Si chiamava Ginni. Non riesco a dimenticare il suo sguardo mortificato e umiliato degli ultimi giorni. La memoria si impunta su quegli occhi come un mulo testardo. È il senso di colpa che si fa vivo come al solito nella mia mente instupidita dalla sorpresa? La terribile colpa del morire, come dice Marlowe.
La cagnolina bianca e nera, la setterina che ha abitato con me per tanti anni è morta ai primi di agosto, proprio un giorno prima che io partissi per la montagna. Era malata da qualche mese e il veterinario, con le maniche azzurre rivoltate sui polsi pelosi, mi aveva detto «Non c’è più niente da fare, la sopprimsiamo?»
«No, non voglio sopprimerla» ho risposto mentre le lagrime mi scivolavano sulle guance senza quasi che me ne accorgessi. Solo una volta ho acconsentito alla barbara abitudine dell’“iniezione risolutrice” e me ne sono pentita amaramente. Continuo a ricordare gli occhi del mio affettuosissimo spinone che molti anni fa, mentre lo carezzavo nella fredda sala chirurgica, mi si rivolgeva con un “perché” disperato negli occhi gentili e supplici. Aveva una cancrena e non avrebbe vissuto più di due giorni, così diceva il medico, ma perché non lasciargli quei due giorni? Gli ho tenuto la testa mentre si spegneva, e il suo sguardo tenero si faceva sempre più buio. Da Pinolo lo spinone, il cane più allegro che ho avuto, maniaco dei sassi, che si precipitava pure nel fuoco per raccogliere la pietra lanciata, ho imparato che intervenire sulla vita dei nostri amici animali è un arbitrio crudele.
Chi stabilisce quando è l’ora di fare morire un cane o un gatto? La scusa di solito è che “soffre tanto” e quindi lo si uccide per “togliergli le sofferenze”. Così si suole dire. Ma il cane non ha chiesto di andarsene, come potrebbe fare un uomo. Il cane ha i suoi tempi di passaggio dalla vita alla morte e questi tempi andrebbero rispettati. Troppe cose che riguardano i nostri compagni di vita vengono decise da una parte sola, con la ipocrita scusa che “a lui fa bene così”.
Chi ha detto per esempio che il cane deve mangiare una sola volta al giorno? Tanti veterinari lo sostengono, razionalizzando un nostro piccolo comodo tutto umano. Il cane, quando è costretto ad un solo pasto al giorno, si avventa sul cibo come un disperato e lo divora in pochi secondi rischiando l’indigestione, mentre la pancia gli si gonfia a dismisura. Si suole dire che è per il suo bene, ma in realtà sappiamo che è il nostro bene che vogliamo difendere: a noi fa comodo trafficare il meno possibile. Pensate: scaldargli la pappa di mattina e poi di nuovo di sera, ma che fatica! Diamogliela una volta sola e così il problema è risolto.
Con la stessa sbrigativa brutalità si decide poi che, se il cane sta molto male, lo si manda direttamente all’altro mondo, senza rispettare i suoi tempi, senza curarlo fino a quando è possibile, senza salutarlo e accompagnarlo verso l’altra riva con umanità e tenerezza.
Il cane ha diritto alla sua agonia come tutti gli esseri viventi. C’è un tempo per vivere e un tempo per morire. E noi non possiamo accorciare con un tratto sbrigativo questo suo tempo perché abbiamo fretta, perché la sua sofferenza ci dà fastidio, perché i suoi dolori ci rattristano, perché la sua agonia ci disgusta. La malattia non è mai bella da vedere né da trattare. Piangere un morto è più facile e anche più dignitoso, come pensano molti, veterinari inclusi, che assistere allo sfacelo di un corpo che perde la sua integrità. Ma esiste una sacralità del morire che non dovremmo dimenticare in nome delle esigenze tutte moderne di rapidità e anonimità.
L’affetto si dimostra anche col sacrificio, mi sono detta, e per questo ho continuato a curare la mia Ginni, fasciandola e sfasciandola due volte al giorno, medicando le sue piaghe, nutrendola per quel poco che accettava di mangiare o di bere, lavandola con l’acqua tiepida, disinfettandola e cospargendola di crema lenitiva. Si era ridotta tutta pelle e ossa negli ultimi giorni, ma ancora quando mi vedeva entrare batteva leggermente la coda sul pavimento di legno.
Ginni aveva un tumore alla mammella che non era più operabile, così per lo meno mi hanno detto diversi veterinari. E forse il tumore le era venuto da una sterilizzazione malfatta. Impossibile saperlo con certezza. La cosa sicura è che un seno aveva cominciato a gonfiarsi, a gonfiarsi e poi si era piagato. Ma questo nel mese di luglio. Prima stava bene: passeggiava, mangiava, saltava, e dormiva beatamente sui suoi cuscini sparsi per la casa.
L’avevo lasciata per andare due giorni fuori per lavoro. Prima di partire ho chiamato il medico, non quello che la voleva “abbattere”, ma un altro, più giovane e più comprensivo, che capiva il mio rifiuto di “spegnerla” anzitempo, per sapere se avrebbe resistito ancora qualche giorno. E lui mi ha detto che sì, poteva resistere anche più del previsto, forse addirittura un mese perché aveva il cuore solido, e continuava le sue funzioni vitali: mangiare anche se pochissimo, bere, dormire, andare di corpo. «Parta pure tranquilla.»
Così ho preso il treno lasciandola nelle mani affettuose della mia segretaria. Ma il giorno dopo lei mi ha telefonato dicendo che non mangiava più. E proprio poche ore prima che tornassi mi ha telefonato ancora dicendo: «È morta la povera Ginnina, non ce l’ha fatta».
Per questa previsione sbagliata non ho potuto salutare la creatura più dolce che abbia mai conosciuto. Incapace di aggressioni o prepotenze, pronta a tutta le feste, i giochi, le affettuosità. Speravo di portarla con me in montagna, lì dov’era nata e cresciuta. Ma lei, quasi non volesse disturbarmi col suo male, se n’è andata prima, con silenziosa discrezione.
Più di tutto al mondo amava passeggiare fra i prati e i boschi. Quando stavamo nella mia casa di Pescasseroli lei aveva l’abitudine di starsene sdraiata su un grosso cuscino sotto la mia scrivania. Spesso appoggiava il muso sul mio piede come per non interrompere un contatto che avrebbe voluto eterno. Quando si avvicinava l’ora della passeggiata però diventava inquieta. Si alzava, girava per lo studio. Senza mai disturbare, mai abbaiare né guaire. Alle sei meno cinque d’estate e a mezzogiorno d’inverno si avvicinava alla mia sedia e prendeva a spingere, ma con estrema delicatezza, il muso contro il mio braccio, come a dire: beh, quando smetti di scrivere che dobbiamo andare a passeggiare?
Appena aprivo la porta si slanciava fuori con un balzo e poi, muso rasoterra, si lanciava in avanscoperta, fermandosi ogni tanto con la zampa alzata, a ricordo di una sua lontana infanzia di cacciatrice.
Eppure, quando l’ho conosciuta, il padrone la trascurava perché diceva che non era buona a nulla. «Mentre suo fratello caccia proprio bene, lei si distrae, mi allontana gli uccelli anziché stanarli al momento giusto.» Fatto sta che la lasciava molto sola, si era persino dimenticato di toglierle un collarino di metallo che le aveva saldato addosso da piccola e che ora le stringeva penosamente il collo.
Ginni aveva preso l’abitudine di girare per le case del vicinato chiedendo affetto e attenzione. Veniva anche da me. Io la carezzavo, le davo qualcosa da bere quando mi sembrava che avesse sete, le parlavo come ad una persona. E lei sempre più spesso correva a visitarmi. Grattava alla porta ed entrava in cucina dove si sedeva e mi guardava cucinare. Non sembrava tanto interessata al cibo quanto alle mie uscite. Appena mi infilavo il giaccone cominciava a saltare e non era contenta finché non me la portavo a fare lunghe camminate fra i faggi del parco.
Non abbaiava mai. Tanto che io pensavo fosse muta. Invece poi ho scoperto che la voce ce l’aveva ma non la usava che raramente. Solo quando si sentiva ingiustamente esclusa, isolata dietro una porta, o lasciata in disparte per lungo tempo, poteva finalmente tirare fuori una voce ululante e rabbiosa.