Chi partecipa ai miei gruppi di psicoterapia crede di conoscere il motivo che lo porta lì: per qualcuno è l’attacco di panico; per qualcun altro una relazione insoddisfacente oppure un abbandono da cui non riesce a liberarsi, un lavoro in cui non si sente realizzato, una difficoltà di rapporto con i figli.
Noi non facciamo niente senza pensare a un motivo, a una causa.
Così, tutti sanno perché stanno male, perché sono insoddisfatti; tutti hanno identificato “la loro causa” e puntualmente pensano che, cambiando vita, rimettendo le cose a posto, tutto tornerà a funzionare come prima.
Ma la scoperta che il cervello è un organo in continuo divenire, che mentre sto scrivendo tutto il mio organismo si sta modificando, non ci ha aiutato a riflettere sul fatto che colui che ripensa al suo problema è un’altra persona rispetto a quello che ha “subito” il problema. E che, quindi, la causa del malessere di un’ora fa non può essere la stessa di adesso.
Come possono due persone diverse, come posso io, che non sono quello che si è svegliato il mattino, avere al tramonto lo stesso conflitto dell’alba?
Scrive a questo proposito la psicanalista junghiana Marie-Louise von Franz: “Ciò che è giusto oggi può essere sbagliato domani […]. Oggi la situazione è questa e la reazione è questa; domani la situazione sarà la stessa ma la reazione sarà diversa. Non ci sono più regole; ogni momento è diverso e acquista una potenzialità creativa; ogni segmento temporale contiene una possibilità creativa e non c’è ripetizione”.1
Se il mio partner non mi piace più, se l’ansia viene a trovarmi spesso, se non mi sento amato, se la sofferenza domina gran parte della mia giornata, occorre che mi faccia una domanda chiave: c’è qualcosa in me che scatena il disagio e non dipende da nessuna delle cause che io ho riconosciuto?
Non spiegare mai il tuo malessere
La domanda chiave potrebbe, però, essere un’altra: serve davvero identificare la causa del mio disagio? Oppure la ricerca della causa dei miei mali, l’identificazione di un evento scatenante, l’interpretazione del mio malessere finiscono per esasperare, cronicizzare i miei disturbi?
Roberta, ogni volta che le viene un attacco di panico, lo attribuisce alla sua insicurezza, al fatto di aver avuto un padre-padrone dominatore di sua madre che “ha trasmesso paura per ogni azione, anche le più semplici, dall’andare a fare la spesa, a portare i bambini a scuola o a ballare con le amiche”.
“Da che mi ricordo, mi sono sempre sentita in colpa e ancora adesso ogni volta che sono felice, mi dico subito: ‘Tanto finirà presto’.”
Tutti sono convinti di partecipare ai gruppi di psicoterapia per guarire, per mandare via il male, il dolore psichico che li attanaglia, che li costringe a un tipo di vita che non vorrebbero vivere. “Quando starò bene, allora sì che potrò andarmene da casa, lasciare mio marito, mettermi a lavorare.”
Ragionando così, inevitabilmente i nostri disturbi diventano i nostri alibi.
Mentre sto cercando la causa esterna, mentre mi dico che non vado bene, mentre costruisco progetti per me, per il mio futuro, c’è “qualcosa” che da un territorio sconosciuto della mia anima mi sta mandando un disagio… Cosa vuole da me?
Nei molti anni di questo lavoro, una cosa mi si è chiarita: che spiegare il disturbo, collegarlo con una o più cause scatenanti, finisce inevitabilmente col complicarlo, col renderlo cronico. Ancora di più, l’opposizione al disagio lo rinforza. Del resto, come potrebbe il mio piccolo Io contrastare un oceano di energia qual è, per esempio, l’attacco di panico che scaturisce dalle parti più profonde, più arcaiche del mio cervello?
Cercare il disagio all’interno della propria storia lo rende sempre più insopportabile, come individuare che cosa non va bene di me.
In realtà, qualcosa di sconosciuto mi manda l’ansia, la depressione, l’insonnia; qualcosa che proviene dalla mia profondità, dai miei abissi, e, di fronte a ciò, l’unica cosa che io so fare è dire: “No, non doveva capitare a me, non voglio essere sopraffatto, io devo combattere e basta”.
Mentre io mi oppongo e cerco le cause, il disagio si amplifica e non faccio l’unica cosa che va fatta, l’unica cosa che il mio inconscio mi chiede: cedere, arrendermi, non oppormi.
Qualcosa dentro di me non vuole i miei ragionamenti, non vuole che io decida dove andare, che vita fare, che percorso seguire.
Non vuole fare quello che consigliano gli amici – “Reagisci!” – e che non serve a nulla.
Vuole solamente inondarmi di un’energia psichica sconosciuta, vuole portarmi altrove, su un sentiero in cui non vincano i soliti ragionamenti, in cui io non sappia più chi sono, dove vado, che interessi ho.
Per questo, all’inizio di ogni gruppo di psicoterapia, dico che siamo insieme per cercare i disagi, per chiamarli, per vedere quanto siamo capaci di reggerli.
Che pianta sei?
Quando qualcuno soffre di attacchi di panico, mi metto vicino a lui e lo invito, dolcemente, a non opporsi.
“Da dove hai sentito partire l’attacco di panico?”
Rosaria, 34 anni, mi risponde: “Dalla pancia, e poi sale su fino in gola”.
“Bene” le dico, “proviamo a cercarlo a occhi socchiusi, a prendere semplicemente contatto col fastidio della pancia e a lasciarlo salire dolcemente fino al petto, senza opporci.”
Sembrerà sbalorditivo, ma ognuno riesce a farlo da solo: si impara facilmente a cedere, a non opporsi al disturbo. Bastano pochi attimi per abituarsi, per creare una “coscienza cedevole”, che è il primo gradino della discesa e dell’incontro verso la propria identità.
E se i disagi non rappresentassero nient’altro che il modo collettivo di un’epoca per distanziarsi dalla superficie, dai pensieri, dall’”essere sempre fuori” e quindi lontani dal nostro nucleo, dalla nostra profondità?
Coi disagi, “qualcosa” ci chiama; qualcosa vuole portarci a un altro livello di energia psichica, dove essere vicini alla nostra essenza.
Che ne è di una pianta se perde le radici e crede di essere solo ciò che tocca le sue foglie, se crede di vivere solo in superficie?
Che pianta sei? Questa, per me, è la prima domanda. Difficile da comprendere in una cultura così innaturale come la nostra che ricorre allo psicofarmaco appena arriva il primo dolore psichico.
D’altro canto, come riporta David Cayley, Ivan Illich, sociologo di origine austriaca, sottolinea bene come questo risultato derivi da una mentalità sbagliata che, negli ultimi cinquanta-sessant’anni, ci ha condotto a fare un uso sempre più improprio dei farmaci.
Illich ricorda che già quando scrisse Nemesi medica era preoccupato “della ‘medicalizzazione’ che distruggeva o minava l’arte di soffrire del paziente, che minava la capacità delle persone di sopportare la propria unicità, sostenendo che erano anormali e necessitavano di correzioni o miglioramenti.”2
Che pianta sei?
E se l’ansia fosse il tentativo delle radici di gettar via l’idea che tu ti sei fatto della vita, di modificare i tuoi schemi, il tuo modo di considerare i rapporti, le relazioni, l’eros?
Che pianta sei?
Perché una cosa certa: se stai interpretando un personaggio che non corrisponde alla tua vera natura, se non stai facendo i tuoi fiori, i tuoi frutti, se stai lottando per affermare un progetto che hai scelto per te e questo progetto non corrisponde alla tua natura più intima, allora c’è da augurarsi che il dolore psichico arrivi, perché è l’unico modo per fermare l’Io, le sue elucubrazioni mentali, la sua fuga dall’essenza, dal nucleo, dal centro di te stesso.
Non c’è stata un’epoca così iperpsicologica come la nostra, così cerebrale, così pesante…
Al gruppo di psicoterapia sta meglio quasi subito chi smette di pensare alle cause dei suoi disturbi, chi accetta che qualcosa di sconosciuto gli sta lanciando, attraverso i disturbi, dei messaggi.
“Ricorda” scrive l’imperatore filosofo Marco Aurelio “che i fili li muove la cosa nascosta dentro di noi: la cosa che ci dà la parola, la cosa che ci dà la vita, la cosa, è il caso di dirlo, che ci rende uomini.”3
Cosa vuole da me la depressione? Dove mi vuole portare?
Cosa vuole fare di me l’insonnia?
Che progetti ha per me la mia anima, dato che mi invia l’attacco di panico? Dove vuole arrivare? Cosa vuole fare di me?
Accogli il disagio
Chi partecipa ai miei gruppi di psicoterapia sa che, comunque sia, tutta la strategia terapeutica si basa sul non opporsi, sul cedere, sull’accogliere il disagio.
Io non so perché sto male. Sì, apparentemente dipende dal fatto che ho abortito, oppure da un abbandono che non riesco ad accettare, o magari da un figlio che si droga, da mio marito che mi tradisce. Ma io non lo so. Io so solo che soffro: questo è vero.
Se non ne conosco il motivo, se davvero non lo voglio sapere e il disturbo viene dalle parti più profonde di me stesso, esso nasce da me e a maggior ragione non lo devo combattere.
Come diceva il grande simbolista René Schwaller de Lubicz, “le malattie sono confessioni dell’anima”, e allora devo sapere che la mia sofferenza, se non mi oppongo, mi sta liberando, mi sta facendo un regalo: quello di realizzare una persona più ampia, più aperta, più matura, capace di usare le funzioni creative che la abitano e che sono state rimosse, e quindi di liberare la coscienza, di amplificarla, che è il vero progetto dell’evoluzione.
Non guarirò pensandoci su, ragionandoci su, ma semplicemente cercando il modo migliore per non oppormi al disagio.
Francesco, durante un attacco di panico, si è detto: “Piuttosto che vivere così, meglio morire”.
“Ho detto all’attacco di panico, mentre sudavo e non riuscivo a respirare: “Ma sì, mi lascio crepare!”. Subito la paura è aumentata, ma, via via che sentivo che crollavo, che non avevo più nessuna volontà, che ero in balia del disturbo senza oppormi, sentivo che se ne andava.
“Da allora, ogni volta che veniva, mi sono detto: “Dài muori, dài crolla”.
“Sono guarito semplicemente così.”
Lo stesso ha fatto Margherita.
Dopo anni di attacchi di panico, dopo tante fughe dalle gallerie in auto, un giorno ha fermato,...