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Chi inquina il bipolarismo
All’inizio furono i «terzisti», patrocinati dal direttore del «Corriere della Sera», Paolo Mieli: un’eletta schiera di bei nomi della classe dirigente che avevano in fastidio la competizione bipolare e volevano andare oltre. Non si capiva bene dove fosse quest’oltre e infatti l’ipotesi svaporò. Poi venne Silvio Berlusconi in persona. Nella sua esagitazione postelettorale annunciava a corrente alternata sfracelli perché le elezioni non erano state corrette (ovvio: il ministro dell’Interno, la trasmissione dei dati e il valzer dei prefetti a ridosso delle elezioni erano controllati dalla Spectre comunista) e disponibilità per un governo di unità nazionale.
Di punto in bianco, dopo aver condotto una campagna elettorale delle più aggressive nella recente storia d’Italia, lo sconfitto invocava un posto a tavola anche per se stesso. Evidentemente la prospettiva dell’opposizione lo angosciava. Non per nulla ha mantenuto la tensione politica ai livelli massimi, delegittimando in ogni modo il governo: i brogli, i senatori a vita, le elezioni amministrative parziali e, ça va sans dire, i sondaggi. Tutto per dimostrare che a Palazzo Chigi c’era un usurpatore e bisognava restaurare la legalità (sic!). Ma, come sanno coloro che hanno frequentato teoria e prassi della contrattazione, questa offensiva serviva ad «ammorbidire» l’avversario, perché non c’è arma più efficace del sorriso e della affabilità dopo aver mantenuto un alto livello di conflittualità. Il signor B. ha adattato alla politica, ancora una volta con efficacia, schemi collaudati fuori dall’arena politica tradizionale.
E con questi ha irretito gli avversari e controllato l’agenda politica. Solo se teniamo conto del clima in cui l’Italia vive dal 2006, da quando il segretario dei Ds Piero Fassino venne messo in graticola per la diffusione delle intercettazioni della sua conversazione con il boss dell’Unipol Giovanni Consorte, l’ipotesi di un governo di larghe intese ha un qualche senso. Solo e soltanto perché la tensione è stata continuamente alimentata al punto da creare un sentimento di stanchezza e di insofferenza per una politica gladiatoria, ora qualcuno può pensare che, pur di smetterla, si può fare una bella ammucchiata al centro. Basta con le divisioni, basta con le polemiche, e quindi, basta con il bipolarismo e il maggioritario.
Di solito viene indicato l’esempio tedesco per giustificare questa proposta. Niente di più insensato. La Germania è un Paese federale la cui Camera alta (Bundesrat), che rispecchia le variegate maggioranze politiche dei vari Länder, deve approvare molte leggi federali; ma la maggioranza del Bundesrat spesso non coincide con quella della Camera bassa (Bundestag). Per evitare la paralisi esiste un Comitato di mediazione, dove siedono rappresentanti di tutti i partiti, il quale opera come camera di compensazione per trovare compromessi e vie d’uscita. Qualcuno sa indicare dove si realizza, concretamente, questo stile bargaining-oriented in Italia? E qualcuno sa trovare in Germania epiteti equivalenti agli insulti lanciati quotidianamente dai nostri politici italiani senza incorrere in alcuna sanzione, nemmeno morale?
Lasciamo quindi perdere il sistema tedesco che c’entra come i crauti sugli spaghetti. E ritorniamo ai nostri casi. Qual è la ratio di un governissimo? L’unico esempio del nostro passato riguarda i governi dell’arco costituzionale dal Pli al Pci, alla fine degli anni Settanta. Ha senso fare un parallelo tra quegli anni di terrorismo, crisi finanziaria, iperinflazione ecc., e la situazione attuale? Oggi non c’è nulla di simile a quella percezione condivisa di una crisi profondissima e a quel clima di rispetto reciproco tra avversari politici.
Il nostro affanno attuale dipende in primis dalla classe politica. Ma solo da quella a livello nazionale. Vale a dire, sono i dirigenti dei mille partiti e partitini che attizzano la conflittualità politica per ritagliarsi uno spazio e prosperare, o sopravvivere. È il loro comportamento irresponsabile che produce questo clima da guerra civile latente. È la loro cultura politica aggressiva, e sotto sotto anche trasformistica, che inquina il bipolarismo. È la loro proiezione ipertrofica di un ego politico inversamente proporzionale ai consensi elettorali a picconare il maggioritario. La domanda di un governo di larghe intese è quindi frutto della necessità di superare uno stato di conflittualità indotto dagli stessi protagonisti. Un bel paradosso. Prima facciamo a pezzi la convivenza civile e poi la «aggiustiamo» mettendoci insieme. Senza uno straccio di riflessione sul perché si è arrivati a tanto. Anzi, additando nel maggioritario e nel bipolarismo la causa dicendo: «Non sono adatti agli italiani». No: è questa classe politica nazionale, faziosa e aggressiva, che non è matura per il maggioritario e il bipolarismo. E quindi, si accomodi.
4 gennaio 2008
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Chi ha paura del non-voto
Quando si avvicinano le elezioni, l’euforia degli addetti ai lavori – sondaggisti, pubblicitari, giornalisti, opinionisti e analisti vari – stende un velo di ignoranza sui sentimenti dell’opinione pubblica di fronte alla politica.
È vero che alle ultime elezioni politiche si è arrestata la china discendente della partecipazione elettorale, analogamente a quanto accaduto in molti altri Paesi d’Europa; è vero che più di tre milioni di persone hanno partecipato alle primarie per Veltroni – e un numero imprecisato, ma di almeno alcune decine di milioni (!), si sono poi accalcate ai gazebo di Forza Italia; è vero che gli iscritti al Pd hanno già superato il milione e che quelli a Forza Italia sono quasi mezzo milione (cifra meno aleatoria di quella dei gazebisti); è vero che nelle fabbriche il referendum per il contratto dei metalmeccanici ha coinvolto quasi i due terzi dei lavoratori; è vero che il Family Day del 12 maggio 2007 e la manifestazione del centro-destra contro la finanziaria, l’anno scorso, hanno riempito le piazze.
Eppure tutta questa disponibilità alla mobilitazione non si traduce automaticamente in partecipazione elettorale. Il sentimento di lontananza e distacco verso la politica non si attenua solo perché ci avviciniamo al momento del voto. Continua a scorrere un fiume carsico di diffidenza e ostilità nei confronti di tutto ciò che odora di politica. Dove si dirige questa corrente sfiduciata e irosa? Come si orienta quello strato di insofferenti che spazia dalla più assoluta estraneità rispetto al mondo della politica, sentito come un ambito popolato da gesti, parole e messaggi incomprensibili, lontani mille miglia dalla (loro) realtà delle cose, fino al disgusto per tutto ciò che entra in contatto con la politica quasi fosse portatrice di un contagio corruttivo della sana e onesta vita del cittadino? E quindi, e infine: il successo della mobilitazione antipolitica di Beppe Grillo dell’autunno 2007 rimane un episodio, un fuoco di paglia, oppure esprime sentimenti profondi tuttora presenti?
Atteggiamenti negativi nei confronti della politica, dei suoi rappresentanti e delle sue istituzioni continuano a prosperare. Emblematica la vicenda pulcinel-kafkiana dei rifiuti di Napoli, dove nemmeno uno dei più rispettati poliziotti del mondo quale il neocommissario Giovanni De Gennaro riesce a evitare l’eruzione continua della protesta – e l’accumulo dell’immondizia.
Oggi però il contesto politico è mutato. Radicalmente. Quando cambiano le sigle e i simboli, cambiano i leader, e cambia, soprattutto, lo spazio politico, quando cioè «l’offerta politica» si differenzia in modo così marcato rispetto a quella di appena due anni prima, il vento della novità è così forte che obbliga tutto l’elettorato a una ridefinizione delle precedenti appartenenze, anche quella dell’estraneità. Persino chi ha scelto la diserzione dalla politica per fastidio, rabbia o delusione che sia, di fronte alla rivoluzione di questo inizio d’anno è spinto a riconsiderare la propria decisione. La finestra d’opportunità per recuperare l’area del non-voto è grande. La sfida elettorale si gioca anche sulle capacità di penetrare nella corazza protettiva degli «alienati», di chi si tappa le orecchie per non essere disturbato, e di strappare gli «arrabbiati e i delusi» al loro cinismo.
Nel 2006 il leader di Forza Italia era riuscito nell’impresa impossibile di richiamare alle urne le proprie truppe deluse dalle modestissime performance del suo governo grazie a una radicalizzazione estrema della competizione; obiettivo per il quale non aveva lesinato alcun messaggio, dall’abbandonare gli studi televisivi in polemica con l’intervistatrice di sinistra all’arringare gli industriali alla convention di Vicenza, dall’aggredire e infamare gli avversari al promettere mari e monti. Usando potentissime leve simboliche-affettive quali la casa (eli...