La figlia del Capitano
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La figlia del Capitano

  1. 194 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La figlia del Capitano

Informazioni su questo libro

Il maggiore e più celebre testo narrativo di Puskin che racconta la vicenda di un giovane ufficiale e della figlia del capitano, sullo sfondo storico della rivolta dei cosacchi, contro la zarina Caterina.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
Print ISBN
9788817172882
eBook ISBN
9788858614280
LA FIGLIA DEL CAPITANO
Custodisci l’onore fin da giovane
Proverbio1
1 L’epigrafe al romanzo è tratta (in modo abbreviato) da una raccolta di proverbi posseduta da Puškin: Raccolta di 4291 proverbi e detti russi, 3ª ediz., Mosca, 1787.
CAPITOLO PRIMO
IL SERGENTE DELLA GUARDIA
«Sarebbe della guardia domani stesso capitano.»
«Non occorre: servizio presti nell’esercito.»
«Ben detto! Che si travagli un po’...»
[...]
«Ma chi è suo padre?»
KNJAŽNIN2
Il padre mio, Andrej Petrovič Grinjov,3 nella sua gioventù aveva servito sotto il conte Minich,4 ed era andato in pensione da primo maggiore nel 17... Da allora era vissuto nella sua campagna di Simbirsk, dove aveva anche sposato la signorina Avdot’ja Vasil’evna Ju., figlia d’un nobile povero del luogo. Eravamo nove figli. Tutti i miei fratelli e sorelle morirono nell’infanzia. Mentre mia madre era incinta di me, io fui iscritto nel reggimento Semjonovskij5 come sergente, grazie al maggiore della guardia principe B., nostro prossimo parente. Se contro ogni aspettativa mia madre avesse partorito una bambina, il papà avrebbe dichiarato a chi di dovere che il sergente non era comparso, e la cosa sarebbe finita lì. Io venni considerato in congedo fino alla fine degli studi. A quel tempo non ci si cresceva al modo di oggi. Dall’età di cinque anni fui messo in mano allo staffiere Savel’ič, datomi come aio per la sua sobria condotta. Sotto la sua vigilanza, nel dodicesimo anno, imparai a leggere e scrivere il russo, e potevo assai rettamente giudicare delle qualità d’un levriero maschio.
A quel tempo il babbo prese per me un francese, mossié Beaupré, che fecero venire da Mosca con l’annuale scorta di vino e d’olio d’oliva. La sua venuta spiacque molto a Savel’ič.
«Grazie a Dio,» egli bofonchiava tra sé «il bimbo è, sembra, lavato, pettinato, nutrito. Che bisogno c’era di spendere denaro d’avanzo e prendere un mossié, come se ci mancasse gente nostra!»
Beaupré nella patria sua era stato parrucchiere, quindi in Prussia soldato, poi era venuto in Russia pour être outchitel,6 senza capir molto il significato di questa parola. Era un buon ragazzo, ma sventato e sregolato all’estremo. Sua principale debolezza era la passione per il bel sesso; non di rado a causa delle sue tenerezze riceveva spintoni pei quali gemeva le ventiquattr’ore sane. Inoltre non era nemmeno, secondo la sua espressione, un nemico della bottiglia, cioè, a dirla in russo, gli piaceva vuotarne un po’ tanto. Ma poiché da noi il vino si serviva solo a pranzo (e solo un bicchierino a testa), in occasione di che il precettore solitamente veniva, il mio Beaupré si abituò prestissimo all’acquavite russa, e cominciò perfino a preferirla ai vini della sua patria, senza confronto più salutare per lo stomaco. C’intendemmo subito, e, sebbene per contratto fosse tenuto a insegnarmi il francese, il tedesco e tutte le scienze, egli preferì svelto svelto imparare da me a masticare il russo, e, dopo, ciascuno di noi due si occupava ormai dei fatti propri. Vivevamo in perfetta armonia. Né io desideravo altro mentore. Ma ben presto il destino ci separò, ed ecco per qual vicenda.
La lavandaia Palaška, una ragazza grossa e butterata, e la guercia vaccara Akul’ka si accordarono per gettarsi a un tempo ai piedi della mamma, accusandosi di colpevole debolezza e lagnandosi in pianto di mossié, che aveva circuito la loro inesperienza. Alla mamma con queste cose non piaceva scherzare e se ne dolse col babbo. Egli fece pronta giustizia. Mandò subito a chiamare quella canaglia di francese. Gli riferirono che mossié stava dandomi lezione. Il babbo venne nella mia camera. In quel momento Beaupré dormiva sul letto il sonno dell’innocenza. Io ero occupato in una faccenda. Bisogna sapere che per me era stata fatta venire da Mosca una carta geografica. Essa pendeva alla parete senz’uso di sorta, e da un pezzo mi aveva tentato per l’ampiezza e la bontà della carta. Avevo deciso di farne un aquilone e, approfittando del sonno di Beaupré, mi ero messo all’opera. Il babbo entrò proprio mentre adattavo una coda di corteccia al Capo di Buona Speranza. Vedendo il mio esercizio di geografia, il babbo mi tirò un orecchio, poi corse da Beaupré, lo svegliò senza tanti riguardi e prese a caricarlo di rimbrotti. Beaupré, piccino piccino, voleva sollevarsi e non poteva: il disgraziato francese era ubriaco fradicio. Una le paga tutte. Il babbo lo sollevò per il bavero dal letto, lo spinse fuori della porta e lo cacciò via quello stesso giorno con indescrivibile gioia di Savel’ič. E così terminò la mia educazione.
Vivevo da fanciullo, inseguendo i colombi e giocando a cavallina coi monelli della servitù. Frattanto compii sedici anni. Qui la mia sorte mutò.
Una volta in autunno la mamma cuoceva in salotto della confettura al miele e io, leccandomi le labbra, guardavo ribollire la liquida crosta. Il babbo presso la finestra leggeva il Calendario di Corte, da lui ricevuto ogni anno. Questo libro aveva sempre su lui un forte influsso; non lo rileggeva mai senza un particolare interesse, e quella lettura sempre gli procurava uno stupefacente rimescolio di bile. La mamma, che sapeva a memoria tutte le sue usanze e consuetudini, cercava sempre di ficcare il malcapitato libro il più lontano possibile, e in tal modo il Calendario di Corte non gli veniva sott’occhi a volte per interi mesi. In compenso, quando per caso lo trovava, non se lo lasciava più scappare di mano per ore intere. E così, il babbo leggeva il Calendario di Corte, alzando di tanto in tanto le spalle e ripetendo sottovoce: «Tenente generale!... Nella mia compagnia era sergente!... Cavaliere dei due ordini russi!...7 Ma è un pezzo che noi?...». Infine il babbo scagliò il Calendario sul divano e s’immerse in una meditazione che non presagiva nulla di buono.
D’un tratto si rivolse alla mamma:
«Avdot’ja Vasil’evna, ma quanti anni ha Petruša?».
«Ma, ecco, ha compiuto il sedicesimo» rispose la mamma. «Petruša nacque lo stesso anno che perdette l’occhio zia Nastas’ja Gerasimovna, e quando ancora...»
«Bene,» interruppe il babbo «è ora di fargli prender servizio. Deve smetterla di correre per le stanze delle serve, e di arrampicarsi sulle colombaie.»
Il pensiero d’una prossima separazione da me colpì talmente la mamma, che lasciò cadere il cucchiaio nella casseruola, e le lacrime le colarono. Invece è difficile descrivere il mio entusiasmo. Il pensiero del servizio militare si fondeva in me coi pensieri della libertà, coi piaceri della vita pietroburghese. Mi figuravo ufficiale della guardia, il che, secondo la mia opinione, era il colmo della felicità.
Al babbo non piaceva né mutare i propri disegni, né differirne l’esecuzione. Venne fissato il giorno della mia partenza. Alla vigilia il babbo dichiarò che intendeva scrivere per mio mezzo al futuro mio superiore, e chiese penna e carta.
«Non dimenticare, Andrej Petrovič,» disse la mamma «di salutare anche da parte mia il principe B.: io poi spero che lui non priverà Petruša dei suoi favori.»
«Che sciocchezza!» rispose il babbo, aggrottando le ciglia. «A che proposito mi metterò a scrivere al principe B.?»
«Ma se hai detto che volevi scrivere al superiore di Petruša!»
«Eb...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Introduzione
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. La figlia del capitano
  8. Note
  9. Appendice
  10. Sommario