Terzo inverno
Febbraio 2002
Era notte piena. Il mio aereo decollava alle 5:43. Avevo coperto di lenzuola tutti i mobili, come faceva mio padre quando andavamo fuori per un periodo lungo, e i miei bagagli erano già pronti all’ingresso.
Sono uscita nel buio pieno delle urla dei gabbiani, ho chiuso la porta dietro di me e con in spalla lo stesso zaino di due anni prima mi sono incamminata lungo la stessa stradina, ma stavolta nella direzione opposta. Arrivata al pontile accanto alla spiaggia mi sono seduta sulla valigia ad aspettare. Peccato che il bar fosse ancora chiuso: era freddo e sarei entrata volentieri a bere il mio ultimo cappuccino per chissà quanto tempo. Ero in anticipo ma già iniziavo ad agitarmi all’idea che Silvestro col suo barchino mi facesse fare tardi.
Un po’ mi spiaceva partire, anche se sapevo che sarei tornata a Venezia dopo pochi mesi. Il secondo anno di università era stato un po’ meno solitario del primo: avevo iniziato a mangiare più spesso in compagnia e a uscire di più la sera. Liuba la vedevo almeno due volte a settimana, perlopiù per esercitarmi con il russo. Cominciavo a volerle bene anche se spesso sembrava non rendersi conto che per me certe cose erano importanti e che non amavo ci si scherzasse sopra, mentre certe altre proprio non mi piacevano. Non riuscivo a convincerla che la mia non era una posa.
Così uscivo spesso con lei, con Simone e gli altri. Ogni tanto c’era anche Silvestro. Quando lo sapevo prima, trovavo una scusa per non andare, ma più di una volta era capitato di dover passare una serata anche con lui. E la mia opinione che fosse una persona tutto sommato tronfia e vacua aveva sempre trovato conferma.
Pensavo a lui molto di rado o tutt’al più quando lo citava Liuba, ma anche questo non succedeva spesso. Sapeva che non andavamo d’accordo ed evitava, per quanto possibile, di parlarci l’uno dell’altra. Almeno, immagino che con lui facesse lo stesso.
A quell’ora eravamo gli unici in giro per la laguna. Faceva freddo e neanche i grossi schizzi d’acqua che mi arrivavano in faccia riuscivano a svegliarmi. Eravamo usciti da una festa piuttosto divertente. Con Liuba andavamo spessissimo alle feste. Lei non aveva mai sonno ma ora, mentre guidavo con gli occhi semichiusi, mi si era addormentata addosso.
Eccola là , Camilla, appollaiata su una valigia arancione.
Mi hanno fatto salire e senza dire quasi niente siamo partiti verso Tessera. Era bello andare in laguna, di notte. Vedevo la mia isoletta allontanarsi e pensavo all’isola di Arturo, e poi alla sera che ero arrivata a Venezia e avevo incontrato Silvestro sul vaporetto, e ovviamente a Mosca, a come sarebbe stato vivere lì.
Io stavo a prua come una bambina e la barchetta rimbalzava sull’acqua. Guardavo avanti, mentre lui guidava e Liuba gli sonnecchiava sulla spalla.
Non vedevo l’ora di infilarmi a letto. Chissà se avrebbe mai fatto una cosa del genere per me, lei. Neanch’io in realtà l’avrei fatta, se non m’avesse costretto Liuba.
Avrei anche chiesto a Francesco di accompagnarmi all’aeroporto ma negli ultimi mesi l’avevo visto molto meno. Avevamo fatto delle lunghe passeggiate, ma sempre meno lunghe e sempre meno frequenti. A sentire concerti nelle chiese eravamo andati in quell’anno credo non più di tre volte.
In quell’anno con Silvestro non mi era mai capitato di parlarci davvero. Non litigavamo, ma neppure andavamo d’accordo. Ci evitavamo. Ma in quel momento non volevo pensar male perché, anche se sicuramente costretto da Liuba, mi stava accompagnando in aeroporto.
Mi sembrava vagamente di ricordare che da quelle parti ci fosse una secca. Ma avevo sonno e ho fatto finta di niente.
Non sapevo ancora se avrei studiato proprio con Korsakov oppure no. Era la prima volta che andavo in Russia. Non sapevo cosa aspettarmi: seminari in fumose aule di legno con ragazze e ragazzi che discutono animatamente diˇCechov e Olga Knipper, di Stanislavskij e Gorkij. Lunghe passeggiate nel gelo, tra i palazzoni della Tverskaya. E non so, una transiberiana con tanta gente conosciuta lì. Magari un ragazzo.
Mi sarei subito messa a cercare casa, intanto avevo preso una stanza in una specie di ostello.
Loro non si sono accorte di niente fino all’ultimo istante, fino a quando non siamo volati per aria. Io invece l’ho capito qualche momento prima, ma a quel punto non potevo fare più nulla: non hanno i freni le barche. Forse avrei potuto urlare, si sarebbero preparate, ma non ci ho pensato.
Non mi sono resa conto di niente. Semplicemente mi sono ritrovata in acqua.
Era pieno di alghe e sentivo male a una gamba, ma non mi pareva di essermi fatto niente di grave. Stranamente l’acqua non sembrava tanto fredda, forse perché in effetti era più freddo fuori. Vicino a me c’era Camilla. Mi si aggrappava. Cercava di trattenere dei gridolini ridicoli. Cercava di non mostrarsi spaventata, però non le riusciva bene. E questo, ripensandoci, mi ha fatto un po’ di sadica tenerezza.
Lui era molto più agitato di me. Si muoveva tutto e mi si aggrappava, per poco non mi affogava. Poi però mi sono accorta che toccavo e mi sono tranquillizzata. Allora di colpo mi sono ricordata: l’aereo. Ce la faccio a prendere l’aereo? D’un tratto pensavo solo a quello.
Sicuramente Camilla avrebbe perso l’aereo. Ma in fondo io le stavo facendo un favore ad accompagnarla a quell’ora. E se non avesse insistito Liuba, e se non fossimo comunque stati in giro, col cavolo. Quindi adesso non era colpa mia se lo perdeva: se non voleva rischiare poteva prendere un taxi.
Camminando qualche metro nel buio si arrivava ad avere l’acqua sotto al ginocchio.
Ci siamo arrampicati, appoggiandoci uno all’altra, su una specie di cucuzzolo umido. E solo a quel punto mi sono accorto che non sapevo dove fosse Liuba.
L’abbiamo chiamata. La prima cosa che ha detto era in russo: si è scusata perché il suo ragazzo era uno scemo e mi avrebbe fatto perdere l’aereo. Ma ho capito quasi subito che in realtà si era fatta male, forse anche molto male.
Mi sono sentito una brutta persona. Con Liuba tutto si era sempre svolto giorno per giorno, ma in quel momento mi sono trovato a chiedermi cosa volessi dal nostro rapporto, ed era chiaro che non c’era tra noi, probabilmente neanche da parte sua (o almeno così mi raccontavo), qualcosa di necessario, di intimo e di puro.
Credo che la polizia lagunare e l’idroambulanza siano arrivate abbastanza presto, ma a me sono sembrate ore.
Ci hanno caricati entrambi, tutti bagnati e insalsicciati nelle coperte, sull’idroambulanza con Liuba. Lei aveva molto freddo, tremava e si lamentava sottovoce in russo. In quel momento sentivo davvero di volerle bene. Nelle cose importanti Liuba, di solito esagerata e arruffona, era estremamente sobria, equilibrata e direi anche profonda.
Guardavo in basso l’acqua nera scorrere velocissima e pensavo che forse Liuba si era fatta veramente male. Mi chiedevo soprattutto quanto di reale ci fosse tra noi. Se fosse morta, mi dicevo, avrei dovuto chiamare io i genitori? Sarebbe stato giusto che li chiamassi io?
Mi sentivo colpevole perché l’avevo sempre considerata, in fondo, con una certa superiorità e non le avevo mai permesso di entrare in ciò che per me era importante, dicendomi che non l’avrebbe capito. E forse in parte non l’avrebbe capito davvero, in parte invece probabilmente sì.
Silvestro ha interrotto i miei pensieri urlando qualcosa di incomprensibile sull’incidente.
Venezia mi piace perché sembra un grande salotto disordinato in cui niente di realmente brutto può succedere. Un posto dove ci sono le idroambulanze non è un posto serio. In senso buono: non è un posto dove la gente soffre e muore, ecco. Ci sono le idroambulanze! È come se ti portassero in ospedale con il tappeto volante: è chiaro che quella storia della morte è tutta una fesseria. Su questo riflettevo dentro quella strana barchetta bianca ...