A un cerbiatto somiglia il mio amore
eBook - ePub

A un cerbiatto somiglia il mio amore

  1. 792 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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A un cerbiatto somiglia il mio amore

Informazioni su questo libro

Israele, guerra dei Sei Giorni. Avram, Orah e Ilan, sedicenni, sono ricoverati nel reparto di isolamento di un ospedale di Gerusalemme. I tre ragazzi si uniscono in un'amicizia che si trasformerà, molto tempo dopo, nell'amore e nel matrimonio tra Orah e Ilan. Dopo trentasei anni, Orah è una donna separata, madre di due figli, Adam e Ofer. Quest'ultimo, militare di leva, accetta di partecipare a un'incursione in Cisgiordania. Preda di un oscuro presentimento, Orah decide di abbandonare tutto e partire, per non essere presente quando gli ufficiali dell'esercito verranno a darle la notizia della morte del figlio. Ad accompagnare la donna c'è Avram, ricomparso nella sua vita dopo più di un ventennio. Il loro viaggio diventa occasione di riflessione e di rimpianto, ma anche di gioia e tenera rievocazione. Fino a che arriverà il momento di tornare a fare i conti con il presente che, tutt'intorno, preme inesorabile.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804592747
eBook ISBN
9788852010521

David Grossman

A UN CERBIATTO
SOMIGLIA IL MIO AMORE

Romanzo

Traduzione di Alessandra Shomroni

Mondadori

A un cerbiatto somiglia il mio amore

A Michal
A Yonatan e Ruti
A Uri, 1985-2006

Ehi, tu, sta’ zitta!
Chi è?
Sta’ zitta! Hai svegliato tutti!
Ma io la tenevo per mano.
Che cosa?
Sul masso, eravamo sedute e…
Ma di che masso parli? Lasciami dormire.
A un tratto è caduta.
Stavi cantando nel sonno, ti rendi conto?
Ma se dormivo.
E urlavi!
Mi ha lasciato la mano, è caduta.
Basta, dormi.
Accendi la luce.
Sei impazzita?
Ho dimenticato…
Ci uccideranno se accendiamo la luce.
Aspetta…
Che c’è?
Cantavo?
Cantavi, urlavi, tutto insieme. Adesso sta’ zitta.
Cosa cantavo?
Cosa cantavi?!
Mentre dormivo, cosa cantavo?
E che ne so io? Urlavi. Ecco cosa cantavi. Cosa cantavo, cosa cantavo…
Ma tu hai detto che cantavo.
Era una canzone senza… non lo so. Basta, io…
Non te la ricordi?
Ma se sono più morto che vivo…
Ma chi sei?
Stanza numero tre.
Anche tu in quarantena?
Devo tornare in camera.
Non andare… Te ne sei andato? Ehi, aspetta… Se n’è andato… Ma cosa cantavo?
La notte seguente lui la svegliò di nuovo, ancora furioso perché cantava a squarciagola e svegliava tutto l’ospedale. Lei lo supplicò di ricordare se era la stessa canzone della sera prima, lo voleva sapere disperatamente, per via del sogno che aveva fatto e che faceva quasi ogni notte in quegli anni. Un sogno candido, in cui tutto era bianco: le strade, le case, gli alberi, i gatti e i cani e anche il masso sull’orlo del precipizio. Persino Ada, la sua amica dai capelli rossi, era completamente bianca, senza una goccia di sangue nel viso e nel corpo. Ma lui non ricordava che canzone aveva cantato. Tremava tutto, e lei, distesa nel letto, tremava con lui. Sembriamo un paio di nacchere, disse, e la ragazza, con sua sorpresa, scoppiò in una risata fresca e squillante che lo stimolò. Aveva consumato tutte le energie per arrivare lì dalla sua camera, trentacinque passi – un passo e una pausa, un passo e una pausa. Si era sorretto alle pareti, agli infissi delle porte, ai carrelli vuoti del cibo. Sulla soglia della stanza della ragazza si era accasciato e raggomitolato sull’appiccicoso pavimento di linoleum. Per lunghi istanti entrambi respirarono affannosamente. Lui avrebbe voluto farla ridere ancora ma non riusciva a parlare. Poi si addormentò, probabilmente.
Di’ un po’…
Che c’è? Chi è?
Sono io.
Tu …
Dimmi, sono sola in camera?
E come faccio a saperlo?
Non vedo niente. Ehi, c’è qualcuno?
Ci sono io.
No. Qualcun altro.
Ecco, mi sono alzato.
Cos’è successo?
Sono caduto.
Sei tu che tremi così?
Sì, tremo.
Quanta febbre hai?
Stasera quaranta.
Io ne ho quaranta e tre.
Devo tornare in camera.
Di’ un po’…
Che c’è?
Quando si muore?
Quando la febbre arriva a quarantadue.
Ci siamo quasi.
No, no, tu hai ancora tempo.
Manca pochissimo.
Domani mattina ti sentirai meglio.
Non andare via, ho paura.
Lo senti?
Che cosa?
Il silenzio, improvviso.
Ci sono state esplosioni prima?
Cannonate.
Non faccio che dormire ed è già di nuovo notte.
Anche quando sono steso, mi sembra di cadere.
Ogni volta che apro gli occhi, è notte.
È per via dell’oscuramento.
Penso che stiano vincendo.
Chi?
Gli arabi.
Ma che dici?
Hanno occupato Tel Aviv.
Ma che… chi te l’ha detto?
Non lo so. Devo averlo sentito.
Hai sognato.
No. Qualcuno l’ha detto qui, prima, ho sentito delle voci.
È la febbre, hai gli incubi. Anch’io li ho.
Nel sogno che ho fatto…
Devo tornare in camera.
Ero con la mia amica.
Devo soltanto alzarmi.
C’era un precipizio, e in cima un masso.
Forse tu lo sai.
Che cosa?
Da che parte sono arrivato.
Non conosco questo posto.
Da quanto tempo sei…?
Non lo so.
Io sono qui da quattro giorni, forse una settimana.
Aspetta, dov’è l’infermiera?
Di notte sta nel reparto di medicina interna.
Tutta la notte?
Ogni tanto passa di qui. È un’araba.
Come fai a saperlo?
Dall’accento.
Stai tremando.
La bocca, tutta la faccia.
E dove sono tutti?
Non ci portano nel rifugio.
Perché?
Per non contagiare gli altri.
Cosa? Allora siamo soli…
Con l’infermiera.
Pensavo che…
Che…?
Magari puoi cantarmi qualcosa.
Ancora con ’sta storia?
Soltanto canticchiare.
Cantare, canticchiare, pensi che io sia un…
Se tu me lo chiedessi, io canterei per te.
Me ne vado.
Non andare.
Devo tornare in camera.
A far che?
A far che, a far che… a ricongiungermi con i miei avi, a ridiscendere negli inferi…
Cosa? Cos’hai detto? Un momento, forse ti conosco. Ehi, torna indietro…
Anche la notte seguente, prima di mezzanotte, il ragazzo andò da lei, si fermò sulla soglia della camera e la apostrofò lamentandosi che cantava nel sonno svegliando tutti quanti. Ancora una volta lei gli domandò se si ricordava la canzone e lui brontolò che era stufo di svegliarsi di notte per colpa sua e di trascinarsi in quel maledetto corridoio. Lei sorrise, gli chiese se la sua camera era tanto distante e solo allora lui si accorse, dalla voce, che la ragazza non era nel punto in cui si trovava il giorno precedente, e quello prima.
Perché adesso sono seduta, spiegò lei. Come mai? domandò lui con cautela. Perché non dormivo. E cosa facevi? Ti aspettavo. E allora perché cantavi? Non cantavo. Ah, fece lui. Ahah, fece lei.
A entrambi sembrava che fosse ancora più buio. Una nuova vampata di calore, non dovuta alla malattia, percorse Orah dalla punta dei piedi alla testa, accendendole macchie rosse sul collo e sul viso. Per fortuna è buio, pensò stringendo i lembi del colletto floscio del pigiama. Alla fine il ragazzo sulla soglia si schiarì la voce e disse: devo tornare in camera. Lei gli domandò per quale motivo e lui rispose che doveva urgentemente rotolarsi nella pece e nelle piume. Lei sulle prime non comprese, poi afferrò lo scherzo e rise di cuore: vieni qui, scemo, basta con questa sceneggiata, ti ho preparato una sedia accanto a me.
Lui avanzò a tentoni, lungo lo stipite della porta, lungo armadietti di ferro e letti, fino a che non si fermò, si appoggiò a un letto vuoto e ansimò con affanno. Sono qui, gemette. Vieni più vicino, lo incoraggiò lei. Un istante, fammi riprendere fiato. Il buio infondeva coraggio a Orah che disse ad alta voce, la voce che aveva quand’era sana, quando giocava in spiaggia a racchettoni e andava a nuoto alle zattere del Lido Quiete: di che hai paura? Non mordo mica. Va bene, va bene, ho capito, mormorò lui, ma sono mezzo morto. La nota lamentosa nella voce e lo strascicare dei piedi intenerirono Orah. Siamo come una coppia di vecchietti, pensò.
Ma dove sei?
Mi hanno messo seduta in fondo alla stanza.
Ahi!
Cos’è successo?
Un letto ha improvvisamente deciso di… Ahi!
Un altro letto?
Porca… Di’ un po’, della legge della premeditazione…
Che hai detto?
Della legge della premeditazione degli oggetti hai mai sentito parlare?
Sbrigati ad arrivare.
Il tremito non cessava, a tratti si trasformava in un brivido prolungato e i ragazzi balbettavano. Non di rado erano costretti ad attendere che i muscoli della faccia e della bocca si rilassassero per pronunciare rapide frasi spezzettate con voci acute e tese. Quan-ti an-ni hai? Se-di-ci e tu? Se-di-ci e tre me-si. Io ho l’e-pa-ti-te, e tu co-s’hai? Io? disse il ragazzo. Pen-so di a-ve-re un’in-fe-zio-ne al-le o-vaie.
Silenzio. Lui respirava a fatica: e-ra u-na bat-tu-ta. Non è divertente, sentenziò lei. Lui sospirò: ho cercato di farla ridere ma il suo senso dell’umorismo è troppo… Lei si irrigidì, gli domandò con chi stesse parlando. Con l’autore delle mie battute, disse lui, probabilmente sarò costretto a licenziarlo. Se non vieni a sederti subito qui, mi metto a cantare. Lui rabbrividì, rise. Aveva una risata stridula, aspirata come il raglio di un asino, e lei, in segreto, la mandò giù come un farmaco, un balsamo.
Lui rideva così di gusto della piccola e sciocca spirito-saggine di Orah che lei si trattenne a fatica dal raccontargli che ultimamente non riusciva più a divertire gli altri, a farli piegare in due dalle risate come faceva una volta. “In quanto a ironia sembra mia zia” avevano cantato di lei alla festa di Purim di quell’anno. E non era una lacuna da poco, lo sapeva. Era una vera e propria menomazione, una disfunzione di tipo nuovo che avrebbe potuto peggiorare e complicarsi e che in qualche modo aveva a che fare con altre sue qualità che si erano appannate negli ultimi anni. L’intuito, per esempio. Com’era possibile che una simile caratteristica naturale fosse sparita così in fretta? O l’abilità di dire la cosa giusta al momento giusto, che in passato aveva e ora non più. O anche solo l’arguzia. Un tempo era un tipetto tutto pepe, sprizzava scintille. Ma forse semplicemente i suoi compagni non avevano trovato una rima migliore per la loro canzoncina di Purim, si consolò. Anche il sentimento dell’amore, pensò all’improvviso, anche quello era peggiorato. Amare veramente qualcuno, bruciare d’amore come raccontavano le sue compagne, come nei film. E provò una stretta al cuore al pensiero di Avner, Feinblatt Avner – il ragazzo che frequentava l’Accademia militare e adesso probabilmente era soldato – che sulla scalinata tra Pavzner e Yossef Street le aveva detto che lei era la sua amica del cuore ma anche allora non l’aveva toccata. Non l’aveva mai sfiorata, nemmeno con un dito, e forse quel suo “non toccare” era connesso a tutto il resto. Orah, in cuor suo, sentiva che tutto era in qualche modo connesso e le cose si sarebbero chiarite un poco alla volta: ogni volta si sarebbe chiarita una piccola parte. Forse, anzi, per chi osservava dall’esterno, tutto era già chiaro, e lei stessa, dai segni accumulatisi, avrebbe ormai potuto capire.
Per un istante riuscì a vedersi all’età di cinquant’anni: alta, magra, avvizzita, un fiore senza profumo che camminava a falcate ampie, veloci, a testa china, con un cappello a falde larghe che le nascondeva il viso, mentre il ragazzo con la risata d’asino continuava a procedere a tentoni verso di lei. Si avvicina e si allontana, come se lo facesse di proposito, pensò sorpresa. Per lui era una specie di gioco. Ridacchiava e faceva battute sulla propria inettitudine, girava in cerchio nella stanza e ogni tanto le chiedeva di dire una parola, per guidarlo. Perché tu mi faccia da faro con la tua voce, le spiegò. Che intelligentone, pensò lei, però è anche piuttosto imbranato. Il ragazzo arrivò finalmente a Orah, trovò a tastoni la sedia che gli aveva preparato e vi si lasciò cadere con il fiato corto, respirando pesantemente come un vecchio. Lei percepì l’afrore della malattia, si levò una coperta e gliela diede. Lui vi si avvolse in silenzio. Entrambi erano esausti e ognuno si raggomitolò su se stesso, tremando e sospirando.
Eppure la tua voce mi è familiare, disse poi Orah dalle profondità della coperta, di dove sei? Di Gerusalemme, rispose lui. Io sono di Haifa, disse lei sottolineando leggermente le parole, mi hanno portata qui in ambulanza dall’ospedale di Rambam a causa di complicazioni. Anch’io ho lo stesso problema, rise lui, tutta la mia vita è una complicazione. Tacquero. Il ragazzo si grattò forte la pancia e il petto brontolando. Lei brontolò dopo di lui: è la cosa che più fa diventare matti, vero? Si grattò con tutte e dieci le dita: a momenti avrei voglia di strapparmi via la pelle per farmi passare il prurito. Ogni volta che Orah cominciava a parlare lui sentiva le sue labbra schiudersi con un flebile schiocco appiccicaticcio e i polpastrelli delle mani e dei piedi gli palpitavano.
Orah disse: l’autista che mi ha portata qui diceva che in tempi come questi un’ambulanza dovrebbe servire a cose più importanti. Hai notato che qui sono tutti arrabbiati con noi? domandò lui, come se ci fossimo ammalati di proposito? È perché siamo rimasti gli ultimi di questa epidemia, spiegò lei. Quelli che si sentivano anche solo un po’ meglio sono stati mandati fuori, soprattutto i soldati. Li hanno rispediti alle loro basi perché potessero prendere parte alla guerra, osservò lui. Ci sarà davvero una guerra? domandò Orah. Ma sei pazza? Siamo già in guerra da due giorni. Lei restò di sasso. Quand’è cominciata? L’altro ieri, credo. Te l’ho detto anche ieri o l’altro ieri, non ricordo, i giorni mi si confondono. Orah ammutolì allibita: è vero, me l’hai detto… In lei affiorarono brandelli di sogni strani e terrificanti. Come hai fatto a non sentire? domandò lui. Ci sono sirene e rombi di cannoni, ed elicotteri che atterrano e di certo trasportano milioni di feriti. E come va la guerra? domandò lei. Non lo so, e non c’è nemmeno nessuno a cui chiedere, nessuno ha tempo per noi. E l’infermiera Vicky, domandò Orah, dov’è? Il ragazzo esitò: forse se n’è andata per l’inizio della guerra, vorrà occuparsi di feriti veri. Allora chi si prende cura di noi? continuò lei. Quell’araba piccola e magra che piange in continuazione… l’hai sentita? Orah era sbalordita. È una persona che piange? Pensavo fosse un animale. Ne sei sicuro? Certo che è una persona. Ma come mai non l’ho vista? si stupì Orah. Perché va e viene, spiegò il ragazzo. Prende i contenitori degli esami e mette le medicine e il cibo su un vassoio. Adesso qui c’è soltanto lei, giorno e notte.
Lui si succhiò l’interno delle guance e rifletté: è curioso che ci abbiano lasciati soli con un’infermiera araba, no? Non credo che permettano agli arabi di occuparsi dei feriti… Ma Orah non riusciva a farsene una ragione. Perché piange, cosa le è successo? E io come faccio a saperlo, rispose il ragazzo. Non gliel’hai domandato? chiese lei. Quando arriva io dormo, spiegò lui, da quando è cominciata la guerra non l’ho più vista. Orah si raddrizzò, si irrigidì e con calma gelida dichiarò: hanno conquistato Tel Aviv, te lo dico io. Nasser e Hussein hanno già preso il caffè al Dizengoff Center. Lui si spaventò: ma da dove tiri fuori questa storia? L’ho sentito ieri sera, assicurò lei, oppure oggi. Ne sono quasi certa. Forse l’hanno detto alla radio, però l’ho sentito. Hanno conquistato Beer Sheva e Ashkelon e Tel Aviv. No, no, è impossibile, ribatté lui, sarà stata la febbre a fartelo credere. Ma che dici? Sei impazzita? Non è possibile che vincano loro. È possibile, è possibile, mormorò lei quasi tra sé. E pensò: che ne sai tu di che cosa è possibile e cosa no?
Poi si svegliò – doveva essersi appisolata – e lo cercò con lo sguardo. Sei ancora qui? Sì… Che c’è? Orah sospirò: c’erano nove ragazze in camera con me, e sono rimasta soltanto io. Non è seccante? A lui piaceva che dopo tre notti quella ragazza non avesse ancora un nome, e tantomeno lei sapesse il suo. Amava piccoli misteri come quelli. Nei radiodrammi che scriveva e registrava su nastri del magnetofono a casa sua, recitando un’infinità di ruoli – bambini, vecchi, uomini, donne, dèmoni, re, oche selvatiche, bricchi parlanti e altro ancora –, a volte inventava piccoli giochi intriganti: creature che apparivano e scomparivano, personaggi partoriti dalla fantasia di altri ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. A un cerbiatto somiglia il mio amore
  3. Dello stesso autore
  4. Copyright