Memoria delle mie puttane tristi
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Memoria delle mie puttane tristi

  1. 154 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Memoria delle mie puttane tristi

Informazioni su questo libro

"L'anno dei miei novant'anni decisi di regalarmi una notte di folle amore con un'adolescente vergine." Comincia così Memoria delle mie puttane tristi, ideale compimento di un libro indimenticabile come L'amore ai tempi del colera. A raccontare è la voce del protagonista, un giornalista eccentrico e solitario, appassionato di musica classica, che giunto in tarda età scopre il piacere inverosimile di contemplare il corpo nudo di una donna che dorme, senza le urgenze del desiderio o gli intralci del pudore. Scopre forse per la prima volta l'amore, quello che non ha mai cercato in tutte le donne che ha incontrato e conosciuto, trovando "l'inizio di una nuova vita a un'età in cui la maggior parte dei mortali è già morta". Struggente e gioioso al tempo stesso, Memoria delle mie puttane tristi è l'emozionante riscoperta dell'universo fantastico e inimitabile di uno dei massimi e più amati scrittori contemporanei, un atto di magia narrativa che si impossessa dei nostri sentimenti, penetrando il mistero della vita.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804561392
eBook ISBN
9788852011481
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

1

L’anno dei miei novant’anni decisi di regalarmi una notte d’amore folle con un’adolescente vergine. Mi ricordai di Rosa Cabarcas, la proprietaria di una casa clandestina che era solita avvertire i suoi buoni clienti quando aveva una novità disponibile. Non avevo mai ceduto a questa né ad altre delle sue molte tentazioni oscene, ma lei non credeva nella purezza dei miei principi. Anche la morale è una questione di tempo, diceva, con un sorriso maligno, te ne accorgerai. Era un po’ più giovane di me, e non avevo sue notizie da così tanti anni che poteva benissimo essere morta. Ma al primo squillo riconobbi la voce al telefono, e le sparai senza preamboli:
«Oggi sì.»
Lei sospirò: Ah, mio triste professore, scompari per vent’anni e torni solo per chiedere l’impossibile. Subito dopo riacquistò il dominio della sua arte e mi offrì una mezza dozzina di scelte allettanti, ma, questo sì, tutte usate. Insistetti che no, che doveva essere pulzella e per quella stessa notte. Lei domandò allarmata: Cos’è che vuoi provare a te stesso? Niente, le risposi, ferito nel punto che più mi doleva, so benissimo quello che posso e quello che non posso fare. Lei disse impassibile che i grandi professori sanno tutto, ma non tutto: gli unici Vergini che ormai rimangono nel mondo siete voi nati in agosto. Perché non mi hai dato l’incarico con maggiore anticipo? L’ispirazione non dà preavvisi, le dissi. Ma forse aspetta, disse lei, sempre più scaltra di qualsiasi uomo, e mi chiese un minimo di due giorni per vagliare bene il mercato. Io le replicai serio che in un affare come quello, alla mia età, ogni ora è un anno. Allora non si può, disse lei senza un’ombra di dubbio, ma non importa, così è più emozionante, cazzo, ti chiamo fra un’ora.
Non ho bisogno di dirlo, perché lo si nota a leghe di distanza: sono brutto, timido e anacronistico. Ma a forza di non volerlo essere sono riuscito a fingere tutto il contrario. Fino a questo giorno presente, in cui decido di raccontarmi come sono per mia stessa e libera volontà, anche solo per sgravarmi la coscienza. Ho cominciato con la telefonata insolita a Rosa Cabarcas, perché, considerato in prospettiva, quello fu il principio di una nuova vita a un’età in cui la maggior parte dei mortali è morta.
Abito in una casa coloniale sul marciapiede esposto al sole del parco di San Nicolás, dove ho passato tutti i giorni della mia vita senza moglie né fortuna, dove hanno vissuto e sono morti i miei genitori, e dove mi sono proposto di morire solo, nello stesso letto in cui sono nato e in un giorno che mi auguro lontano e senza dolore. Mio padre la comprò a un’asta pubblica verso la fine del XIX secolo, affittò il pianterreno per negozi di lusso a un consorzio di italiani, e si riservò questo secondo piano per vivere felice con la figlia di uno di loro, Florina de Dios Cargamantos, interprete ragguardevole di Mozart, poliglotta e garibaldina, e la donna più bella e di maggior talento che ci fu mai in città: mia madre.
Gli interni sono ampi e luminosi, con archi di stucco e pavimenti a scacchiera di piastrelle fiorentine, e quattro porte a vetri su un balcone coperto dove mia madre si sedeva nelle sere di marzo a cantare arie d’amore con le sue cugine italiane. Di lì si vede il parco di San Nicolás con la cattedrale e la statua di Cristoforo Colombo, e più in là i magazzini del porto fluviale e il vasto orizzonte del Rio Grande della Magdalena a venti leghe dal suo estuario. L’unica cosa brutta della casa è che il sole passa da una finestra all’altra nell’arco della giornata, e bisogna chiuderle tutte per cercare di fare la siesta nella penombra ardente. Quando rimasi solo, a trentadue anni, mi trasferii in quella che era stata l’alcova dei miei genitori, aprii una porta di comunicazione con la biblioteca e, per vivere, iniziai a vendere all’asta tutto quello che mi avanzava e che finì per essere quasi tutto, tranne i libri e la pianola a pedali.
Per quarant’anni sono stato il rimpolpatore di dispacci del “Diario de la Paz”, che consisteva nel ricostruire e completare in prosa indigena le notizie dal mondo che acchiappavamo al volo nello spazio siderale attraverso le onde corte o l’alfabeto Morse. Oggi mi mantengo bene o male con la mia pensione di quel mestiere estinto; mi mantengo di meno con quella di professore di grammatica spagnola e latino, quasi niente con l’articoletto domenicale che ho scritto senza strepiti per oltre mezzo secolo, e niente di niente con i pezzi di cronaca musicale e teatrale che mi fanno il favore di pubblicare quando arrivano interpreti di rilievo. Non ho mai fatto nulla di diverso dallo scrivere, ma non ho la vocazione né le virtù del narratore, ignoro del tutto le leggi della composizione drammatica, e se mi sono imbarcato in questa impresa è perché confido nei lumi di tutto quanto ho letto durante la mia vita. In parole nude e crude, sono un individuo senza merito né spicco, che non avrebbe nulla da lasciare ai suoi sopravvissuti se non fosse per gli eventi che mi accingo a riferire come posso in queste memorie del mio grande amore.
Il giorno dei miei novant’anni si era levato, come sempre, alle cinque del mattino. Il mio unico impegno, essendo venerdì, era scrivere l’articoletto firmato che esce la domenica sul “Diario de la Paz”. I sintomi dell’alba erano stati perfetti per non essere felice: mi facevano male le ossa già di buon’ora, mi bruciava il culo, e c’erano tuoni di temporale dopo tre mesi di siccità. Mi lavai mentre saliva il caffè, ne bevvi un tazzone addolcito con miele di api e accompagnato da due pagnottelle di cassava, e mi infilai la tuta per stare in casa.
L’argomento dell’articolo di quel giorno, guarda un po’, erano i miei novant’anni. Non ho mai pensato all’età come a una perdita nel soffitto che indica la quantità di vita rimanente. Da molto piccolo avevo sentito dire che quando una persona muore i pidocchi annidati fra i capelli scappano via impauriti sui guanciali con gran vergogna della famiglia. La qual cosa mi impressionò tanto, che mi lasciai rapare a zero per andare a scuola, e i pochi cernecchi che mi rimangono me li lavo ancora col sapone medicinale. Significa, mi dico adesso, che da molto piccolo mi sono formato meglio il senso del pudore sociale che quello della morte.
Da mesi avevo programmato che il mio articolo di compleanno non fosse il solito piagnisteo sugli anni trascorsi, ma tutto il contrario: una glorificazione della vecchiaia. Cominciai a domandarmi quando avevo preso coscienza di essere vecchio e credo che sia stato pochissimo tempo prima di quel giorno. A quarantadue anni mi ero recato dal medico con un dolore alla schiena che mi disturbava nel respirare. Lui non vi attribuì importanza: è un dolore naturale alla sua età, mi disse.
«In questo caso» gli dissi io, «è la mia età a non essere naturale.»
Il medico mi fece un sorriso dispiaciuto. Vedo che lei è un filosofo, mi disse. Fu la prima volta che pensai alla mia età in termini di vecchiaia, ma non ci misi molto a dimenticarmene. Presi l’abitudine a svegliarmi ogni giorno con un dolore diverso che cambiava posto e forma a mano a mano che passavano gli anni. A volte sembrava fosse un’artigliata della morte e il giorno dopo svaniva. In quel periodo sentii dire che il primo sintomo della vecchiaia è che si comincia ad assomigliare al proprio padre. Devo essere condannato alla gioventù eterna, pensai allora, perché il mio profilo equino non assomiglierà mai a quello caraibico verace che è stato di mio padre, né a quello romano imperiale di mia madre. Il fatto è che i primi cambiamenti sono così tardi che si notano appena, e si continua a vedersi dentro come si era sempre stati, ma gli altri se ne accorgono da fuori.
Nel quinto decennio avevo cominciato a immaginarmi cos’è la vecchiaia quando notai le prime lacune della memoria. Percorrevo la casa cercando gli occhiali fin quando non scoprivo che li avevo sul naso, o li avevo infilati quando mi mettevo sotto la doccia, o inforcavo quelli per leggere senza togliermi quelli per vedere da lontano. Un giorno feci colazione due volte perché mi dimenticai la prima, e imparai a riconoscere il nervosismo dei miei amici quando non osavano avvertirmi che stavo raccontando la stessa cosa che avevo raccontato la settimana prima. A quell’epoca avevo nella memoria una lista di facce note e un’altra con i nomi di ognuna, ma al momento di salutare non riuscivo a far sì che le facce coincidessero con i nomi.
La mia età sessuale non mi ha mai preoccupato, perché i miei poteri dipendevano più dalle donne che da me, e loro sanno il come e il perché quando vogliono. Oggi rido dei ragazzi di ottant’anni che consultano il medico spaventati da questi crucci, senza sapere che a novanta sono peggiori, ma non importano più: sono rischi dell’essere vivi. Invece, è un trionfo della vita che la memoria dei vecchi si esaurisca per le cose che non sono essenziali, ma che di rado venga meno per quelle che ci interessano davvero. Cicerone l’ha illustrato con una frase: Non c’è vecchio che dimentichi dove ha nascosto il suo tesoro.
Con queste riflessioni, e altre varie, avevo finito una prima stesura dell’articolo quando il sole di agosto esplose fra i mandorli del parco e il battello fluviale della posta, in ritardo di una settimana per la siccità, entrò bramendo nel canale del porto. Pensai: ecco che arrivano i miei novant’anni. Non saprò mai perché, né lo pretendo, ma fu nel segno di quell’evocazione raggelante che decisi di telefonare a Rosa Cabarcas affinché mi aiutasse a festeggiare il mio compleanno con una notte libertina. Da anni vivevo in santa pace col mio corpo, dedito alla rilettura erratica dei miei classici e ai miei programmi personali di musica classica, ma il desiderio di quel giorno fu così incalzante che mi sembrò un dono di Dio. Dopo la telefonata non mi fu possibile continuare a scrivere. Appesi l’amaca in un angolo della biblioteca dove al mattino non batte il sole, e mi distesi col petto oppresso dall’ansia dell’attesa.
Ero stato un bambino coccolato con una mamma dai pregi molteplici, annientata dalla tisi a cinquant’anni, e con un papà pedante che non era mai stato colto in errore, e fu trovato morto nel suo letto di vedovo il giorno in cui venne sottoscritto il trattato di Neerlandia, che mise termine alla Guerra dei Mille Giorni e alle tante guerre civili del secolo precedente. La pace cambiò la città in un senso che non si era previsto né si voleva. Una ressa di donne libere fece arricchire le vecchie bettole della Calle Ancha, che fu poi il Camellón Abello e adesso è il Paseo Colón, in questa città della mia anima tanto apprezzata da locali ed estranei per la buona indole della sua gente e la purezza della sua luce.
Non sono mai andato a letto con una donna senza pagarla, e le poche che non erano del mestiere le convinsi con la ragione o con la forza a prendere il denaro sia pure per buttarlo nella spazzatura. Verso i vent’anni cominciai a tenere un registro col nome, l’età, il luogo, e un breve resoconto delle circostanze e dello stile. Fino ai cinquant’anni erano cinquecentoquattordici le donne con cui ero stato almeno una volta. Interruppi la lista quando ormai il corpo non ce la fece più così spesso e potevo tenere il conto senza annotare. Avevo la mia etica. Non ho mai partecipato a gazzarre di gruppo né ad accoppiamenti in pubblico, né ho mai spartito segreti né raccontato un’avventura del corpo o dell’anima, perché fin da giovane mi sono reso conto che nessuna rimane impune.
L’unico rapporto strano fu quello che intrattenni per anni con la fedele Damiana. Era quasi una bambina, mezza india, forte e selvatica, dalle parole brevi e perentorie, che girava scalza per non disturbarmi mentre scrivevo. Ricordo che io stavo leggendo La lozana andalusa sull’amaca nella veranda, e la vidi per caso china sul lavatoio con la sottana così corta che lasciava allo scoperto l’inizio delle sue cosce succulente. In preda a una febbre irresistibile gliel’alzai da dietro, le abbassai le mutande fino alle ginocchia e la montai al contrario. Ah, signore, disse lei, con un gemito lugubre, quello è fatto non per entrare ma per uscire. Un tremito profondo le fece rabbrividire il corpo, ma si tenne salda. Umiliato per averla umiliata volli pagarle il doppio di quanto costavano le più care di allora, ma non accettò neppure un soldo, e dovetti aumentarle la paga calcolando una monta al mese, sempre mentre lavava la roba e sempre controsenso.
Una volta pensai che quei calcoli di letti sarebbero stati un buon supporto per una relazione delle miserie della mia vita traviata, e il titolo mi cascò dal cielo: Memoria delle mie puttane tristi. La mia vita pubblica, invece, era priva di interesse: orfano di padre e di madre, scapolo senza avvenire, giornalista mediocre quattro volte finalista ai Giochi Floreali di Cartagena de Indias e amatissimo dai caricaturisti per la mia bruttezza esemplare. Ossia, una vita sprecata che avevo iniziato male fin dal pomeriggio in cui a diciannove anni mia madre mi portò per mano a vedere se riuscivo a pubblicare sul “Diario de la Paz” un pezzo sulla vita scolastica che avevo scritto durante la lezione di spagnolo e retorica. Fu pubblicato la domenica con una premessa lusinghiera del direttore. Passati gli anni, quando venni a sapere che mia madre aveva pagato quella pubblicazione e le sette successive, era ormai tardi per vergognarmi, visto che la mia rubrica settimanale volava con ali proprie, ed ero pure rimpolpatore di messaggi e critico musicale.
Quando ebbi finito il liceo con ottimi voti, cominciai a dare lezioni di spagnolo e di latino in tre scuole pubbliche al contempo. Sono stato un cattivo insegnante, senza formazione, senza vocazione né pietà per quei poveri ragazzini che andavano a scuola come unico modo per sfuggire alla tirannia dei genitori. La sola cosa che riuscii a fare per loro fu tenerli sotto il terrore del mio righello di legno affinché imparassero almeno la mia poesia preferita: Questi, Fabio, ahimé, che vedi adesso, campi solitari, mesto colle, furono un tempo l’Italia famosa. Solo da vecchio venni a ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Memoria delle mie puttane tristi
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Copyright