Non vi lascerò orfani
eBook - ePub

Non vi lascerò orfani

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Non vi lascerò orfani

Informazioni su questo libro

Questo libro, pur raccontando una morte, parla della vita. E dice che è sempre meglio dare che non dare, anche quando si sbaglia. Perché in una famiglia l'unica cosa che fa davvero male è l'assenza, mentre il caos e il calore delle esperienze condivise rafforzano le nostre radici e la nostra identità. Daria Bignardi scava nella memoria, dove nulla va perduto e si rivelano legami inattesi. Tutto - persone e luoghi - ha lasciato qualcosa. Tutto è storia individuale, di una famiglia, di un'epoca: tutto ha lasciato un segno e ci ha resi ciò che siamo. Ma ogni cosa gira intorno al rapporto complicato tra madre e figlia, che - come spesso accade - è fatto di trasporto e identificazione ma anche di bisogno di separarsi, di quella necessità di scrivere il proprio destino che spesso sta alla base dei conflitti.
Con appassionata nostalgia, in equilibrio tra commozione e divertimento, Daria Bignardi racconta una vicenda dolce e ironica, affascinante come una foto in bianco e nero, viva come un abbraccio: una storia proiettata all'improvviso sullo schermo della memoria quando la protagonista scompare. La storia di un amore più forte dell'assenza, un racconto in cui sarà inevitabile per chiunque, pur nell'assoluta singolarità della voce narrante, riconoscersi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804598268
eBook ISBN
9788852012624

Il funerale che ho sempre desiderato

Il giorno del funerale della mamma a Ferrara c’era il sole, un bel sole primaverile in una primavera dove poi piovve sempre.
Eravamo partiti da Milano alle dieci del mattino, e per una volta Emilia si era ricordata di non bere il latte a colazione per non vomitare in macchina sulla gonna marrone comprata per l’occasione.
Io sotto al cappotto grigio avevo messo una gonna e una maglia blu che da quel giorno non riesco più a portare. Anche Ludovico era in blu, e Luca in grigio: senza dircelo ci siamo impegnati tutti per non vestirci di nero, un colore che la mamma non sopportava perché le faceva impressione. Di nero aveva solo una pelliccia di astrakan e un bolero che metteva per andare a teatro: non avrebbe mai indossato nulla di nero se non in un’occasione elegante ed era costernata che io invece lo portassi anche di giorno: diceva che mi sbatteva e mi faceva sembrare ancor più gialla patocca.
Siamo arrivati a Ferrara all’ora di pranzo, scegliendo a caso un bar di piazza Ariostea per mangiare un panino: fatalità, si sono fermati nello stesso bar e nello stesso momento quattro amici arrivati da posti lontani, come Salvatore dalla Sardegna.
Non avevo avvisato nessuno del funerale e non avevo idea di chi sarebbe venuto: ogni volto caro era una sorpresa ed ero piena di gratitudine per tutti quelli che avevano fatto un viaggio così lungo, un giovedì lavorativo, per esser lì a salutare la mamma.
Ricordo che mi sono vergognata per tutte le volte che non sono andata a un funerale pensando che la presenza non fosse importante. Invece lo è.
Da piazza Ariostea siamo andati a piedi alla chiesa di San Cristoforo alla Certosa, un posto di una bellezza spettacolare.
C’ero stata di recente, dopo che a Natale avevo letto Gli ultimi anni di Clelia Trotti di Giorgio Bassani, dove scrive: “Per avere un’idea di che cosa sia piazza della Certosa, si pensi a un prato aperto, pressoché vuoto, sparso come è a distanza di rari monumenti funebri di acattolici illustri del secolo scorso: a una specie di piazza d’armi, insomma. A destra, la scabra facciata incompiuta della chiesa di San Cristoforo, nonché, flettendosi in ampio semicerchio fin sotto le mura urbane, un rosso porticato del primo Cinquecento contro il quale certi pomeriggi il sole batte davvero a gloria”.
Mia sorella, che abita lì vicino ed è una fanatica di Bassani, mi aveva avvertito che dopo cinquant’anni da quella descrizione la chiesa era stata restaurata. Ero andata a visitarla: era davvero un posto meraviglioso.
Il giorno del funerale della mamma era uno di quei pomeriggi in cui il sole batteva a gloria: tutto era illuminato da una luce netta e dorata, una di quelle luci che nella pianura padana capitano una volta all’anno e te le ricordi per sempre.
Davanti alla chiesa ci aspettava Donatella con le mie nipoti Silvia e Annalena arrivate da Bologna e da Roma: ci siamo abbracciati tutti pensando – ce lo siamo detti dopo – che la nonna Gianna si lamentava tanto ma alla fine faceva sempre le cose in grande.
Davanti all’altare stava la bara già chiusa, come avevamo chiesto perché mia madre non avrebbe mai voluto che la vedessero morta. Per carità. Ci manca sol quello! Perciò io la mamma dentro la cassa non l’ho vista, mentre Donatella sì: prima di venire in chiesa era andata a salutarla alla camera mortuaria e mi ha detto che stava bene.
Avevamo disposto che le mettessero il tailleur di tessuto operato azzurro e beige, appena bordato di pelliccia chiara, una camicia di seta color avorio e un foulard azzurro: gli stessi che portava l’ultima volta che era venuta a trovarci a Milano.
La mamma era una di quelle donne che fanno una gran figura con gli abiti che indossano. Abitualmente, negli ultimi anni, si vestiva in maniera trascurata, portando per giorni la stessa gonna o lo stesso maglione con una macchia di cappuccino davanti. Se invece era di buon umore o doveva andare da qualche parte si comprava in fretta qualcosa di nuovo, senza pensarci troppo. Cose semplici che però a lei donavano molto e sembravano elegantissime: la giacca azzurra, un copricostume a fiori, il cappotto color cammello con il collo di pelliccia… Quel tailleur dall’aria costosa l’aveva preso senza guardare in un negozio qualsiasi, per il matrimonio di una nipote al quale non era poi potuta andare per uno dei suoi rari raffreddori.
Le stava benissimo, come se invece di averlo comprato al volo se lo fosse fatto fare su misura dopo aver scelto con cura la stoffa e il taglio. Aveva un gusto sicuro per i colori che le donavano, per i gioielli, le borsette e le scarpe. Mi criticava sempre, e a ragione, per le mie scelte smorte e convenzionali. E dire che da ragazzina ci tenevi tanto, si rammaricava. Prima di diventare di sinistra, intendeva dire. Ma ormai non lo diceva quasi più.
Mi sono avvicinata all’altare per parlare con il prete che avrebbe celebrato la messa: volevo sapesse che tipo era la mamma.
Gli ho detto che era credente ma non praticante, che era simpatica e impulsiva, che l’espressione “sangue romagnolo” le si confaceva perfettamente. Lui era un bell’uomo giovane, brizzolato, con l’aria distante da prete colto, si chiamava don Paolo.
Donatella mi ha raggiunto mentre parlavamo, gliel’ho presentata. Don Paolo ha chiesto se volevo dire qualcosa durante la messa e ho risposto di no: temevo di commuovermi troppo, memore del funerale del babbo, e poi ho pensato che alla mamma avrebbe fatto impressione sentirmi parlare di lei come se fosse morta.
Non è andata così. Non ho pianto tanto. Forse perché stavolta ero più grande, forse perché, a differenza di ventiquattro anni prima, non ero sola ma con Luca e i bambini.
Ho pianto di più al funerale della madre della mia amica Renata, quattro mesi dopo, anche se non l’avevo mai vista.
Quel giorno mi ero chiesta se stavo piangendo ancora per mia madre o se piangevo per Renata. Oppure per suo padre Eugenio, di ottantacinque anni, che sembrava perso e dolce e mi ricordava tanto il mio, che però non ho mai visto vecchio, solo anziano. Chissà come sarebbe stato bello da vecchio, mio padre.
Le amiche della mamma ancora vive non sono molte, ma al funerale c’erano tutte, e le ho amate. Ho amato molto anche Bobo in quel momento, il mio compagno di banco del liceo, che mi ha ricordato piangendo quando avevamo litigato perché, scherzando, lui aveva detto che mia madre era brutta.
Non avevo mai visto Bobo piangere: insieme avevamo sempre sghignazzato, da ragazzi.
Più di tutti mi hanno commosso quelli che non mi aspettavo ci fossero: una mia antica professoressa d’inglese del liceo, la parrucchiera Lidia, i vecchissimi amici Tognon che non vedevo da vent’anni e sono arrivati con un mazzolino di fiori che mi ha strangolato il cuore.
La mia professoressa, identica dopo trent’anni, non era tra quelle che avevo amato di più. Non eravamo mai state in confidenza e la sua materia non mi piaceva particolarmente. Era un tipo riservato, algido, non il genere d’insegnante con cui i ragazzi fanno amicizia. Rivederla lì è stato bellissimo.
Con Luca e i bambini ci siamo seduti nel primo banco a destra, insieme a Dante e Michela, i miei cari cugini figli dello zio Fifo al cui funerale, ho ricordato colpevolmente, dieci anni prima io non ero andata.
Donatella e i suoi stavano nel primo banco a sinistra, di fianco a noi. Così lei e io abbiamo potuto scambiarci un’occhiata perplessa quando abbiamo sentito l’argomento scelto dal prete per l’omelia: la gelosia tra sorelle.
Don Paolo ha raccontato una parabola in cui una sorella chiedeva alla madre perché fosse più disponibile con l’altra figlia che con lei, e la madre avrebbe risposto “perché aveva più bisogno di me di quanto ne avessi tu”.
Con Donatella ci siamo voltate a guardarci nello stesso istante: lei e io ci adoriamo e siamo sempre state solidali e unite contro le bizzarrie del carattere di nostra madre, che per tutta la vita ci ha dato del filo da torcere.
Ognuna di noi in quel momento si è chiesta se quell’omelia fosse stata in qualche modo mandata dalla mamma, e in cuor mio mi sono detta che in fondo ero io, la più piccola, la più ribelle, quella che era andata a vivere lontano, la sorella che aveva avuto più attenzione, nel bene e nel male.
Specialmente nel male, visto che le cure della mamma si esprimevano anzitutto in forma di ansiose telefonate di controllo.
Ma l’amore è amore. È quando non c’è più che capisci quanto ti manca, anche se è faticoso da sopportare.
Che l’omelia, scelta dalla mamma tramite don Paolo, fosse un messaggio di scuse tardive a Donatella?
Per tutta la cerimonia ho tenuto la mano di Ludovico, mio figlio grande, che forse assisteva alla prima messa completa della sua vita.
Aveva gli occhi che brillavano e la bocca un po’ aperta di chi sta seguendo qualcosa che lo avvince moltissimo. Ascoltava ogni parola del prete come se non volesse perdersi un particolare, come se stesse cercando, lui che è un iperrazionale, di comprendere a fondo un evento sconosciuto o una nuova scoperta scientifica.
Ho sposato due uomini atei e non ho insistito per battezzare i figli, come forse avrei fatto se avessi deciso da sola. Ho pensato che se vorranno battezzarsi lo faranno loro, al momento buono.
Ludovico sembra invece ancora meno credente di suo padre, che è un filosofo attratto dai pensatori mistici, e anche se dalla quarta elementare ha scelto da solo di frequentare l’ora di religione, ora che ha undici anni afferma con sicurezza di non credere nell’esistenza di Dio. Mentre la bambina di cinque va a giorni: in certi periodi ci crede e in altri no.
A differenza di suo fratello, che in quanto primo figlio è stato cresciuto un poco più ideologicamente e fin dai primi anni di scuola è stato tolto da religione, Emilia l’ha sempre fatta e nessuno si è preso la briga di esonerarla. Pochi giorni dopo la morte della nonna, sentendoci parlare di credere o non credere in Dio, Emilia con nostro divertimento e meraviglia ha detto a una mia amica che «la nonna Gianna credeva nel pelo».
Visto che mia madre era l’unica persona che conosceva a indossare pellicce, immagino Emilia abbia fatto una sua personalissima associazione, molto azzeccata: la nonna Gianna infatti era tendenzialmente animista. Non era tipo da santini e rosari, probabilmente sentiva Dio più nei sassi bianchi e tondi del suo amato fiume Sillaro o nella sua pelliccia di astrakan che non dentro a una chiesa.
A messa i bambini sono stati perfetti: attenti, buoni e gentili.
Li avevo istruiti a dare la mano a tutti, ma non sempre mi ascoltano. Credo che quel giorno avessero capito come era importante per me sentirli vicini, e sembravano molto compresi nell’evento che stavamo celebrando.
Non credo soffrissero per la nonna: i bambini solitamente non soffrono per la morte, o almeno non subito. Se muoiono persone a cui sono molto legati naturalmente ne sentono la mancanza, ma a modo loro. Quando morì mia nonna Atala avevo poco più dell’età di Ludovico e ricordo bene non solo l’assenza di dolore, ma anche il senso d’immortalità che quell’assenza mi aveva lasciato. Ricordo che avevo pensato: “Vedi? Non si soffre. Allora la morte non esiste. Allora io non morirò mai”.
La mattina a colazione avevo detto a Emilia di non impressionarsi se mi vedeva piangere: volevo prepararla perché temevo che avrei singhiozzato tutto il tempo.
In realtà quel discorso l’aveva turbata più delle mie lacrime eventuali, e mi aveva risposto con voce strozzata che la facevo piangere io, se le dicevo così.
E poi mi aveva ricordato di avermi già visto piangere, per la prima volta, tre settimane prima.
Eravamo in montagna, noi quattro, e uscivamo da un ristorante su un passo dove aveva cominciato a nevicare: una nevicata soffice e intensa di febbraio che mi aveva messo addosso...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Non vi lascerò orfani
  4. Orfani adulti
  5. Micione la coda
  6. In pensiero
  7. Improvvisamente
  8. Genealogia
  9. La figlia dell’assassino
  10. Il funerale che ho sempre desiderato
  11. L’insuperabile latinista
  12. Venezia, Ferrara, e il gato di Pregnolato
  13. L’appartamento al mare
  14. Un testamento. Castello e le radici
  15. Dante, Atala, il furentismo e la guerra d’Etiopia
  16. Quand’è che una ragazza
  17. La Giacca
  18. L’ultima volta
  19. Io sono nata
  20. Calore
  21. Conclusione e ringraziamenti
  22. Copyright