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Quando sentì bussare alla porta del suo ufficio, Lucie Miller non alzò nemmeno lo sguardo. Il paziente era in anticipo, pensò seccata mentre finiva di compilare i documenti dell’ultima visita. Si sistemò gli occhiali sul naso. Poteva anche aspettare in corridoio dieci minuti intanto che lei finiva di…
Poi bussarono di nuovo, e questa volta con più insistenza. Lasciò cadere la penna sulla pila di fogli, arrendendosi come sempre alle richieste altrui, e urlò scocciata: «Avanti!».
Una testa di capelli scuri spettinati ad arte fece capolino. «Disturbo?»
Tentò di stare calma, ma il suo cuore fece un balzo al suono della voce calda e suadente del dottor Stephen Mann, direttore del reparto di Medicina sportiva del Northern Nevada Medical Center, nonché gran figo. Passò mentalmente in rassegna il proprio aspetto alla velocità della luce. Sempre la solita diagnosi: banale e trasandato. Trattenendo un sospiro di delusione e l’istinto di sistemarsi le ciocche sfuggite alla coda, gli rivolse il suo sorriso migliore. «Figurati. Non mi sono dimenticata un’altra riunione, vero?»
Due fossette gemelle le ammiccarono. «Ma no, oggi no.»
Si voltò per chiudere la porta, e il cuore di Lucie cominciò a battere all’impazzata. Era stato nel suo squallido ufficio un sacco di volte per parlare dei loro pazienti in qualità di chirurgo ortopedico, ma mai prima d’ora aveva chiuso la porta.
Imponendosi di non saltare a conclusioni affrettate, gli indicò la poltrona di fronte a sé. «Prego, accomodati.»
«Mmm…»
Lucie lanciò un’occhiata alla poltrona, letteralmente sommersa da faldoni, vecchi giornali e articoli scientifici. Mentre faceva il giro della scrivania, sentì le guance avvampare. «Oh, scusa, sono un disastro. Ecco, solo un attimo…»
«Non preoccuparti, davvero.»
«No, ci mancherebbe.» Lucie raccolse quell’ammasso disordinato e informe, pentendosi come al solito della propria disorganizzazione, e cercò un angolo in cui nasconderlo. Altre pile di fogli ingombravano il pavimento, ogni centimetro della scrivania e della libreria. Alla fine accatastò tutto sulla propria poltrona e tornò al suo ospite. Perché non poteva essere ordinata ed efficiente come le altre? Come le donne che frequentava Stephen?
«Allora, cosa ti porta negli angoli più remoti dell’ospedale?»
Lui si schiarì la voce e si sistemò meglio sulla poltrona. Generalmente, Stephen era a suo agio in ogni situazione, cosa che, insieme al suo fascino rilassato, alla bellezza hollywoodiana e al sorriso irresistibile, faceva impazzire le donne.
«Il party di beneficenza dell’ospedale è tra due mesi e, se a un uomo basta affittare uno smoking, so bene che una donna ha bisogno di tempo per trovare l’abito giusto, andare dal parrucchiere, dall’estetista… e fare tutte quelle cose che voi signore fate per essere bellissime.»
A Lucie si strinse la gola, e le sue dita iniziarono a giocherellare nervosamente con la collana. Era giunto il momento: avevano lavorato insieme per anni, spesso oltre l’orario per discutere di casi complessi, ordinando pessimo cibo cinese quando il cervello non si arrendeva, ma lo stomaco brontolava. Avevano un sacco di cose in comune, e la loro ossessione di voler dare sempre il massimo nel lavoro aveva cementato il loro legame. Era innamorata di lui da anni, ma Stephen non le aveva mai chiesto di uscire. Non si era mai sbilanciato, e continuava a frequentare eleganti donne in carriera che incontrava all’aperitivo del Caliente, un locale raffinato in fondo alla strada.
Ma adesso, eccolo lì, nel suo ufficio, a parlare della festa dell’ospedale. Dio, ti prego, fa’ che non svenga. Lucie fece un lungo e profondo respiro, per tentare di apparire disinvolta. «Stai cercando di dirmi qualcosa, Stephen?» La sua voce tradì l’agitazione. Merda.
Lui si massaggiò la nuca con le dita forti e le rivolse un dolcissimo sguardo imbarazzato. «Sì. Non sto andando granché bene, vero?»
«No, no, stai andando benissimo!» Troppo entusiasmo. Merda, merda!
«Lo so, avrei dovuto parlartene prima. Volevo chiedertelo il mese scorso al Caliente, ma non ho colto l’attimo e te ne sei andata. Speravo di rivederti lì perché chiedere un appuntamento in ufficio forse non è la cosa migliore…»
La mente di Lucie tornò a quell’unica sera in cui aveva messo piede nell’affollatissimo e costosissimo club. La sua migliore amica, Vanessa MacGregor, aveva appena vinto un caso importante e voleva festeggiare andando a ballare e bevendo qualche drink. Invece del loro solito posto, il Fritz, Vanessa l’aveva convinta a incontrarsi al Caliente. Più che un locale, era un vero carnaio. Si erano fermate meno di un’ora: sembrava di essere in uno studentato, ma con una clientela da country club. Allora avevano deciso di andare a divertirsi a modo loro, scolando birra alla spina e stracciando ragazzi a freccette.
«Oh, non ti preoccupare» lo rassicurò. «L’unica persona che potrebbe sentirci è il signor Kramer, ma sta là in fondo, sul tapis roulant, e la porta è chiusa. E, comunque, non sempre si ricorda di accendere l’apparecchio acustico, quindi la possibilità che ci senta con tutto quel rumore è…»
«Lucie.»
«Scusami.» Vuoi chiudere quella bocca? Stai blaterando come una stupida! «Dicevi?»
Lui inspirò a fondo ed espirò come se dovesse lanciarsi dal tetto dell’ospedale. «Volevo chiederti il numero della tua amica.»
«La mia… cosa?»
«La ragazza che era con te quella sera. Sta con qualcuno?»
«Vanessa?» Lucie cercò di capire in che modo la conversazione avesse preso quella piega. O forse era stata lei a immaginarsi tutto. Che ingenua. «Ehm, no, al momento no.»
Lui si raddrizzò sulla sedia e ogni muscolo del suo corpo si rilassò quando le rivolse un altro sorriso suadente con tanto di fossette. «Fantastico! Mi daresti il suo numero? Non voglio aspettare l’ultimo minuto. E vorrei portarla fuori un paio di volte prima del grande evento. Sai, per conoscerci meglio. A quelle cene c’è sempre qualcuno che parla di lavoro e non si riesce mai a fare due chiacchiere. Lucie? Mi stai ascoltando?»
«Come? No. Cioè, sì, ti ascolto. Sì, hai ragione. Certo, non sono argomenti adatti a un primo appuntamento.» Il suo sguardo si posò sulla scrivania: era un campo di battaglia. Se Vanessa l’avesse visto, le sarebbe venuto un attacco di panico. Lei sì che era iperefficiente, impeccabile dentro e fuori, mai un capello fuori posto, mai un’emozione di troppo. In più, somigliava a una Barbie. Ecco il tipo di donna da cui Stephen Mann era attratto, quello che lei di certo non era.
«Allora… mi dai il suo numero? O vuoi fare l’amica protettiva e chiedermi se ho intenzioni serie?» la stuzzicò. «Pensi che non sia alla sua altezza?»
Lucie non riuscì a trattenere un sorriso. «Certo, come no? Sei affascinante, intelligente, bello e realizzato. Come potresti non essere all’altezza?»
«Modestamente… Mi raccomando, metti una parola buona con Vanessa quando ti dirà che l’ho chiamata. Anche se, be’, forse prima dovresti darmi il suo numero.»
«Oh! Sì, scusami.» Si guardò in giro alla ricerca di un post-it o di un pezzetto di carta. Era sicura di averli, l’unico problema era trovarli.
Calma, Lucie.
Negli ultimi cinque minuti aveva subìto una lobotomia frontale e ora non riusciva a connettere.
Alla fine scrisse il numero di Vanessa sulla mano di Stephen, resistendo alla tentazione di conficcargli la penna nel palmo. «Ecco fatto. Adesso però devi scusarmi, sto aspettando un paziente.»
«Non ti rubo altro tempo. Grazie, Lucie.» Con la mano pulita il chirurgo afferrò la maniglia e aprì la porta. Poi si voltò e aggiunse: «Ti devo un favore».
Lei si stampò in volto un sorriso tirato. «Lo terrò a mente, dottore.»
Non appena fu uscito, Lucie sprofondò nella poltrona senza nemmeno spostare la pila di carte. Niente di nuovo. Per lei, passare in secondo piano era ordinaria amministrazione. Ormai, avrebbe dovuto essere immune a quel dolore. E non era la prima volta che l’uomo di cui era innamorata si dimostrava interessato a una sua amica. Ma faceva male lo stesso. E parecchio.
Inutile illudersi: il dottore non l’avrebbe mai considerata sexy. Il suo lato più pragmatico le diceva che non era importante, che doveva solo trovare qualcun altro di adatto. Ma quando Lucie immaginò il futuro che la attendeva, il suo sogno era sfocato da un velo di lacrime.
2
«Potrebbe indicarmi il reparto di fisioterapia?»
Dove uno stronzo arrogante mi obbligherà a fare degli esercizi da femminuccia, concluse tra sé.
Reid Andrews era di pessimo umore, per usare un eufemismo, ma sapeva che sarebbe stato ingiusto prendersela con la malcapitata receptionist dell’ospedale, quindi ascoltò le sue istruzioni e la ringraziò.
Più si avvicinava al reparto, più sentiva montare il nervoso. Non avrebbe dovuto trovarsi lì, a Reno, pericolosamente vicino alla sua città d’origine nella Sun Valley, appena più a nord. Il suo posto era a Las Vegas, dove la riabilitazione sarebbe stata seguita dal suo allenatore e dal medico della palestra. Sarò nelle mani di qualche imbecille che non conosce il mio sport, né sa quanto sia importante tornare sul ring il prima possibile per prepararmi al secondo incontro.
Combatteva da sempre. Aveva iniziato per diventare il migliore in ciò che più amava al mondo, la boxe, e poi aveva continuato, per rimanere il numero uno. Quindici anni più tardi, era uno dei pesi massimi leggeri più ricchi del campionato, con un record imbattibile e migliaia di fan. Ma ora, se non fosse riuscito a rimettersi in sesto in tempo, la sua carriera sarebbe finita.
Un medico, impegnato in una fitta conversazione al cellulare mentre controllava il cercapersone, svoltò l’angolo e andò a sbattergli contro. Non si voltò nemmeno per scusarsi e proseguì lungo il corridoio. Reid strinse i denti e si portò una mano alla spalla destra, aspettando che il dolore si attenuasse. Faceva un male cane anche dopo un colpo così lieve.
Gli era capitato uno degli infortuni peggiori per un pugile: uno strappo della cuffia dei rotatori. E, oltre al danno, la beffa: non era successo durante un incontro. Quel maledetto incidente era avvenuto mentre si allenava. Aveva trentaquattro anni – un’età in cui un boxeur è quasi vecchio, soprattutto se è sul ring da parecchio tempo – e il suo corpo cominciava a mostrare i primi segni di cedimento.
Superando una signora anziana che si muoveva alla velocità di una lumaca, Reid maledisse il suo allenatore Butch per averlo spedito lì.
Poco dopo il suo intervento alla spalla, Scotty era dovuto tornare a casa per prendersi cura del padre malato. Dato che il medico sarebbe stato fuori gioco per un paio di mesi, Butch aveva affidato Reid a un altro fisioterapista. Lui, però, aveva capito subito che se avesse continuato a lavorare con quel tizio non sarebbe stato pronto nemmeno a cinquant’anni, e così aveva preso in mano le redini della propria riabilitazione.
Quando Butch era venuto a saperlo, non aveva fatto i salti di gioia. Anzi, l’aveva sgridato per aver voluto accelerare i tempi. Ma l’espressione «prendersela con calma» non faceva parte del vocabolario di Reid. Suo padre gli aveva insegnato due cose, non appena era stato grande abbastanza da tirare un pugno: «Il massimo non basta», e: «Vinci, o stai a casa».
Ormai mancavano solo due mesi all’incontro della sua vita e lui doveva tornare in perfetta forma. Nessun’altra possibilità era contemplata. Ogni anno facevano il loro ingresso sul ring pugili giovani e forti, e per i veterani diventava sempre più difficile gareggiare. Per questo Reid si era preparato così duramente: ci sarebbe sempre stato qualcuno pronto ad ambire alla sua cintura allenandosi allo sfinimento per avere una chance, e lui doveva combattere per tenersela stretta.
’Fanculo, imprecò tra sé ripensando all’ultimatum di Butch: se Reid non avesse abbandonato gli allenamenti per concentrarsi sul suo recupero, lui avrebbe cancellato l’incontro.
Quella minaccia gli dava ancora sui nervi, ma aveva deciso di accontentare il vecchio Butch e di prestarsi a quella fisioterapia da due soldi. Ma per niente al mondo l’avrebbe considerato «allenamento»: non aveva tempo da perdere in stronzate. Doveva tornare a Las Vegas il prima possibile per riprendersi ciò che gli spettava di diritto.
Reid spinse la porta a doppio battente e si ritrovò in un’ampia sala che gli ricordò l’interno della palestra di un liceo. Attrezzi per il fitness, pesi e palle mediche. Niente ring, nessun sacco. Un uomo che aveva superato da un pezzo l’ottantina camminava sul tapis roulant talmente piano da sembrare immobile.
«Wow» borbottò avvicinandosi alla porta semichiusa su cui campeggiava il nome del suo fisioterapista, Lucinda Miller. Fece per bussare e annunciarsi, ma si bloccò quando notò una donna che, seduta alla scrivania, singhiozzava con la testa tra le mani. O, almeno, sembrava una scrivania. Era difficile stabilirlo, sotto tutte quelle pile di carte e faldoni.
Anziché bussare, Reid si schiarì la voce. «Mi scusi, è un brutto momento?»
La donna girò la poltrona, sbatté il ginocchio contro un armadio e mormorò una parolaccia che probabilmente non usava spesso in pubblico. Reid non l’aveva ancora vista in faccia, ma si intenerì di fronte a quella goffaggine e, quando lei raccolse un fazzoletto da terra e si soffiò il naso, gli scappò un sorriso.
«No, no.» Il medico si soffiò di nuovo il naso e indicò qualcosa alle sue spalle senza voltarsi. «S...