
- 265 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La lettera scarlatta
Informazioni su questo libro
Qualche anno fa, il cinema ha prestato ad Hester Prynne, l'eroina della Lettera scarlatta, il volto intenso e seducente di Demi Moore. Ma il sortilegio dell'invenzione narrativa di Hawthorne tocca corde talmente oscure e profonde che è impossibile per i lettori non proiettare almeno una parte di sé su questa vicenda, solo in apparenza stramba e remota, e sui suoi protagonisti. Chi può dirsi al riparo dalla Colpa, sembra chiederci il grande romanziere americano, e libero dal fardello del Segreto? – EMANUELE TREVI
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Informazioni
Print ISBN
9788817016889eBook ISBN
9788858614167LA DOGANA
INTRODUZIONE ALLA LETTERA SCARLATTA
È curioso come io, poco incline come sono a parlare di me e delle cose mie ai miei amici accanto al fuoco, per la seconda volta in vita mia, nel rivolgermi al pubblico, mi lasci vincere da un impulso autobiografico. La prima volta fu tre o quattro anni addietro quando, senza scusa o senza causa alcuna all’infuori dell’indulgenza del lettore e dell’impudenza dell’autore, offrii al pubblico una descrizione della mia vita nella quiete profonda di un vecchio presbiterio. E ora, poiché in quell’occasione, di là da ogni mio merito, fui tanto fortunato da trovare qualcuno che mi ascoltasse, prendo ancora il pubblico per la giacca e gli parlo della mia triennale esperienza in un ufficio di dogana. L’esempio del famoso “P.P., chierico di questa parrocchia”1 non fu mai più fedelmente seguito. Il vero è che l’autore, quando getta al vento i suoi fogli, non si rivolge ai molti che metteranno da parte il suo volume per non toccarlo più, ma ai pochi che lo capiranno meglio di quanto non lo possano i suoi compagni di scuola o i suoi amici. Qualche autore poi si spinge anche più lontano e si abbandona a rivelazioni di carattere tanto confidenziale, quali non possono essere rivolte che a un cuore della cui perfetta comprensione e simpatia si sia certi; quasi che il libro, lanciato per il vasto mondo, sia sicuro di trovare all’altro capo di esso una natura simile a quella dell’autore, per compiere così, in intima comunione con questa, il suo ciclo di esistenza. Un simile abbandono, anche quando si parla in terza persona, non è decoroso, ma poiché, quando chi parla non trova diretta comprensione in chi ascolta, i pensieri si cristallizzano e le parole perdono il loro significato, ci si può immaginare di rivolgerci a un amico, a una persona sensibile anche se non molto intima con noi; allora la nostra innata ritrosia si lascerà vincere da questa illusione, e potremo parlare di tutto ciò che ci riguarda, e anche di noi stessi, senza sollevare il velo che copre il nostro “io” più segreto. Secondo me, solo a questo patto ed entro questi limiti un autore può scrivere di sé, senza violare i suoi propri diritti, né quelli di chi legge.
Si vedrà poi come questa descrizione della dogana, ricollegandosi a quanto è già stato fatto nel campo delle lettere, sia, sotto un certo punto di vista, necessaria, poiché spiega come gran parte delle pagine seguenti sia venuta in mio possesso e prova l’autenticità di quanto in esse viene narrato. Questo infatti – il desiderio cioè di mettere bene in chiaro che ben poco vi è di mio nel più lungo dei racconti raccolti in questo libro2 – questo, e non altro, il motivo che mi spinge a mettermi in diretto contatto col lettore; e per giungere a questo scopo ho creduto opportuno dipingere a rapidi tocchi un genere di vita non ancora descritto da altri, e alcuni personaggi che in esso agiscono, fra i quali, appunto, si trova per caso l’autore.
Ai tempi del vecchio King Derby, Salem, mia città nativa, aveva un porto ricco di traffico, ma ora esso è invaso da decrepiti magazzini di legno e dà solo scarsissimi segni di vita commerciale, se si eccettua qualche maona o qualche brigantino, che va scaricando pollame sul malinconico molo, o, all’estremità di esso, una goletta della Nuova Scozia che alleggerisce le sue stive della legna da ardere in essa accumulata; all’estremità di questo molo in rovina, che spesso la marea sommerge e lungo il quale l’erba incolta, che cresce dappertutto ai piedi delle costruzioni, denuncia anni di squallido abbandono, lì, dico, si drizza un vasto edificio di pietra, le cui finestre guardano su questo panorama per niente incoraggiante e, più oltre, sulla baia. Sul punto più alto del suo tetto, per tre ore e mezzo precise di ogni pomeriggio, garrisce al vento o si affloscia nella bonaccia la bandiera della repubblica, ma una bandiera dalle tredici strisce verticali invece che orizzontali, per indicare come lì vi sia non un ufficio militare, ma un ufficio civile dello Zio Sam. La facciata è adorna di un portico che, sopra una mezza dozzina di colonne di legno, regge una balconata, dalla quale una scala dai vasti gradini di granito discende alla strada. Sulla porta si drizza un enorme esemplare dell’aquila americana, con le ali spiegate, che reca uno scudo sul petto e, se ben ricordo, un fascio di saette e di dardi dentellati mescolati assieme in ciascun artiglio. Con l’abituale brutto carattere che contraddistingue questo infelice pollo, sembra che esso, con l’attitudine battagliera del becco e delle ali e con quel che di aggressivo che promana dal suo aspetto, minacci chi sa quali guai all’inoffensiva comunità, e ammonisca tutti i passanti, se hanno cara la loro incolumità, di tenersi lontani dai luoghi dove si stende l’ombra delle sue ali. Ma, per quanto di cattivo carattere essa paia, molta gente sta, in questo momento, cercando riparo sotto le ali dell’aquila federale, immaginando, suppongo, che il suo petto sia morbido e soffice come un guanciale di piume di cigno. Ma la bestia non è molto tenera, neppur nei suoi momenti di migliore umore e, presto o tardi – meglio presto che tardi – con un colpo d’artiglio, una beccata, o una punta dei suoi dardi, finirà col buttare tutto all’aria.
Nel terreno che circonda l’edificio testé descritto – che possiamo subito chiamare il posto di dogana del porto – spunta tanta erba fra gli interstizi delle pietre che subito si comprende come lì, negli ultimi tempi, non si sia svolta nessuna affollata riunione di affari; ma, in qualche mese dell’anno, capita spesso qualche mattina in cui il movimento si rianima, e allora si riaffaccia alla mente dei cittadini più vecchi il ricordo di quel periodo, prima dell’ultima guerra contro l’Inghilterra, quando Salem era un porto importante, e i mercanti e gli armatori, che ora lasciano cadere i suoi moli in rovina, non l’avevano disertato per andare ad accrescere, senza alcuna necessità e impercettibilmente, quell’enorme flusso di affari che ha i suoi centri a New York e a Boston. In queste mattine, quando tre o quattro navi giungono assieme – di solito dall’Africa o dall’America del Sud – o si preparano alla partenza, si ode un suono di passi affrettati su e giù per la scala di granito. Qui, prima ancora che la moglie lo abbia abbracciato, puoi stringere la mano al nostromo dal viso riarso dalla salsedine, appena giunto in porto, che reca sotto il braccio le carte di bordo in una lucida scatola di zinco; qui incontri il suo armatore, gaio o cupo, cordiale o aspro, a seconda che le sue speranze sul viaggio appena terminato si siano realizzate o no: un carico di mercanzia che può esser subito trasformato in oro sonante o un mucchio di fastidi da cui nessuno si darà la pena di sollevarlo. Qui incontri anche quello che si può chiamare il germe del mercante rugoso, grigio di barba e di umore scorbutico: il giovane apprendista che comincia ad assaporare il gusto del commercio come il lupacchiotto quello del sangue, e già fiuta avventure sulla nave del suo padrone, mentre farebbe meglio a varare barchette di carta in una pozzanghera. Altri personaggi di questa scena sono il marinaio che scende a terra in cerca di protezione o quello che, debole e stanco, chiede un lasciapassare per l’ospedale. Né possiamo dimenticare i capitani di quei malandati brigantini che recano legna da ardere dalle province britanniche, marinai tozzi, senza nulla dell’aspetto svelto degli yankee, ma che contribuiscono a ravvivare un poco la misera vita del nostro porto.
Mescolate tutte queste figure, come talvolta avviene, con altre che rianimino un poco il gruppo, ed ecco la dogana in un giorno di movimento; ma più sovente, salendo le scale, puoi vedere – sulle porte, se d’estate, nelle loro stanze, se d’inverno o durante la pioggia – una fila di venerabili personaggi, seduti su seggiole di tipo antiquato, appoggiate in equilibrio instabile contro il muro con le gambe posteriori. Per lo più sonnecchiano, ma talvolta li puoi udire scambiar parole o brontolii, con quell’inerzia che contraddistingue gli ospiti degli istituti di beneficenza e tutti coloro che traggono i loro mezzi di sussistenza dalla carità, da un lavoro monopolizzato o da qualcosa che non richiede la loro iniziativa personale. Questi buoni vecchi – seduti lì, come Matteo, per riscuotere le gabelle, ma non degni come lui di esser chiamati a una missione apostolica – sono gli ufficiali della dogana.
Più avanti, a sinistra della porta d’ingresso, vi è una stanza d’ufficio, quadrata, di circa quindici piedi di lato, e dal soffitto molto alto, con due finestre ad arco che guardano sul porto in rovina, e una terza che, attraverso uno stretto vicolo, dà sulla Derby Street. Da tutt’e tre si scorgono botteghe di droghieri, di rigattieri, di mercanti di attrezzi navali, e sulla soglia di esse si vedono ridere e cianciare vecchi lupi di mare e quei topi di molo che frequentano abitualmente i porti. La stanza di color grigio smorto è piena di ragnatele; il pavimento è cosparso di sabbia scura, secondo un’abitudine ormai caduta in disuso e, dall’abbandono generale del suo aspetto, si comprende facilmente come questo luogo sia un santuario dove la donna, con quei suoi magici arnesi che sono la scopa e la spazzola, entra molto di rado. Quanto a mobilio, tutto si riduce a una stufa dall’ampio camino, a un vecchio tavolo di pino con accanto una poltrona che possiede solo tre gambe, e tre o quattro sedie di legno vecchie e sgangherate, e, per non dimenticare la biblioteca, a uno scaffale con una quarantina di volumi degli Atti del Congresso e un grosso Digesto sulle leggi dei redditi. Un tubo sottile attraversa il soffitto e serve da mezzo di comunicazione vocale con le altre parti della casa. E in questo ufficio, tu, benevolo lettore, avresti potuto sorprendere, circa sei mesi fa – a passeggio su e giù per la stanza o seduto alla meno peggio sulla traballante poltrona, i gomiti sul tavolo e gli occhi assorti sulle colonne di un giornale – quello stesso individuo che ti ha ricevuto nel gaio studiolo del vecchio presbiterio, dove il sole al tramonto giocava coi lunghi rami degli alberelli fronzuti. Ma se tu ora andassi là per lui, cercheresti invano l’ispettore Locofoco: il turbine delle riforme lo ha cacciato dal suo posto, e un più degno successore riveste la sua carica e incassa i suoi emolumenti. Sia in fanciullezza sia durante l’età matura, ho vissuto a lungo lontano dal mio luogo natale, ma questa vecchia Salem mi ispira, e mi ha sempre ispirato, un affetto di cui mi rendo conto solo quando vivo lontano da essa. E, a dire il vero, per quanto riguarda il suo aspetto materiale – con la sua area piatta e monotona dove esistono quasi unicamente case di legno senza alcuna pretesa di bellezza architettonica, con la sua irregolarità che non è né pittoresca né originale, ma solamente scomoda, con il suo corso lungo e deserto che si stende pigramente attraverso tutta la penisola e che guarda su Gallow Hill e su New Guinea da una parte e sull’ospizio di carità dall’altra – con simili caratteristiche, dico, sarebbe più ragionevole serbare i propri sentimenti per un luogo più piacevole... E benché altrove gusti meglio la felicità, pure mi sento legato a Salem da qualcosa che, in mancanza di meglio, mi limito a chiamare affetto: sentimento questo cui forse non è estraneo il fatto che la mia gente ha lì vecchie e profonde radici. Sono passati circa duecentoventicinque anni da quando il primo emigrante britannico che portasse il mio nome fece la sua comparsa nel vasto accampamento circondato da foreste da cui ebbe origine la città. E qui, i suoi discendenti nacquero e morirono, mescolando le loro sostanze umane alla terra, ed è certo una piccola parte di questa terra che si è connaturata in me e mi accompagna ovunque io vada. Forse questo attaccamento di cui parlo non è altro che misteriosa simpatia della polvere per la polvere. Pochi dei miei concittadini provano questo sentimento, ed è meglio così, perché pare che il movimento sia favorevole all’incremento della stirpe.
Questo sentimento ha probabilmente un sostrato morale. La figura di questo primo antenato, illuminato di fosca e paurosa grandezza dalla tradizione familiare, è sempre stata presente, a quanto io possa ricordare, alla mia immaginazione di fanciullo, ed ancora vive in me, e costituisce una specie di legame fra me e quel passato che tanto poco ha a che fare con la città, quale è oggi. Mi sembra che il mio diritto alla cittadinanza qui sia più forte a causa di questo mio antenato cupo, barbuto, vestito di scuro, dall’alto cappello a cono – che venne in questi luoghi così presto, con la sua Bibbia e la sua spada, che calpestò maestosamente queste vergini strade, che ebbe larga fama come uomo di guerra e di pace – un diritto più forte di quanto il mio viso quasi ignoto e il mio nome quasi sconosciuto possano far presagire.
Fu soldato, legislatore, giudice, fu uno dei rettori della chiesa, ebbe, in bene e in male, tutte le qualità dei puritani; ma soprattutto si distinse quale persecutore, come testimoniano i quaccheri, che lo ricordano nelle loro cronache a proposito della sua severità contro una donna della loro setta, un episodio questo che rimarrà più a lungo, credo, di tutti gli atti degni che possa aver compiuto. Il figlio ereditò da lui lo spirito di persecuzione, e si rese così famoso nell’inventare torture per le streghe, che si dice il loro sangue abbia lasciato una macchia su di lui, una macchia tanto indelebile che le sue ossa debbono ancora recarne una traccia profonda nel cimitero di Charles Street, se pure non sono già state ridotte in polvere. Non so se questi miei antenati si siano pentiti a tempo e abbiano chiesto perdono a Dio delle loro crudeltà o se sopportano ora nell’altra vita il grave peso di esse; comunque io, loro discendente, che scrivo oggi queste pagine, prendo su di me l’onta delle loro imprese e invoco che dalla loro memoria sia per sempre distolta ogni maledizione, quella maledizione che il decadere, per tanti e tanti anni, della famiglia dimostra esistere.
Certo quei due duri e barbuti puritani riterrebbero castigo adeguato alla loro colpa il vedere che, a distanza di secoli, il vecchio tronco della famiglia, ricoperto da così venerabile muschio, non ha saputo produrre, come suo più alto esponente, che un buono a nulla come me. Essi non apprezzerebbero nessuno degli scopi a me tanto cari; nessuno dei miei successi – se pure di successi si può parlare, all’infuori di quelli della vita domestica – parrebbe loro degno di considerazione ed onorevole.
«Chi è?» mormora l’ombra grigia di un mio antenato all’altra. «Scrive libri! Che modo è questo di occuparsi nella vita, di glorificare Dio, di rendersi utile all’umanità? Meglio se avesse fatto il suonatore ambulante!» Questi sono i complimenti che i miei antenati e io ci scambiamo attraverso l’abisso del tempo! Mi disprezzino pure, ma molte tracce di quello che fu il loro carattere si sono trasmesse fino a me.
Piantata saldamente su questi due gravi ed energici uomini sin dal sorgere della città, la mia razza ha continuato a restarvi, degna di rispetto sempre, perché, a quanto so, mai nessun membro di essa compì qualcosa di men che onorevole, ma, d’altro canto, dopo le prime due generazioni, senza alcuna di quelle imprese memorabili che richiamano l’attenzione del pubblico. A poco a poco i membri di essa scomparvero dalla scena, come quelle vecchie case che talvolta, qua e là lungo le strade, spariscono sotto la nuova terra che si va accumulando sul luogo. Da padre in figlio, per più di cento anni, furono tutti marinai; in ogni generazione un canuto quartiermastro si ritirava dal ponte della nave al suo focolare domestico, mentre un fanciullo di quindici anni occupava il suo posto ereditario di fronte all’albero maestro, fronteggiando gli spruzzi salsi e le raffiche che avevano infuriato contro suo padre e suo nonno. Quando arrivava il suo momento, il ragazzo passava dal castello di prua alla cabina, viveva una tempestosa virilità e ritornava dai suoi vagabondaggi attorno al mondo per invecchiare, morire e mescolare la sua polvere a quella della terra nativa. Questa comunione di una famiglia con un luogo dove da generazioni essa nasce e muore, crea fra questa località e...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Occhiello
- Frontespizio
- Introduzione
- La lettera scarlatta
- Sommario