Candido
eBook - ePub

Candido

ovvero l'ottimismo

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Candido

ovvero l'ottimismo

Informazioni su questo libro

Attraverso le incredibili disavventure di un giovane inguaribilmente ottimista Voltaire (1694-1778) demolisce ironicamente la dottrina del filosofo Leibniz, che vedeva realizzato nell'universo "il migliore dei mondi possibili".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804488125
eBook ISBN
9788852010972

Capitolo XXII

Che cosa accadde in Francia a Candido e a Martino.
Candido si fermò a Bordeaux soltanto quanto bastava per vendere qualche ciottolo del Dorado, e combinare per una buona vettura a due posti, dato che non poteva più far senza del suo Martin filosofo. Solo gli dispiacque molto di separarsi dal montone, che lasciò all’Accademia delle scienze di Bordeaux, la quale, ad argomento del premio di quell’anno, propose di trovare perché la lana di tal montone fosse rossa. E il premio fu aggiudicato a un dotto del nord, che dimostrò con A più B, meno C, diviso per Z, che il montone doveva essere rosso, e morire del fuoco di Sant’Antonio.
Eppure, ogni viaggiatore incontrato nelle osterie lungo la strada, gli diceva: «Noi andiamo a Parigi»; e tal premura universale finì per fargli venir la voglia di vedere la capitale, ciò che non lo portava molto fuori della via per Venezia.
Entrò per il sobborgo di Saint-Marceau, e credette d’essere nel più brutto villaggio di Vestfalia.
Non appena fu all’albergo, Candido fu preso da una lieve malattia prodotta dalle sue fatiche. Avendo in dito uno smisurato diamante, e una cassetta di prodigiosa pesantezza nel suo equipaggiamento, subito si trovò vicini due medici non chiamati, alcuni intimi amici che non lo lasciarono più, e due pie donne che gli tenevan in caldo i brodi. Martino diceva: «Mi ricordo di essere stato ammalato anch’io a Parigi, nel mio primo viaggio: essendo io poverissimo, non ebbi né amici né pie donne né medici e guarii».
Intanto la malattia di Candido a forza di medicine e di salassi divenne seria. Un prete scagnozzo del quartiere venne melatamente a chiedergli una cambiale al portatore nell’altro mondo. Candido non ne volle sapere. Le pie donne l’assicurarono essere una nuova moda: Candido rispose di non esser uomo alla moda. Martino voleva buttar dalla finestra lo scagnozzo. L’ecclesiastico giurò che Candido non avrebbe sepoltura: Martino giurò di seppellire l’ecclesiastico, se avesse continuato a importunarli. Si scaldarono nel litigare; Martino lo prese per le spalle e lo scacciò in malo modo, con grave scandalo, di cui fu steso processo verbale.
Candido guarì, e nella convalescenza ebbe a cena compagnia della più scelta. Giocavano forte, e Candido era stupitissimo che non gli toccassero mai assi, e Martino non se ne meravigliava.
Fra coloro che gli facevan gli onori della città, c’era un abatino perigordino, una di quelle tali persone tutte premura e attenzione, servizievoli e sfacciate, carezzevoli, accomodanti, che appostano i forestieri di passaggio, raccontan loro gli scandali cittadini, e offron piaceri d’ogni prezzo. Questi condusse Candido e Martino dapprima alla commedia, dove si recitava una tragedia nuova. Candido capitò vicino a qualche bello spirito, la qual cosa non gli impedì di piangere a quelle scene recitate alla perfezione. Uno di quei ragionatori suoi vicini, gli disse fra un atto e l’altro. «Avete torto marcio a piangere. L’attrice è pessima, l’attore che recita secolei è ancora peggiore, il lavoro è anche peggiore degli attori; l’autore non sa parola d’arabo, eppure la scena è in Arabia, e per di più è un uomo che non crede alle idee innate. Domani vi porterò venti opuscoli contro di lui.» «Signore, quanti lavori teatrali avete in Francia?» chiese Candido all’abate, che rispose: «Cinque o seimila». «Molti» disse Candido. «E buoni quanti sono?» «Quindici o sedici» replicò l’altro. «Molti» disse Martino.
Candido fu soddisfatto assai d’una attrice che faceva da regina Elisabetta in una tragedia abbastanza insulsa, che talvolta vien data. «Cotesta attrice» disse a Martino «mi piace molto. Ha una cert’aria che ricorda madamigella Cunegonda: godrei di salutarla.» L’abate perigordino si offerse per introdurlo appresso costei. Candido, allevato in Germania, chiese qual fosse l’etichetta, e in che modo in Francia si trattassero le regine d’Inghilterra. «Bisogna distinguere» disse l’abate «in provincia si conducono all’osteria, a Parigi le rispettano belle, e le buttano morte nell’immondezzaio.» «Regine nell’immondezzaio!» disse Candido. «Davvero» disse Martino «il signor abate ha ragione; ero a Parigi quando la madamigella Monima passò, come si suol dire, da questa all’altra vita. Le furon negati quelli che si chiaman da queste genti di qua gli onori della sepoltura; cioè di putrefare con tutti gli scalzacani del quartiere di un brutto cimitero. Fu messa da banda e sepolta senza compagnia all’angolo della via di Borgogna, ciò che dovette farle grandissimo dispiacere, perché era di nobilissimi sensi.» «Cosa sgarbatissima» disse Candido. «Che volete?» disse Martino «la gente di qua è così fatta. Immaginate ogni contraddizione, ogni possibile incompatibilità, e le riscontrerete nel governo, nei tribunali, nelle chiese, negli spettacoli di questa strana nazione.» «È vero che a Parigi» disse Candido «si ride perennemente?» «Sì» disse l’abate «ma colla rabbia in corpo, perché qui ci si lagna d’ogni cosa fra grandi scoppi di risa, e si fanno le più nefande azioni, sempre ridendo.»
«Chi è» disse Candido «quel grosso porco, che mi diceva tanto male del lavoro dove ho pianto tanto, e degli attori che mi han dato tanto piacere?» «È un malvivente, che guadagna da vivere» disse l’abate «dicendo male d’ogni lavoro di teatro e di tutti i libri; odia chi riesce, come gli eunuchi odiano chi gode. È un di quei serpenti letterari nutriti di veleno e di fango; è un "follicolario".» «Che significa per voi "follicolario"?» disse Candido. «Significa» disse l’abate «un facitore di fogli, un Fréron.»
Così Candido, Martino e il perigordino, ragionavano sulla scala nel guardare la gente che usciva dallo spettacolo. «Per quanta fretta io abbia di rivedere madamigella Cunegonda» disse Candido «vorrei per altro cenare con madamigella Clairon, perché mi è parsa ammirevole.»
L’abate non era uomo da avvicinare madamigella Clairon, la quale stava solo con gente dabbene. «Per questa sera» disse «è impegnata, ma avrò l’onore di condurvi in casa di una dama di qualità, dove conoscerete Parigi, come se ci foste da quattr’anni.»
Candido, ch’era di natura curioso, si fece condurre dalla dama, in fondo al sobborgo di Sant’Onorato. Facevano il faraone, e dodici tristi giocatori, facendo delle orecchie alle carte che avevano in mano, registravano i loro infortuni. Profondo silenzio dominava; in fronte ai giocatori il pallore, l’inquietudine stava in fronte a chi teneva banco, mentre la padrona di casa, seduta accanto allo spietato banchiere, notava con occhio linceo e paroli e sette "volanti", quando o l’uno o l’altro dei puntatori ne segnava soverchi, facendo un’orecchia alle sue carte. Con severa, ma cortese attenzione, la faceva spianare, senza stizzirsi, per paura di perdere i clienti. Cotesta dama si faceva chiamare marchesa di Parolignac. Sua figlia quindicenne era fra i giocatori, e con un battito di ciglia dava l’avviso delle furfanterie con cui quei poveracci si provavano a riparare alle crudeltà della sorte. Entrarono l’abate perigordino e Candido, e Martino: nessuno si levò né guardò né salutò tutti sprofondati com’erano nelle carte. «La signora baronessa di Thunder-ten-tronckh era più civile» disse Candido.
Intanto l’abate si fece all’orecchio della marchesa, che si alzò a mezzo, onorò d’un grazioso sorriso Candido, e Martino d’un cenno del capo tutt’affatto nobile. Fece dare una sedia e carte a Candido, che perse in due tagli cinquantamila franchi, dopo di che cenarono con grande allegria, e tutti erano stupiti che Candido non fosse turbato della sua perdita. I lacchè, nel linguaggio loro da lacchè, dicevano l’uno all’altro: «Bisogna che sia un qualche milord inglese».
La cena fu simile alla maggior parte delle cene a Parigi: prima silenziosa, poi rumorosa di parole indistinguibili, poi scherzosa, ma per lo più insipidamente: e false notizie, e ragionamenti capziosi, in po’ di politica, molta maldicenza; vi si parlò perfino di libri nuovi. «Avete visto» disse l’abate perigordino «il romanzo di messer Gauchat, dottore in teologia?» «Sì» rispose un invitato «ma senza poter finirlo. Abbiamo una ressa di scrittori impertinenti, ma tutti insieme non s’avvicinano neppure alle impertinenze di messer Gauchat, dottore in teologia. Sono talmente sazio di questa immensa quantità di libri detestabili che ci inondano, che mi son messo a giocare al faraone.» «E le Miscellanee dell’arcidiacono T…» disse l’abate «che ne dite?» «Ah» disse madama di Parolignac «che uomo noioso! Che modo curioso di dire quel che ognuno sa! Che pesantezza nel discutere quel che non val la pena d’essere notato neanche con leggerezza! Come, senza spirito, s’appropria lo spirito degli altri! Come mi disgusta! Ma è finita: le poche pagine dell’arcidiacono che ho lette, mi bastano.»
A tavola c’era un uomo istruito e di buon gusto, il quale approvò il detto della marchesa. Venne la volta delle tragedie, e la dama chiese come mai vi fossero tragedie talvolta rappresentate, ma illeggibili. L’uomo di gusto spiegò assai bene come un lavoro teatrale possa aver qualche interesse senza valer nulla. In brevi parole dimostrò che non basta produrre una o due situazioni, di quelle che in ogni romanzo si trovano e che sempre seducono lo spettatore, ma che bisogna esser nuovo senza bizzarria, spesso sublime e sempre naturale, conoscere il cuore umano e farlo parlare, essere gran poeta senza che mai nessun personaggio del lavoro appaia poeta, conoscere perfettamente la lingua, parlarla con purità, con armonia continua, senza che il senso scapiti mai per la rima. «Chiunque» aggiunse «non osservi tutte queste regole, può fare applaudire in teatro una o due tragedie, ma non sarà mai ascritto nel novero dei buoni scrittori. Pochissime sono le tragedie buone: alcune sono idilli dialogati, scritti bene e ben rimati, altre ragionamenti politici da addormentare il prossimo, ovvero amplificazioni repellenti, altre sogni d’energumeni in barbaro stile, motti spezzati, lunghe apostrofi agli dei, perché agli uomini non si sa discorrere, massime false, luoghi comuni ampollosi.»
Candido ascoltò queste ragioni attentamente, e concepì un’alta idea del parlatore; e siccome la marchesa s’era data cura di metterselo accanto, le si accostò all’orecchio prendendosi la libertà di chiederle chi fosse l’uomo che parlava tanto bene. «È un dotto» disse la dama «che non giuoca, e che l’abate talvolta conduce a cenare da me. È capacissimo in fatto di tragedie e libri, e ha fatto una tragedia fischiata e un libro di cui si è visto fuor di bottega del suo libraio un esemplare solo, dedicato a me.» «Grand’uomo» disse Candido «un secondo Pangloss!»
Allora, voltandosi a lui, gli disse: «Signore, certo voi siete del parere che tutto sia per il meglio nel mondo fisico e morale, e che nulla poteva essere diverso?». «Io, signore?» rispose il dotto. «Tutt’al contrario: mi pare che da noi tutto vada a rovescio, e che nessuno sappia qual sia l’ordine, quale il compito propri, né quel che fa né quel che deve fare; e che fuori di cenare, cosa abbastanza gaia e dove appare un accordo sufficiente, tutto il tempo rimanente trascorra in litigi impertinenti: giansenisti contro molinisti, parlamentari contro ecclesiastici, letterati contro letterati, cortigiani contro cortigiani, finanzieri contro il popolo, mogli contro i mariti, parenti contro parenti, un’eterna guerra.»
Candido gli rispose: «Ho visto di peggio, ma un savio, il quale in seguito ebbe la disgrazia di essere impiccato, mi insegnò che tutto questo va a meraviglia, e che son ombre in un bel quadro». «Il vostro impiccato» disse Martino «canzonava il prossimo. Queste ombre sono macchie orribili.» «Gli uomini» disse Candido «fanno le macchie, di cui non possono far a meno. «Dunque» disse Martino «non per colpa loro.» I giocatori, in gran parte, non potendo capirci nulla, bevevano; e Martino ragionò col sapiente, mentre Candido raccontò parte delle sue avventure alla padrona di casa.
Dopo cena, la marchesa condusse Candido nel suo gabinetto e lo mise a sedere sopra un canapè. «Ebbene» gli disse «amate sempre perdutamente madamigella Cunegonda di Thunder-ten-tronckh?» «Sì, signora» rispose Candido. La marchesa con un sorriso tenero gli replicò: «Mi rispondete alla maniera di un giovanotto di Vestfalia: un francese mi avrebbe detto: "Ho amato veramente madamigella Cunegonda, ma nel vedervi, o signora, temo di non amarla più"». «Ahimè, signora» disse Candido «risponderò come vi piacerà.» «La vostra passione per lei» disse la marchesa «è cominciata nel raccoglierle il fazzoletto; voglio che raccogliate la mia giarrettiera.» «Con tutto il cuore» disse Candido, e la raccolse. «Ma voglio che me la rimettiate» disse la dama. E Candido gliela rimise. «Vedete, voi siete forestiero» disse la dama. «I miei innamorati parigini io li faccio languire talvolta quindici giorni, ma a voi mi arrendo fin dalla prima notte, perché bisogna far gli onori del proprio paese a un giovanotto di Vestfalia.» Avendo scorti due enormi diamanti alle mani del suo giovane forestiero, la bella ne fece l’elogio con tanta buona fede, che dalle dita di Candido passarono in quelle della marchesa.
Candido, tornando col suo abate perigordino, sentì qualche rimorso d’essere stato infedele a madamigella Cunegonda. Il signor abate s’investì del suo disagio. Delle cinquantamila lire perse da Candido, e del valsente dei due diamanti, regalati a mezzo e a mezzo estorti, toccava a lui assai poco. Disegnava dunque di approfittare, per quanto stesse in lui, dei vantaggi che avrebbe potuto procurargli la conoscenza di Candido. Gli parlò molto di Cunegonda, e Candido gli disse che avrebbe chiesto perdono alla bella della propria infedeltà, non appena fosse per incontrarla a Venezia.
Il perigordino raddoppiava cortesie e premure; e prendeva tenero interesse a quanto diceva Candido, a quanto faceva, a quanto si proponeva di fare.
«Dunque, signore» gli disse «avete un appuntamento a Venezia?» «Sì» disse Candido «signor abate. Devo assolutamente andare a trovare madamigella Cunegonda.» E così, indotto dal piacere di discorrere di ciò che amava, raccontò, all’usanza sua, parte delle proprie avventure con quella illustre vestfaliana.
«Credo » disse l’abate «che madamigella Cunegonda debba avere molto ingegno a scrivere lettere graziosissime.» «Non ne ricevetti mai» disse Candido «perché, figuratevi, essendo stato scacciato per amor suo dal castello, non ho potuto scriverle, e poco dopo imparai che era morta, e in seguito la ritrovai, la ripersi e le ho mandato a duemilacinquecento leghe da qui un espresso, a cui aspetto risposta.»
L’abate ascoltava attento, e sembrava trasognato alquanto. Presto abbracciò teneramente i due forestieri e si accomiatò. Il giorno dopo Candido destandosi ricevette una lettera così concepita:
«Signore e mio carissimo amante, da otto giorni sono in questa città ammalata. Vengo a sapere che siete qui. Volerei fra le vostre braccia, se potessi muovermi. Seppi che siete passato per Bordeaux, dove ho lasciato il fedel Cacambo e la vecchia, che mi devono seguire presto. Il governatore di Buenos Aires s’è presa ogni cosa, ma il vostro cuore mi rimane. Venite, la vostra presenza mi ridarà la vita, o mi farà morire di piacere.»
Questa incantevole, questa insperata lettera, rapì Candido in una inesprimibile gioia, e la malattia della sua cara Cunegonda lo oppresse di dolore. Diviso fra l’uno e l’altro sentimento, piglia oro e diamanti, e si fa condurre con Martino all’albergo, dov’era madamigella Cunegonda. Entra tremante di commozione, gli palpita il cuore ed ha singhiozzi nella voce, vuol aprire le cortine del letto, vuol far venire un lume. «Non lo fate!» gli dice la donna che le faceva compagnia «il lume la uccide.» E subito costei richiude le cortine. «Cara la mia Cunegonda» dice Candido piangente «come state? Se non potete vedermi, almeno parlatemi.» «Non può parlare» dice costei. La signora mette fuori dal letto una mano carnosetta, che Candido innaffia lungamente di lacrime, e che poi colma di diamanti, lasciando un sacchetto d’oro sulla poltrona.
Fra tali trasporti, giunge un aiutante delle guardie, seguito dall’abate perigordino e da una squadra. «Ecco dunque» dice quello «i due stranieri sospetti?» Li fa immantinente arrestare, e ordina ai suoi bravi di trascinarli in prigione. «Non si trattano così i viaggiatori nel Dorado» disse Candido. «Son più manicheo che mai» disse Martino. «Ma» disse Candido «dove ci conducete, signore?» «In un fondo di prigione» disse l’aiutante.
Martino aveva ripreso il suo sangue freddo, e decise che la signora pretesa Cunegonda era una birba, il signor abate perigordino un birbo, che s’era affrettato ad abusare dell’innocente Candido, e l’aiutante un altro birbo ancora, del quale non era difficile sbarazzarsi.
Candido, illuminato dal suo consiglio, piuttosto che esporsi al procedere della giustizia, e d’altronde impaziente di rivedere la vera Cunegonda, propose all’aiutante tre diamanti da circa tremila pistole l’uno. «Ah, signore!» gli disse l’uomo dal bastone d’avorio «voi siete l’uomo più onesto del mondo: tre diamanti! e ognuno da tremila pistole! Signore, io mi farei uccidere per voi, invece di condurvi in una cella! Si stanno arrestando tutti i forestieri, ma lasciate fare a me: ho un fratello a Dieppe in Normandia; vi ci conduco, e se aveste qualche diamante per lui, avrà cura di voi, come se foste me stesso.»
«E perché metton dentro i forestieri?» disse Candido. L’abate perigordino a questo punto prese la parola e disse: «Perché un miserabile dei paesi d’Atrebazia ha ascoltato delle sciocchezze, e questo poco è bastato a fargli commettere un parricidio, non già come quello del 1610 del mese di maggio, ma come quello del 1594 del mese di dicembre, e tale, quali furono commessi in buon numero in altri anni e in altri mesi da altri miserabili, che avevano ascoltate delle sciocchezze».
L’aiutante allora spiegò...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Candido
  4. Capitolo I
  5. Capitolo II
  6. Capitolo III
  7. Capitolo IV
  8. Capitolo V
  9. Capitolo VI
  10. Capitolo VII
  11. Capitolo VIII
  12. Capitolo IX
  13. Capitolo X
  14. Capitolo XI
  15. Capitolo XII
  16. Capitolo XIII
  17. Capitolo XIV
  18. Capitolo XV
  19. Capitolo XVI
  20. Capitolo XVII
  21. Capitolo XVIII
  22. Capitolo XIX
  23. Capitolo XX
  24. Capitolo XXI
  25. Capitolo XXII
  26. Capitolo XXIII
  27. Capitolo XXIV
  28. Capitolo XXV
  29. Capitolo XXVI
  30. Capitolo XXVII
  31. Capitolo XXVIII
  32. Capitolo XXIX
  33. Capitolo XXX
  34. Copyright