Introduzione
Perché un libro sul regime proprio quando il regime sembra declinare? Conosciamo l’obiezione: l’Italia di Berlusconi non è mai stata un regime, né tantomeno lo è oggi che Berlusconi è in difficoltà e rischia di perdere le elezioni politiche del 2006, dopo aver perduto le europee e le amministrative del 2004. Noi invece pensiamo che il regime ci sia, e che proprio ora, più che mai ora, sia il caso di descriverlo per quello che è, di mettere nero su bianco le sue imprese di questi primi tre anni. Conoscerlo meglio senza dimenticare nulla può essere utile per combatterlo meglio, finché siamo in tempo: l’idea di aspettare che caschi da solo pare riduttiva. Se poi, nel 2006 o quando sarà, il regime cadrà, ricorderemo com’era nato e si era consolidato, magari per sviluppare quel vaccino che Montanelli invocava per immunizzarci dal rischio di una ricaduta. Se invece sventuratamente il regime non cadrà, capiremo meglio perché.
Parlare di «regime» nel 2004 significa descrivere un sistema politico che viola il primo comandamento della democrazia liberale: la separazione dei poteri e il reciproco controllo degli uni sugli altri. Non significa evocare il ritorno del fascismo. Quello è un ferrovecchio, figlio del suo tempo e della sua ideologia bacata. Questo è un regime moderno, anzi postmoderno e postideologico. La prima degenerazione di una democrazia occidentale dopo il crollo del muro di Berlino. Un «regime mediatico», per dirla con Indro Montanelli e Giovanni Sartori. «Plutomediatico», come lo chiama Franco Cordero. Un regime fondato sullo strapotere del denaro e sul monopolio dell’informazione. Infinitamente meno trucido e meno tragico dei totalitarismi del XX secolo, anche perché nella storia le tragedie si ripetono sotto forma di farse. Ma, a suo modo, più subdolo e insidioso, proprio per il suo volto sorridente, anzi ridanciano, e per le sue virtù innate di camuffamento. Il regime berlusconiano è come il diavolo di Baudelaire: riesce a convincere i suoi nemici che non esiste. Al massimo – si dice – è un cattivo governo, perché è «di destra» e perché fa disastri. Ma non un regime, per carità. Dunque non lo si combatte per quello è. Lo si affronta dialogando quando fa cose buone e contestando quando ne fa di cattive. Come fanno le sinistre in Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti quando governano i conservatori, e viceversa. Ma questo atteggiamento delle opposizioni è proprio quello auspicato dal regime.
Il regime mediatico non ha bisogno di carri armati, squadracce, spedizioni punitive, manganelli, olio di ricino e confino. Provvede a tutto, con i medesimi risultati, la tv. I golpisti di un tempo, molto più sinceri ed espliciti, per prima cosa occupavano le sedi del Parlamento, del governo e della televisione. Berlusconi le possiede e/o controlla tutte, dunque non ha bisogno di occuparne alcuna. E quel poco che non possiede e/o non controlla riesce a condizionarlo con mille armi. Come fece con Montanelli nel ’94, addirittura prima della «discesa in campo» ufficiale, quando costrinse il più grande giornalista d’Italia a lasciare il giornale che aveva fondato vent’anni prima. Pareva dovesse accadere un cataclisma, invece non accadde nulla. Così, nel 2001, il Cavaliere ricominciò da dove aveva interrotto eliminando gli altri ostacoli. Allungò persino le grinfie sul «Corriere della Sera», rendendo la vita impossibile al direttore de Bortoli, colpevole soltanto di lasciar liberi i cronisti dei processi «toghe sporche», fino a indurlo alle dimissioni.
Perché mai un simile concentrato di poteri dovrebbe sguinzagliare miliziani e picchiatori? Sarebbe, oltreché inutile, controproducente. La gente capirebbe di vivere in un regime e si comporterebbe di conseguenza. Oggi le epurazioni non si fanno più col sistema obsoleto del confino nelle isole: i cittadini aprirebbero gli occhi. Molto più semplice cancellare dal video i personaggi sgraditi, perché il loro esempio serva di lezione a tutti coloro che non vogliono fare la stessa fine. Perché spedire Biagi a Ventotene, quando si può lasciarlo tranquillamente nel suo ufficetto di galleria Vittorio Emanuele a Milano, col risultato di farlo comunque sparire? Perché confinare Santoro in qualche isoletta, quando si ottiene lo stesso risultato lasciandolo in via Teulada, a Roma, avendo cura di non farlo più avvicinare a una telecamera accesa? Se poi qualcuno parla di censura, il regime dispone di un serbatoio inesauribile di alibi, di scuse, di false giustificazioni per dimostrare che censura non è, e di sinonimi per chiamarla in un altro modo.
Analogamente, per punire e neutralizzare gli oppositori (almeno quelli sgraditi) non occorrono manganelli, olio di ricino e altri arnesi ormai fuori moda e troppo vistosi. Bastano i telekiller, con le loro campagne mediatiche fondate sulla calunnia per distruggere la reputazione e piegare la schiena ai magistrati, ai giornalisti, ai politici, agli intellettuali, agli attori scomodi. Il manganello degli anni 2000 è il tubo catodico. È più efficace l’operazione Telekom Serbia con il calunniatore di Stato Igor Marini (il peracottaro dipinto per mesi a reti unificate come «supertestimone» di sicure tangenti finite nelle tasche dei leader dell’opposizione) che una manganellata in una strada buia. In una democrazia matura l’informazione televisiva avrebbe smascherato quella patacca in mezza giornata e sottolineato che i beneficiari dell’operazione sono coinvolti nel più grave caso di corruzione giudiziaria (documentalmente provata, non inventata) della storia d’Europa. In Italia c’è voluta una lunga indagine della magistratura torinese, del tutto ignorata dalle tv, tant’è che tutt’oggi milioni di italiani sono convinti o almeno nutrono il dubbio che il falso testimone Marini avesse ragione e sia stato ridotto al silenzio da un oscuro complotto delle toghe rosse, mentre la vera testimone Stefania Ariosto passa per una poco di buono insieme a chi le ha dato retta.
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Guardiamo il secondo governo Berlusconi. Il curriculum dei ministri e lo scarto fra promesse elettorali e risultati ottenuti ne fanno il peggiore della storia della Repubblica: nemmeno il primo, non foss’altro che per la breve durata, era riuscito a fare peggio. Eppure, nonostante i continui smottamenti, il Padrone riesce a tenerlo in piedi. Con una terapia a base di lusinghe e minacce. Appena qualcuno, come Marco Follini, dà segni di indipendenza, ecco la voce del Padrone: ti faccio sparare e poi sparire dalle mie tv. Una frase che nessun capo di governo democratico al mondo potrebbe mai pronunciare, perché non c’è al mondo un solo capo di governo democratico che possieda anche lo zero virgola uno di una televisione. Infatti, nelle democrazie normali, i cattivi governi – anche molto meno cattivi del nostro – cadono in breve tempo. Il nostro no. Il nostro stabilisce il record di longevità della storia della Repubblica. E anche quando il premier, al minimo storico di popolarità, perde 4 milioni di voti e 9 punti percentuali, questi finiscono nelle tasche dei suoi alleati: nemmeno uno in quelle delle opposizioni. Il tutto mentre nel resto d’Europa governi molto meno infami perdono molti più voti. Non sarà perché i governi del resto d’Europa non controllano le televisioni e quello italiano sì?
Il caso spagnolo è emblematico: Aznar, alla vigilia del voto, racconta che gli attentati di Madrid sono opera dell’Eta pur sapendo che sono targati Al Qaeda. Tutte le televisioni, anche quelle di area governativa, lo sbugiardano a reti unificate. E il partito di Aznar, ultrafavorito fino alla vigilia, viene sconfitto dall’outsider Zapatero. Circostanza che semina il panico in Italia, dove la prospettiva di perdere le elezioni per una sola bugia del premier è piuttosto agghiacciante. Ma quali televisioni potrebbero mai sbugiardare il premier, in un paese dove non sono le tv a controllare il premier, ma è il premier a controllare le tv? «Nelle dittature – scrive Sartori – il dittatore mente quanto vuole senza tema di smentite. Manca il modo per smentirlo: il dittatore comanda su tutti i media, e ne dispone a suo piacimento [...]. In Italia anche la tv “di tutti” è imbavagliata; il che consente a Berlusconi e alla sua squadra di mentire senza “spazio di controprova”, senza par condicio per le smentite. Si capisce, a mentire ci provano tutti. Ma dove la tv è autenticamente libera le bugie hanno le gambe corte, mentre da noi hanno gambe lunghissime. La verità, sulla nostra tv, non è accertabile».
Anche qui conosciamo l’obiezione: ma Berlusconi, nel ’96, le elezioni le ha perse. Certo. Ma un’elezione può essere truccata a prescindere dal risultato. Se anche fosse vero – come sostengono i minimalisti – che il monopolio tv «vale» pochi punti percentuali, in un paese dove due terzi dell’elettorato usano soltanto la tv per informarsi e farsi un’opinione senza mai aprire un giornale né un libro, ciò basterebbe a concludere che le elezioni del ’94, del ’96 e del 2001 non furono regolari: perché uno dei due candidati ne controllava, nel migliore dei casi, quattro su sei e, nel peggiore, cinque su sei. E il suo avversario non ne possedeva nessuna e ne influenzava, al massimo, una o due. «Se Mussolini avesse avuto la tv» diceva Montanelli «sarebbe ancora qui». E allora la vera domanda è: quanto «vale» Berlusconi al netto delle televisioni? Quanto avrebbe perso Berlusconi nel ’96 senza le tv? E siamo certi che, nel ’94 e nel 2001, avrebbe vinto ugualmente? Nel ’94 le tv gli servirono per «vendere» il prodotto di un partito messo in piedi in pochi mesi contro un pericolo – quello «comunista» – del tutto virtuale: impresa proibitiva anche per un De Gaulle, senza l’ausilio dei teleschermi. Nel 1996, dopo cotanto fallimento, al Cavaliere mancarono i voti della Lega Nord, non certo i suoi. Nel 2001 la minestra era...