Una valle piena di stelle
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Una valle piena di stelle

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Una valle piena di stelle

Informazioni su questo libro

Brunisa ha tredici anni e pensa che il destino le abbia fatto fin troppi dispetti: prima un nome stravagante, poi le leggi razziali di Mussolini e adesso la guerra che devasta l'Europa e mette in pericolo le vite di milioni di ebrei come lei. Suo padre, però, non si rassegna, e decide di affrontare con i suoi un viaggio clandestino per portarli oltre il confine svizzero, in una valle "piena di stelle". Ma il pericolo cresce a ogni passo e non sarà così semplice..

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804599012
eBook ISBN
9788852011238

PARTE SECONDA

Svizzera

Capitolo ottavo

Nello stanzone–mensa non c'era nessuno. Solo tavoli, sedie e in fondo due grandi bidoni fumanti.
– Sarà latte – pensò Brunisa delusa. I bidoni erano identici a quelli del latte.
Un soldato silenzioso con un mestolo in mano sembrava aspettare proprio loro.
Brunisa si avvicinò per prima e in punta di piedi sbirciò dentro al bidone. Quasi si sentí mancare. Stufatino con patate! I bidoni erano pieni di un denso, stuzzicante, fantastico stufatino con patate.
Pieni, pieni!! I due bidoni erano proprio pieni!
– Mamma, posso prenderne? – chiese Brunisa con aria incredula.
A dire il vero non è che sentisse il bisogno di un permesso, semmai di una conferma. Voleva essere proprio sicura che non stava sognando, che non fosse tutto finto, oppure che dovesse aspettare l'arrivo di chissà quanta altra gente.
– Certo – fece la mamma, rinfrancata dal fatto che Brunisa tornava a rivolgersi a lei come l'obbediente figlia di un tempo – prendi un piatto e una forchetta, poi ci penserà quel militare...
Brunisa afferrò il piatto e prese una forchetta dal mucchio sparso sul tavolo vicino e con lo sguardo sembrava guidare la mano del soldato, incitandolo silenziosamente a non fermarsi con quel suo mestolo.
Ma forse il militare non smetteva di riempire solo perché Brunisa continuava a tenergli il piatto ben fermo sotto gli occhi.
Quando vide quella montagna di stufato – carne, carne vera! – e patate sugose lí a portata di mano, Brunisa capí che non avrebbe potuto resistere nemmeno il tempo per arrivare a un tavolo.
Sentiva l'irresistibile istinto di afferrare con le dita un pezzo di carne o magari solo una patata e di mangiarli all'istante. Era come un lupo sceso dalla montagna in cerca di cibo e che ha appena catturato la sua prima preda. Un lupo non aspetterebbe, no?
Ma riuscí ad arrivare al tavolo e quasi barcollava per lo sforzo che si era imposto.
– Brunisa! – la mamma, nel vederla avventarsi sul piatto parve rendersene conto solo in quel momento. – Brunisa, hai ragione, sono ventiquattro ore che non mangi!
Era vero.
Nel ristorante di Como le si era chiuso lo stomaco per la paura di quei tedeschi che erano entrati e non aveva potuto inghiottire niente, e la sera nella baita aveva rifiutato anche le misere castagne arrosto. Poi prima dell'alba si erano mossi... quante cose erano successe prima di questo stufatino!
Ma Brunisa ora era troppo occupata a mangiare, per mettersi a fare il bilancio degli ultimi giorni trascorsi.
Mangiò tutto quello che le avevano messo nel piatto, lo pulí per bene con una fetta del pane che avevano messo sul tavolo e del cui gusto "panoso" aveva perso la memoria – asciutto, croccante, senza spaghi, senza chiodi! – e corse dal soldato per farselo riempire un'altra volta.
– Ma non è troppo? Guarda Brunisa che ti farà male! – la mamma ora che era sicura di avere ripreso la sua autorità, continuava a comportarsi da "mamma" ma anche lei e Philip stavano mangiando voracemente.
– Ho fame! Ho fame! – Brunisa rispondeva masticando, con una specie di allegra follia.
Per la gioia, o forse soltanto per il cibo caldo e abbondante, le si erano colorate le guance. Anche gli occhi sbarcavano scintille e sembrava che le mani si fossero messe da sole a fare capriole.
Quasi eccitata dal suo stesso comportamento, ora Brunisa saliva di tono.
Improvvisò un balletto, e alla fine si alzò in piedi, tese le braccia al cielo e gridò forte:
– Grazie Svizzera!!! Graazieee Svizzeeera!!!
– È ubriaca quella ragazza? – chiese una voce dal fondo della stanza.
Si voltarono tutti.
Toh, era proprio una delle sorelle Dina, Irma, quella che aveva dato lezioni di latino a Brunisa quando si era presa il morbillo e aveva perso quindici giorni di scuola.
Quindi le sorelle Dina, anche se non erano proprio fra gli ultimi nomi del grande registro, non erano ancora partite.
Adriana le fece un sorriso emozionato, poi, però, pensò sorridendo: "Una professoressa è sempre una professoressa." Il tono con cui Irma aveva detto: "È ubriaca quella ragazza?" non era affatto scherzoso. Anche qui, in capo al mondo e vivi per miracolo, Irma non aveva potuto fare a meno di mostrare la sua evidente disapprovazione.
Poi, però, anche lei si sciolse e cominciò a chiedere ad Adriana e Philip come avevano fatto a passare la frontiera.
Philip le raccontò a grandi linee cos'era successo durante quella giornata che era sembrata lunga un mese.
Raccontò della stella ebraica cucita nella manica, ma non di quando Brunisa si era aggrappata alla gamba del tavolo.
– Cosí siete qui solo da poche ore? – e la professoressa Dina fece una piccola risata di sufficienza, come una veterana che ha incontrato le prime reclute.
– Noi siamo qui da quattro giorni – disse Irma – ed è già il massimo. Ma mia sorella si è presa una brutta storta al piede mentre camminavamo in montagna. Ora sta meglio e credo che andremo via domani.
– Ma via dove? – chiese Adriana. – Lo sa dove ci mandano?
– Niente, a noi non hanno detto niente. Da qualche parte qui nel Ticino, credo.
– Comunque – aggiunse dopo un lungo silenzio e come parlando tra sé – noi siamo state fortunate, ci hanno accettato con una certa facilità... mah... dei giorni sono di manica larga nell'accogliere la gente... dei giorni rimandano tutti indietro... vai a capire come funziona!
– Allora non è successo solo a noi... – mormorò Philip turbato.
– Macché, abbiamo saputo delle cose terribili... qualche giorno fa... Brunisa, ti ricordi di quel tuo compagno alla scuola ebraica, Renato... quello un po' piú grande di te... non stava nella tua classe... alto, con gli occhiali... beh, era arrivato fino a qui con tutti i suoi, i genitori, la sorella e il fidanzato della sorella... li hanno respinti... e appena dall'altra parte, tempo dieci minuti li avevano già presi i tedeschi...
– Ma come fa a saperlo? – chiese Adriana fra dubbiosa e sconvolta.
– I contrabbandieri... quelli che hanno accompagnato anche voi, no?... quando fanno su e giú portano anche le notizie... e non sono sempre buone.
E la professoressa Dina si accasciò, muta e pensierosa. Anche Adriana e Philip restarono senza parole.
– Beh, da quello che vedo qui, in questa sala vuota... oggi che giorno è?... ah sí, il 15 ottobre... – disse alla fine – allora il 15 ottobre deve essere uno di quei giorni "no"... oggi siete passati soltanto voi tre e in modo un po' avventuroso.
Incontrare Irma Dina era stata una sorpresa, e adesso Adriana coltivava la concreta speranza che ci fossero anche i Sacerdoti.
I loro nomi erano quasi in fondo al quadernone con le firme, e perciò dovevano essere arrivati da poco, forse addirittura il giorno prima. Ed erano proprio loro, non c'era da sbagliarsi, anche il nome corrispondeva, i Sacerdoti di Asti, cugini dei cugini di Milano.
Con quei cugini e con i Sacerdoti, prima che Mussolini lo proibisse, Adriana e Philip avevano fatto delle vacanze cosí belle, ogni estate in Liguria, e l'idea di ritrovarseli qui era come vedere le immagini del passato che ti vengono incontro di corsa, tendendoti le braccia.
Erano loro, infatti. Quando Adriana scorse Angela da lontano, il suo cuore fece una capriola di gioia. Anche Angela la vide e le corse incontro.
E mentre si abbracciavano, Adriana e Angela un po' di lacrime non se le poterono impedire.
Ritrovarsi proprio qui, controllare con un abbraccio, sentire concretamente, toccandosi, che «è proprio vero, siamo salvi, siamo protetti... è capitato a noi questo miracolo» era veramente una emozione intensa.
Non come con la professoressa Dina. Con lei si erano scambiate scarne informazioni, ma era come se si fossero incontrate in una stazione di cure termali.
Insieme ad Angela c'era suo figlio Mario, sempre imbronciato come da piccolo, e di lí a un momento spuntò anche Piero, il marito.
Ora erano tutti lí a mischiare commozioni. Era come se ognuno volesse regalare all'altro una scheggia delle tante radici che li avevano legati.
– Ti ricordi?... E ricordi?...
Sembrava che parlassero di un tempo lontanissimo e i ricordi si accavallavano e si accavallavano le domande.
– E Franco? E Gianni con la sorella?
– Ma non erano già andati via?
E poi: – Racconta, racconta... – si rubavano le parole e si rubavano a pezzi le storie della loro fuga, che poi erano storie che si assomigliavano tutte.
Angela li portò poi a vedere lo stanzone dove avrebbero dovuto dormire tutti insieme.
C'era della paglia per terra e alcune coperte piegate con precisione svizzera, con la croce della Confederazione bene al centro.
– Mettete una delle coperte su quei fili – disse Angela, e mostrò delle corde tese da una parte all'altra della stanza, come pronte a ricevere un immaginario bucato. – Cosí avrete una parete che isolerà la vostra "stanza" dalla nostra – e Angela scoppiò a ridere, scuotendo la testa di riccioli biondi, rimasti tali e quali nel tempo.
– Non è male – commentò Adriana.
Che miracolo aveva mai compiuto Angela! Adriana era tornata serena e si guardava attorno quasi compiaciuta.
La grande stanza appariva semivuota e la paglia, anche se non era tanto morbida, almeno era abbondante.
Brunisa vi saltò sopra e malgrado avesse provato a sue spese che la paglia non è elastica come un materasso, la trovò subito meravigliosamente comoda. Certo meglio di quel materasso fatto di foglie di granturco su cui si erano buttati in cinque, nella baita.
A pensare alla loro fuga, Brunisa sentí un brivido che le saliva su per la schiena.
– Secondo te – chiese Piero a Philip, come se avesse letto nel pensiero di Brunisa – secondo te vi ha traditi, quel vostro contrabbandiere? Era già d'accordo con il fascista che vi ha fermati?
– Non... non saprei, non potrei dirlo... e d'altra parte... – Philip appariva incerto e sembrava quasi sofferente, di fronte a un'ipotesi alla quale lui stesso aveva cercato di non pensare. – Non ci posso credere... quando eravamo a casa del capo, quel contrabbandiere era sempre lí, mangiava con noi, scherzava...
Brunisa, che ascoltava, pensò ad un tratto al terribile sguardo indagatore che Carlo aveva puntato su Valerio... Anche Carlo aveva avuto un sospetto?
– No, no – si riprese Philip – credo che sia stato un caso, un maledetto caso. E poi io voglio credere che sia stato cosí – sottolineò con improvvisa irruenza, come se dipendesse da lui e dalla sua scelta far vincere il bene o il male del mondo.
– Giochi a carte con me? – chiese Mario a Brunisa.
Un bambino! Brunisa non era davvero entusiasta ma si sforzò.
– A che cosa vuoi giocare? A rubamazzo? – chiese svogliata.
– No, a poker, ti va?
– A poker! Ma quanti anni hai? Non hai otto anni, tu?
– Quasi nove, e allora? – E Mario fece la faccia di sufficienza. – Dai – insistette – ci giochiamo qualche soldo!
– Ma io non ho neanche mezza lira... abbiamo speso tutto, ma proprio tutto, fino all'ultimo centesimo... e poi non so giocare a poker.
Non aveva soldi e non sapeva giocare a poker.
"Che noia avere incontrato una femmina" diceva chiaramente la faccia di Mario, che si allontanò piú che mai sprezzante.
Era arrivata la sera. Nello stanzone, Brunisa e i genitori si adagiarono sulla paglia e armeggiarono per coprirsi bene con le coperte. Ne avevano a sufficienza per stenderne qualcuna sulla paglia e le altre sopra.
– Peccato che non sono un maschio – scherzò Brunisa – se no su questa paglia sembreremmo la Madonna, San Giuseppe e il Bambino...
– Ma non sei ebrea? Mi sembra un paragone un po' curioso per una ragazza ebrea... e con quella stella di David che si è voluta portar dietro... – ribatté Philip.
– Peggio per te che mi hai mandato a lezione dalle suore di Nevers.
Era vero.
Philip aveva insegnato il francese a Brunisa fin dai primi anni e spesso le parlava addirittura in francese, ma per l'inglese aveva preferito altri maestri. E cosí erano venute fuori le suore di Nevers, che di lingue ne sapevano di tutte le specie.
Comunque, anche senza essere Gesú Bambino, su quella paglia non si stava male.
Le coperte erano ruvidamente calde, e quella piazzata sul filo a fare da divisorio per chiuderli in uno stretto abbraccio, come se fossero l'unica famiglia del mondo intero, valeva dieci pareti di dieci case.
Nel silenzio e nel buio però, si sentí un suono lieve e insistente. Philip si rizzò.
Sí, qualcuno stava piangendo ed era vicinissimo a lui.
– Cosa succede? – chiese Philip allarmato – chi è che piange?
– Scusami, sono io – Era la voce rotta di Adriana.
– Ma perché piangi, Adriana? Proprio ora che è tutto finito. Siamo in Svizzera, lo sai... non staremo comodissimi qui sulla paglia, ma siamo salvi, e siamo insieme...
Al sentirsi rivolgere la parola Adriana aveva cominciato a piangere piú forte. Ora singhiozzava.
– È tutta colpa mia, è tutta colpa mia...
– Ma cosa è colpa tua?
– Potevamo essere salvi da un pezzo... da anni... potevamo stare in una vera casa e Brunisa a scuola... e senza tutti gli spaventi che abbiamo fatto prendere a quella povera bambina... ma come ho potuto essere cosí stupida e egoista!...
Adriana continuò con i singhiozzi un po' in silenzio, ma poi riprese a parlare smozzicato.
– Tua madre ci voleva in Inghilterra... era cosí semplice... l'ambasciata ci avrebbe aiutato a portare via persino i mobili... e... tutto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Parte prima - Il pericolo
  5. Parte seconda - Svizzera
  6. Parte terza - Libertà
  7. Indice