di una spiacevolissima sensazione ebbe un sussulto e, corrugando il volto come a un poveraccio al quale abbiano inavvertitamente pestato un callo, si rincantucciò in fretta e si direbbe con una certa paura nell’angolo più buio della carrozza. Si trattava di questo, che egli aveva incontrato due suoi colleghi, due giovani impiegati di quel dicastero nel quale egli stesso era in servizio. Anche i due funzionari, così era sembrato al signor Goljadkin, erano, da parte loro, in grande perplessità per essersi imbattuti in quel modo col collega; uno dei due, anzi, aveva perfino indicato col dito Goljadkin. A Goljadkin era sembrato anche che l’altro lo avesse chiamato ad alta voce per nome, il che, si sa, era, per strada, assai sconveniente. Il nostro eroe si era rincantucciato nel suo angolo e non aveva risposto. “Che razza di ragazzacci!” cominciò a ragionare tra sé. “Insomma, che c’è poi di tanto strano? Una persona in carrozza! Una persona aveva bisogno di andare in carrozza ed ecco che ha preso una carrozza. Canaglie, semplicemente! Io li conosco: veri ragazzacci che avrebbero bisogno di frustate! Vorrebbero soltanto giocare a testa e croce con lo stipendio e bighellonare di qua e di là; questo è proprio affar loro. Avrei dovuto dargli qualcosa, solo che…” Goljadkin non finì il suo ragionamento e restò di stucco. Un’agile pariglia di cavallini di Kazan, a lui ben nota, attaccata a un elegante calesse, stava sorpassando rapidamente dal lato destro la sua carrozza. Il signore che sedeva nel calesse, avendo scorto per caso la faccia di Goljadkin che abbastanza incautamente sporgeva dal finestrino della carrozza, sembrava essere rimasto anche lui molto stupefatto di un simile inatteso incontro e, curvandosi il più possibile, gettò un’occhiata carica di curiosità e di interesse nell’angolo della carrozza in cui il nostro eroe si era affrettato a cercare di rimpiattarsi. Il signore in calesse era Andréj Filìppovic’, caposezione in quella stessa amministrazione cui apparteneva anche Goljadkin in qualità di aiuto del suo capufficio. Goljadkin, visto che Andréj Filìppovic’ lo aveva perfettamente riconosciuto e lo guardava con tanto d’occhi, e che nascondersi era ormai impossibile, arrossì fino alle orecchie. “Salutare con un inchino o no? Richiamare la sua attenzione o no? Far capire di essere stato riconosciuto o no?” pensava il nostro eroe in un indescrivibile stato di angoscia: “oppure fare il finto tonto come se non fossi io ma un altro somigliante a me in modo sorprendente e guardarlo come se niente fosse?”
“E veramente non sono io, non sono io e basta!” borbottava Goljadkin, levandosi il cappello davanti ad Andréj Filìppovic’ e senza togliergli gli occhi di dosso.
“Io non ho niente a che fare,” continuava faticosamente a borbottare “non ho assolutamente nulla a che vederci, non sono io, e basta!” Ben presto, però, il calesse superò la carrozza e il magnetico sguardo del superiore scomparve.
Nonostante ciò egli arrossiva ancora, sorrideva, rimuginava qualcosa tra sé e sé… “Sono stato un imbecille a non richiamare la sua attenzione” pensò infine; “sarebbe bastato semplicemente un gesto con un tantino di audacia e di franchezza non priva di nobiltà: ‘Sicuro, Andréj Filìppovic’, le cose stanno così così… sono anch’io invitato al pranzo’, e basta!” Poi, ripensando d’un tratto di aver agito in maniera riprovevole, il nostro eroe si fece rosso come il fuoco, aggrottò le sopracciglia e gettò un terribile sguardo provocante nell’angolo più nascosto della carrozza, uno sguardo destinato a ridurre in cenere, in un colpo solo, tutti i suoi nemici. Infine, di colpo, chissà come ispirato, tirò il cordone tenuto al gomito del vetturino-cocchiere, fermò la carrozza e diede ordine di tornare indietro nella Litéjnaja2. Si trattava di questo, che egli aveva sentito l’inderogabile impulso, probabilmente per sua tranquillità personale, di andare a dire al suo dottore, Krestjàn Ivànovic’, qualcosa di estremamente interessante. E, sebbene conoscesse Krestjàn Ivànovic’ da pochissimo tempo, in quanto gli aveva fatto giusto giusto una sola visita la settimana precedente per motivi suoi personali, tuttavia il dottore, si dice, è come un confessore: sarebbe stupido nascondergli qualcosa e poi, d’altra parte, è dovere suo conoscere bene il paziente.
“Andrà poi bene tutto questo?” proseguì il nostro eroe, scendendo dalla carrozza davanti all’ingresso di una casa a cinque piani sulla Litéjnaja, accanto alla quale aveva dato ordine di fermare. “Andrà bene? Sarà conveniente? Sarà opportuno? Del resto, che cosa c’è,” proseguiva, mentre saliva le scale, ripigliando fiato e reprimendo i battiti di quel suo cuore che aveva l’abitudine di batter forte sulle scale altrui “che cosa c’è? io vengo per fatti miei e di poco conveniente qui non c’è proprio nulla… Nascondersi, sarebbe sciocco. Io, ecco, farò così: fingerò di non voler nulla, ma di essere passato così, come per caso… Sarà lui a vedere che cosa si dovrà fare.”
In tal modo rimuginando tra sé e sé Goljadkin salì fino al secondo piano e si fermò davanti all’appartamento numero cinque, sulla cui porta era infissa una bella placca di rame con la scritta:
KRESTJÀN IVÀNOVIC’ RUTENSPITZ
DOTTORE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Fermatosi, il nostro eroe si affrettò a dare alla sua fisionomia un aspetto corretto, disinvolto, non senza una sfumatura di affabilità, e si accinse a tirare il cordone del campanello. Pronto a tirare il cordone del campanello, immediatamente e abbastanza a proposito rifletté se non fosse più opportuno, dal momento che non c’era gran necessità, di attendere l’indomani. Ma, appena Goljadkin ebbe udito i passi di qualcuno che saliva le scale, di colpo abbandonò il nuovo proponimento, e con l’aria più decisa possibile suonò alla porta di Krestjàn Ivànovic’.
1 Nome dato al grandi viali di Pietroburgo lungo la Neva.
2 Rione di Pietroburgo.

II

Il dottore in medicina e chirurgia, Krestjàn Ivànovic’ Rutenspitz, un tipo di uomo molto robusto benché già anzianotto, con folte sopracciglia e basette brizzolate, sguardo espressivo e sfavillante col quale – col quale solamente, era chiaro – scacciava tutte le malattie, e, infine, fregiato di una importante decorazione, si trovava quel mattino nel suo studio, seduto nella sua accogliente poltrona, intento a sorbire il caffè recatogli da sua moglie in persona e a fumare un sigaro, mentre di tanto in tanto scriveva ricette per i suoi pazienti. Dopo aver prescritta l’ultima boccettina a un vecchietto affetto da emorroidi e accompagnato a una porta secondaria il vecchietto sofferente, Krestjàn Ivànovic’ si rimise a sedere in attesa della visita successiva. Entrò Goljadkin.
A quanto pareva, Krestjàn Ivànovic’ non aspettava per nulla, e tantomeno desiderava, vedere davanti a sé Goljadkin, perché rimase per un momento turbato e involontariamente il suo viso assunse un’espressione strana e, direi anzi, malcontenta. Poiché, dal suo canto, quasi sempre a sproposito, Goljadkin si perdeva d’animo e si smarriva nel punto in cui gli accadeva di avvicinare qualcuno per i suoi privati piccoli affari, così anche in quel momento, non avendo preparato la prima frase che in casi simili costituiva per lui la pietra d’inciampo, si confuse parecchio, borbottò qualche parola – di scusa, con ogni probabilità – e, non sapendo poi che fare, prese una sedia e si mise a sedere. Ma, ricordatosi di essersi accomodato senza invito, comprese la scorrettezza e si affrettò a riparare al suo errore di ignoranza del mondo e del bon ton alzandosi immediatamente dalla sedia occupata senza invito. Quindi, ripresosi e confusamente accortosi di aver commesso due sciocchezze in una, si decise, senza por tempo in mezzo, a una terza: tentò di giustificarsi, borbottò chissà che sorridendo, arrossì, si confuse, tacque in modo espressivo e, finalmente, si rimise a sedere in modo definitivo e non si alzò più; ma soltanto, per qualsiasi evenienza, preparò quel suo sguardo provocante che aveva la non comune forza di incenerire col pensiero e sbaragliare tutti i nemici del signor Goljadkin. Oltre a ciò quello sguardo rivelava in pieno l’indipendenza del signor Goljadkin, diceva cioè chiaramente che il signor Goljadkin non aveva nulla a che farci, che lui era come tutti gli altri e che, in ogni caso, viveva per conto suo.
Krestjàn Ivànovic’ tossì, si schiarì la gola evidentemente in segno di approvazione e di consenso e fissò su Goljadkin uno sguardo indagatore e interrogativo.
“Io, Krestjàn Ivànovic’,” prese a dire Goljadkin con un sorriso “sono venuto a incomodarvi per la seconda volta, ardisco chiedere la vostra indulgenza…” Goljadkin era, evidentemente, in difficoltà per trovare le parole.
“Ehm… sì, proferì Krestjàn ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR
  3. Frontespizio
  4. Introduzione
  5. Cronologia
  6. Il sosia - poema pietroburghese