Spostare l'orizzonte
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Spostare l'orizzonte

Come sopravvivere a quarant'anni di vita rock

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Spostare l'orizzonte

Come sopravvivere a quarant'anni di vita rock

Informazioni su questo libro

Indisciplinato, sognatore, istrionico, disordinato, romantico, idealista, altamente infiammabile. Sempre sopra le righe, a partire dall'infanzia e dai genitori — un nobile lombardo e una cantante lirica americana — bizzarro mix che l'ha dotato di un'educazione insolita, instillando in lui fin da piccolo un senso di diversità rispetto agli altri ma anche una visione artistica unica. Tutto questo (e molto di più) è Eugenio Finardi, la cui vita è stata segnata da grandi successi professionali ma anche da momenti tragici, come la nascita della figlia Elettra, affetta da sindrome di Down. Eugenio racconta senza pudori il rapporto con lei, la sua disperazione e la difficoltà come padre di rispondere alle domande sulla sua diversità. "Ci sono canzoni" scrive "che esprimono in tutta la sua drammaticità la condizione di smarrimento in cui eravamo sprofondati." Ma è proprio la musica che gli permette di affrontare anche questa battaglia. Dagli esordi negli anni Settanta passando dalle grandi hit come Extraterrestre e Musica ribelle, fino alle odierne esibizioni alla Scala, Finardi ripercorre insieme a Antonio G. D'Errico la sua carriera musicale. E dimostra come si possa mantenere una propria rotta interiore anche nel turbolento mare del presente, obbedendo al comando del cantante e poeta russo Vysotsky: "Trova il punto estremo e sappilo varcare e vedi di spostare l'orizzonte".

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1

Solo le emozioni sanno stupire, anche quando non sono più novità. Sono riposte da qualche parte, nel cuore o nella mente, come dimenticate, ma all’occorrenza capaci di riaffiorare come ricordo, come nostalgia, per farci ritrovare il senso della bellezza di un tempo che ci è sfuggito.
Le emozioni rinnovano intime verità, sentimenti segreti, desideri mai confessati.
Tutto questo si ritrova nel fondo degli occhi di Eugenio Finardi.

Quando mi apre la porta di casa il suo volto si illumina, la bocca disegna un sorriso che è dolcezza e piacere per l’incontro. Cerco di scorgere nel suo sguardo gentile una reazione intima, un’esitazione per il confronto che lo attende con me.
Ho rimuginato per tutto il tragitto da un capo all’altro di Milano su come mi sarei dovuto presentare per non apparire troppo in ansia per questo appuntamento. Mi sono ripetuto, banalmente, di limitarmi a essere semplice e naturale. I dubbi sono rimasti, però.
Eugenio rompe ogni indugio invitandomi con il braccio teso a sedere sul divano del piccolo salottino, che si apre davanti a noi, delimitato da una lunga e bassa libreria che attraversa il salone per buona parte della sua larghezza, colma di libri d’arte, mi pare di notare dando uno sguardo ai volumi ammassati sopra i ripiani.
Do anche un’occhiata allo spazio oltre la libreria, dove risaltano alla vista dipinti di grosse dimensioni attaccati alla parete in fondo al salone: raffigurano paesaggi, simboli e scene di vita della Russia zarista, in uno stile riconducibile alla scuola del Realismo.
Addossata alla parete laterale del salone, invece, corre per tutta la lunghezza un’altra libreria, con pregevoli titoli in bella evidenza. Non mancano mensole stipate di cd e di vinili antichi e moderni. Nei ripiani superiori, gli spazi sono occupati da chitarre e altri strumenti: tamburi di ogni dimensione, grandi e piccoli, di chiara provenienza africana; e soprattutto un delizioso violino, piccolissimo, quasi una miniatura.
Una porta ad arco si apre su un corridoio che immette in altre stanze.
Eugenio guarda per un attimo fuori dall’ampia vetrata che dà sul terrazzo. Appare preoccupato per le condizioni del tempo. Spera che non peggiori, mi dice, malgrado le nuvole siano già nere di pioggia. Forse è affannato per un pensiero che l’ossessiona; un ritmo piuttosto, un giro di contrabbasso che gli fa eco in testa, come un sottofondo, una colonna sonora. Sorride, d’un tratto, mimando con le mani e con la bocca, facendo ampi gesti con le dita, pizzicando sulle corde spesse della tastiera immaginata, gorgogliando in gola gli accordi. «È il blues che ritorna» soffia magnificamente tra i denti, sedendosi.
Mi siedo anch’io, accanto a lui.
Eugenio è pronto per raccontarsi.
Il blues avrà smesso di ronzargli in testa?
Gli chiedo dell’America, della sua anima americana. Non so perché, ho sempre pensato che fosse nato in America.
Si scuote relativamente, come se avesse fatto l’abitudine a quell’errore riguardo alle sue origini.
«Sono italiano, nato in Italia» ribatte prontamente. Accompagnano le sue parole umori palpitanti nelle fibre del collo, sugli occhi, sopra gli zigomi. «Mia madre è americana. » Si interrompe, si passa le mani sulle gote e sulla fronte, poi le intreccia, estende la schiena inarcando il torace. «Aspetta.» Si alza. Va verso la libreria, appoggiata alla parete laterale.
Lo osservo nello specchio, chiuso da una grande cornice dorata, posto sopra il camino di fronte.
Mi alzo, gli vado incontro.
Eugenio ha preso in mano un cofanetto voluminoso.
Ci risediamo sul divano.
Estrae dal cofanetto due libri antichi. Uno lo posa sul tavolo, l’altro lo apre e comincia a sfogliarlo. Legge una dedica posta in copertina a mo’ di ex libris: «A Lucietta Gerosa». Gira le pagine. È lo spartito autografo di alcune arie ed esercizi vocali di Gaetano Donizetti. Prende il secondo volume dal tavolo, lo apre e lo sfoglia come ha fatto con l’altro. Anche questo contiene pagine dello stesso autore. Mi dice che il grande compositore bergamasco dava lezioni di musica a una sua antenata, Lucietta Gerosa. «Viene tramandato ai musicisti della famiglia.» Lo dice con un certo orgoglio e un’ansia trattenuta, di responsabilità.
Chissà che giro ha fatto all’interno della famiglia, mi chiedo, prima di arrivare tra le sue mani.
Eugenio posa i libri sul tavolo e prende un foglio dal fondo del cofanetto, lo apre e me lo porge. Leggo: «Membri della famiglia Finardi che hanno fatto parte del Maggior Consiglio della città di Bergamo sotto il dominio della Repubblica Veneta dall’anno 1568 all’anno 1800». Segue un elenco di signori Finardi di Bergamo.
«Vengo da questa famiglia antica» mi spiega riprendendosi il foglio con tanto di timbro stampato e firmato in calce dall’autorità dell’epoca. «Sono uno degli ultimi rappresentanti della stirpe. Sembra quasi un paradosso, eppure ho dovuto assecondare un certo orgoglio familiare dettato dal ritenersi eredi di un antico e nobile casato.»
«Chi della famiglia, in particolare, hai dovuto assecondare? E in che modo avresti aderito a questo orgoglio familiare?»
Resta a pensare, come volesse mettere ordine nei ricordi; ma l’espressione è di chi non ha piacere di rinnovare sensazioni e richiami remoti, che potrebbero accendere rimpianti o delusioni. Inizia a parlare di suo padre, lo fa con serietà, manifestando tutto lo stupore di un’apertura che non aveva previsto. «Mio padre è nato nel 1909, ultimo di nove figli. Quando era ancora molto giovane, intorno al ’20 se non ricordo male, mio nonno, che era notaio, ha dichiarato fallimento. E quindi si sono trovati poveri in canna, pur con tutto l’onore da salvare. Durante la Prima guerra mondiale tre dei suoi fratelli erano al fronte, ufficiali degli Alpini a combattere per la patria, cui vennero donate le fedi e l’oro di famiglia. La prima volta che mio padre ha visto un aereo erano gli austriaci che volavano con dei biplani sopra Bergamo, bombardandola con ordigni a mano. Trent’anni dopo è passato in bicicletta per corso Vittorio Emanuele, a Milano, con i palazzi tutt’intorno che bruciavano per i bombardamenti alleati» resta sospeso con le parole e con lo sguardo, che fissa per terra, e poi solleva verso la finestra.
Sembra che cerchi un filo logico dentro un intrico di cose familiari che sfuggono alla memoria, che si accavallano con altre più recenti, altre più remote. Sembra perdersi in emozioni che ritornano come immagini nitide, che vorrebbe farmi vedere come le vede lui, con l’ombra della malinconia di un tempo ormai lontanissimo.
Riprende con il racconto: «Mio padre è stato un grande testimone del suo tempo, aderendo con tutto lo spirito e il valore agli ideali dell’epoca. Un illuminista, un liberale vero! Era di un’onestà e di un rigore che è difficile trovare nella società civile del nostro tempo, questo tempo tradito da uno squallido modo di essere e rappresentarsi».
L’interrompo: «È un’allusione a una specifica categoria di uomini di questo tempo?».
Mi guarda, incerto: «Io intendo quella che dovrebbe essere la nostra società civile, la classe dirigente italiana» le labbra si chiudono in un leggero sospiro di delusione, visibile nello sguardo acceso di rancore appena soffocato. «Ma la borghesia italiana ha tradito se stessa e i suoi valori, abbassando tutto al livello del denaro. Una volta, mi ricordo, avevo circa dieci anni, ho chiamato serva la nostra collaboratrice domestica. Non so, per qualche cosa che mi aveva fatto. Mi tirava certi schiaffi. Maria, così si chiamava.» Trattiene per un attimo il respiro. «Mio padre mi ha rifilato una sberla che mi ha fatto rintronare la testa come una campana. Poi mi ha urlato contro: “Che io non ti senta mai più trattare così una persona che lavora per te otto ore al giorno e quando ha finito qui va a casa e lavora ancora per dare un futuro ai suoi figli! Per gente così tu non devi avere che rispetto! Se devi prendertela con qualcuno fallo con chi è più forte di te”.» La voce si fa flebile, rotta appena dalla commozione. Si raccoglie in se stesso, poi sussurra con tono di rimpianto: «Di lezioni come questa mio padre me ne ha date tantissime. E non sempre me ne sono ricordato in vita mia, purtroppo...».
«Ti emoziona parlare di tuo padre?» chiedo, per dar tregua a quell’affanno.
«Mi emoziona molto, sì» risponde, recuperando la serenità nella voce e nello sguardo. «Mio padre è molto presente nella mia coscienza» si fa intenso, come sentisse il richiamo e il peso di quella coscienza. Poi sorride, inaspettatamente, e riprende in tono divertito e giocoso, raggiunto da un’altra immagine del padre. «Mio padre ne ha viste davvero di tutti i colori... Ha persino invaso la Svizzera, da tenente, con i suoi Alpini» ride. «Si trovavano sull’Alta Via del Monte Rosa, lui al comando del suo plotone, c’erano i muli che andavano piano. Arriva una tormenta, allora dice ai suoi di andare avanti. Avrebbe condotto personalmente i muli che rallentavano la marcia, e si sarebbero trovati al rifugio. I fanti vanno avanti, sbagliando strada. Lui arriva al rifugio, ma i suoi non ci sono. Oddio, sgomento: “Non ci sono, non ci sono... Si torna indietro...”. Vede che, al bivio, le impronte nella neve vanno verso la Svizzera. Si mette in marcia e le segue. A un certo punto si trova di fronte a un ufficiale e ad alcuni soldati svizzeri coi fucili puntati contro i suoi, presi quasi prigionieri. Con il suo fare rigoroso di vecchia scuola ottocentesca, mio padre allora si rivolge in tedesco all’ufficiale: “Ho l’impressione che siamo davanti a un equivoco. Me ne assumo personalmente la responsabilità e mi scuso solennemente. Non avrei dovuto lasciare soli i miei uomini!”. L’ufficiale svizzero riconosce un gentiluomo e ne comprende il disagio: la bufera, il freddo, la neve. Con le scuse reciproche e un buon cordiale tutto rientra nell’ordine naturale delle cose.»
«In che anni siamo?» chiedo, poiché in tutto questo spaziare tra i secoli alla fine faccio fatica a collocare gli avvenimenti nell’epoca giusta.
«Siamo in pieno fascismo, primi anni Trenta» chiarisce. Poi riprende con un altro fatto curioso, ritrovando il piacere del sorriso. «Ha conosciuto Einstein, mio padre... ha frequentato casa sua... Se vuoi ti racconto anche questa!»
«Certo che voglio» rispondo, divertito dalla sua manifesta euforia.
Mi spiega dapprima, come premessa, che il padre è stato tecnico del suono, che ha lavorato nel cinema. A ventiquattro anni era a Roma, solo e senza famiglia. Gli studi della Caesar Film dovevano scegliere il sistema di sonoro da adottare in Italia, così mandarono quel giovane bergamasco prima a Berlino, per verificare il sistema in uso alla Siemens, e poi a Hollywood. «Siamo nel ’35» continua col tono disteso. «Mio padre era stato a Berlino a provare la tecnologia dei tedeschi, ma aveva anche visto l’incendio del Reichstag e l’ascesa del nazismo» scuote la testa. «Dopodiché va a Los Angeles. Nel viaggio in piroscafo, come lo chiamava lui, incontra un professore di Princeton che con i suoi allievi ha passato l’estate in Europa. Diventano amici, come può succedere a chi fa un lungo viaggio insieme per mare. Prima di andare a Los Angeles, però, mio padre si ferma a New York, dove ci sono gli studi della Rca, che sta sviluppando un sistema nuovo. Soggiorna all’International House, dove stavano gli studenti. Un fine settimana va a trovare il professore a casa sua, a Princeton, dove si erano da poco stabiliti anche Einstein e la moglie, da poco scappati dalla Germania. Appena viene a sapere di quel giovane italiano arrivato da Berlino, lei, che non parlava ancora bene l’inglese, vuole riceverlo. Mio padre parlava il tedesco, e le ha raccontato tutti i pettegolezzi e le poche notizie che aveva. È tornato ancora a Princeton, mi pare, invitato dalla signora Einstein per il piacere di fare quattro chiacchiere» sorride tra sé. «Già ce lo vedo mio padre a fare pettegolezzi, lui che non era proprio capace di parlare di emozioni» si arresta di colpo, come volesse cercare dentro di sé un’ispirazione, una sensazione. «Era profondamente giusto. Un animo liberale, un profondo illuminista. Un ideale di persona di cui sento la mancanza, quando penso a lui, al suo rigore morale.» Torna a frugare nei ricordi. Sospira. «Un’altra volta mi ha portato in cima a una montagna. Io ero già un ragazzino, avevo tredici-quattordici anni. Era una notte chiarissima. Voleva che vedessi le stelle. Mi ha detto: “Guarda, tutte queste stelle che vedi sono pochissime rispetto a quelle che costellano l’universo. Ce ne sono molte altre, perdute, lontanissime...”. È rimasto con lo sguardo in alto, come smarrito, volto alla sfera celeste, facendo questa considerazione tra sé sapendo che io l’avrei colta: “Noi che viviamo un solo attimo rispetto all’eternità, siamo stati capaci di studiarle, di capire cosa sono”. Mi ha guardato intensamente, quasi a suggerirmi un pensiero che mi ha subito tradotto in parole: “E sapere cosa sono è per noi un po’ come possederle”.»
Eugenio si ferma un istante, forse riassaporando le emozioni di quella notte chiara, lui bambino insieme con il padre. «Questo sillogismo» si riscuote, come per evitare di scivolare in un intimo sentimentalismo «mi è tornato spesso come immagine delicata e solenne di mio padre.»
Facciamo una piccola pausa. Eugenio scompare in mezzo ai libri, e sento i suoi passi lungo il corridoio, in fondo. Poco dopo si affaccia, mi chiede se ho voglia di un caffè. «È Nescafé, lungo, all’americana...»
Dico di no. Sto bene. Dallo specchio sopra il camino lo vedo scomparire dietro la porta.
Fuori dai vetri il cielo s’è fatto scuro. Si scorgono moti di nuvole nere accese a tratti da tenui bagliori di lampi in lontananza. Tutto lascia presagire l’arrivo di un forte temporale.
Eugenio ritorna. Si siede sul divano. Si volta d’impulso a guardare il cielo reso cupo da un rigore invernale che sta gelando anche queste giornate di primavera inoltrata.
Si schiarisce la voce, cercando di darmi uno spunto per continuare il dialogo. «E questa era l’America di mio padre» dice, con un sussurro di voce. «Veramente è il primo approccio di mio padre all’America, perché la vera scelta americana arriva nel 1975, quando decide di andarsene per sempre dall’Italia con tutta la famiglia.»
«Quindi parti anche tu con loro?»
«No, io resto a casa nell’appartamento di Milano, che adesso si è reso completamente libero» si concede una leggera punta d’ironia. «L’America verrà dopo per me, ma sarà solo l’ennesima occasione per un altro viaggio, sarà l’America dello studio vocale, del rock, del teatro, della ribellione. Prima che i miei si trasferissero là, l’America per me era fondamentalmente quella classica dei film anni Cinquanta, era la casa della nonna, e quindi New York» sorride, socchiude gli occhi, inspirando profondamente dal naso. «Quando ero ragazzino, io andavo a cercare l’America fuori dalla Rinascente di piazza del Duomo. Perché era l’unico palazzo di Milano con l’aria condizionata centralizzata, e dai filtri usciva questo odore particolare che passava attraverso le griglie... Era l’odore di New York» apre gli occhi: «io andavo lì a sentirlo. C’è sempre stato in me questo desiderio di ritrovare i segni di New York in Italia, appunto di ricercarne l’odore, ma anche di riconoscere il profilo dei cieli americani nei cieli d’Italia, in quei rari momenti in cui sono aperti e ampi e vasti, le nuvole basse all’orizzonte che scendono a sfiorare la terra...»
«Ma perché tuo padre ha deciso di lasciare l’Italia?» gli domando incuriosito mettendo fine alla sua contemplazione.
«Mio padre si è trasferito in America perché si è sentito tradito!» risponde deciso. E spiega: «Se c’è una cosa di cui mio padre aveva visceralmente terrore era il comunismo. Cosa comprensibile: per uno nato nel 1909, in una famiglia della piccola aristocrazia, vedere cosa era successo in Russia nel ’17 non poteva che essere un’esperienza traumatica e formativa. Tutta la sua generazione è cresciuta con quel terrore. Il papà di Berlusconi, che poi ha influenzato il figlio, ha anche lui subìto quel tipo di influenza. E quando adesso si sentono evocare in tono di tregenda “i comunisti”, si fa ancora riferimento al sentimento di terrore di quella generazione» resta assorto, forse tentato da considerazioni di carattere morale, che però accantona. «Allora» riprende «nel ’75 a mio padre, ai tempi dirigente di una fabbrica che produceva nastri magnetici, alcuni operai in sciopero hanno scritto sulla macchina, una Fiat 132 blu, “padrone”, “fascista”, e cose simili, e gli hanno disegnato una falce e martello con la vernice rossa. Erano gli stessi con cui aveva dormito nei capannoni durante la guerra, per salvare la fabbrica dai tedeschi in fuga. Erano persone che conosceva a fondo, come le loro famiglie. È tornato a casa profondamente avvilito. Per lui è stato un tradimento insopportabile. Credo che anche il fatto che fossi iscritto io stesso al Pci lo avesse più che deluso, ferito... Ma, per sua fortuna, mio padre era una di quelle poche persone beate che si portano il loro mondo dentro. Il suo universo era interiore, non era legato ai luoghi, alla casa, alla lingua... A mia madre, che era una cantante lirica, avevano offerto di insegnare per un anno allo Smith College, una prestigiosa università. Mia sorella doveva iscriversi al primo anno di università e così sono partiti tutti per l’America, il 30 aprile. Ironicamente lo stesso giorno in cui l’ultimo elicottero lasciò il tetto dell’ambasciata americana in Vietnam» sospira, nelle pieghe del collo una lieve tensione, nel profilo un velo di malinconia. «Io sono rimasto in Italia, stava per uscire il mio primo ellepì, Non gettate alcun oggetto dai finestrini... E adesso che ho cinquantotto anni, quasi la stessa età che aveva allora mio padre, mi sento altrettanto tradito da questo paese che ho scelto, quando avrei potuto anch’io solennemente allontanarmene.»
«In che cosa ti sei sentito tradito dall’Italia?»
«Mi sono sentito tradito dagli italiani» scuote la testa, e continua con apprensione, quasi con l’affanno di non voler essere frainteso: «La mia generazione, al contrario di quella di mio padre, è venuta su nel dopoguerra, in un’epoca dominata dalla grande paura dell’atomica e dell’autoritarismo di destra, il fascismo, il nazismo. Per reazione abbiamo idealizzato le masse, l’internazionalismo, il proletariato, senza renderci conto che già allora si stava profilando una minaccia ancora più pericolosa: un’aria di dittatura plebea, populista, che si respira oggi in ogni atteggiamento-evento di massa, non solo in politica ma anche nel calcio, nella musica, nella comunicazione. C’è una sorta di esaltazione collettiva che stravolge completamente il senso reale, profondo, delle cose. Come se il senso fondamentale di una questione fosse irrilevante: prima ti chiedono da che parte stai e poi da lì deducono il resto. E questo accade dentro un agire e un sentire di massa manipolati, che escludono completamente la logica, l’analisi critica di eventi e situazioni che riguardano la comunità, la collettività. Per esempio, il problema dell’immigrazione non può essere lasciato alle piazze, o a quei politici capipopolo e giustizialisti che alimentano solo le paure, ma deve essere affrontato seriamente in tutta la sua drammaticità, per dare accoglienza a chi ha urgenza di essere accolto e salvaguardare nello stesso tempo le norme minime di legalità e di convivenza civile, evitando il dilagare di violenze che non sono ammissibili per nessuna ragione plausibile in un ambito di democrazia» sbotta, con veemenza. «È necessario che l’integrazione avvenga in base ad analisi di realtà, e quindi di bisogni reali. Spesso sono stato immaginato come in realtà non sono, sia da destra che da sinistra» riprende dopo una pausa con un’intonazione di profonda amarezza. «Mi sono stati attribuiti idee ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10