Manola
eBook - ePub

Manola

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Ortensia spettrale e nerovestita, Anemone raggiante e coloratissima, una introversa, l'altra estroversa, una infelice, l'altra piena di gioia di vivere, il positivo e il negativo: due gemelle che incarnano gli opposti archetipi della femminilità. Un romanzo esilarante e visionario, una rappresentazione-confessione delle due protagoniste che indaga sui due volti dell'anima della donna dei nostri tempi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804472131
eBook ISBN
9788852011368

Anemone

È il nostro passatempo preferito, Manola: la sera ci stringiamo nel lettone sovrastato dallo stemma di famiglia, e leggo a Ortensia il “Gazzettino Fobico”. Mentre l’aggiorno, la mia Zerbinaccia si torce tra le coltri, terrorizzata di perdere il suo primato. Ailurofobia, aracnofobia, astrofobia, bacterofobia, brontofobia, e via discorrendo: ce le ha tutte. Arrivate alla sessuofobia scoppia puntualmente in lacrime. «Doppione!» grida. «Doppione! Arcidoppione!»
Comincia a saltare, vuole giocare all’acchiapparella intorno al letto, tira fuori un mucchio di battute divertenti. È così simpatica quando è in vena! Ortensia sta allargando il suo campo fobico a macchia d’olio. Ultimamente è diventata “lapidofobica”: ciondola per i cimiteri cercando la sua data di nascita sulle lapidi. Non che mi meravigli questo esubero fobico, a casa nostra nessuno ha mai avuto il senso della misura. Siamo sempre stati una famiglia smodatamente off limits.
Quando mamy preparava le melanzane sott’olio, era capace di riempirne migliaia di barili. Le accadde dopo la menopausa. Mia madre, Manola, non sopportava l’idea di dover invecchiare. Prese dei vecchi drappi e – con grande giubilo di Orty – oscurò tutti gli specchi dell’albergo, poi corse in cucina e iniziò a friggere.
La sua fu un’autentica vocazione. «Voi bambine non potete capire» diceva, «ma vostra madre è stata chiamata…» Raccontava di un sogno durante il quale le era apparso un vecchio signore molto simile al suo bisnonno, con un cappello oblungo e violaceo, come una melanzana, appunto, posato sul capo canuto, e questo signore, nel sogno, aveva pianto dicendole: «Libia, hai dormito tutta la vita. Adesso basta, alzati e vai a prendere il tuo posto accanto alla friggitrice!».
Durante l’estate, mamy surgelava quintali di melanzane per il terrore di restarne sprovvista d’inverno. Lavorava anche di notte, il tempo non le bastava più. Eppure non era mai stanca. «Mi sembra di non aver mai fatto altro» diceva. Non si curava più della sua persona, girava avvolta in un pastrano d’amianto, ma nonostante questa cautela aveva il corpo interamente coperto di cicatrici a causa degli schizzi di aceto bollente.
L’albergo ormai fluttuava dentro una densa cortina di vapori aciduli. I clienti cozzavano tra loro, avevano occhi e nasi congestionati, si incontravano nella hall e piangevano. «È bello vedervi così commossi» diceva mamy, «grazie, grazie di cuore…» Cominciarono le prime defezioni, poi, poco alla volta, anche i più fedeli ci lasciarono a uno a uno. Ma mamy non s’interessava più alle faccende pratiche, era come se si fosse sollevata finalmente da terra appresso ai suoi vapori d’aceto.
Papy l’assecondava in tutto. All’alba si carreggiava sulla groppa quintalate di melanzane. Per il resto, trascorreva le sue giornate seduto accanto alla friggitrice a guardare la moglie con certi occhi fiacchi sulle guance, i suoi occhi da innamorato. Una mattina lei gli chiese: «Cos’hai da guardarmi così, Vinicio?»
«Siamo vecchi, Libia» rispose papy, grattandosi la testa.
«Tu sei vecchio, Vinicio.»
«Hai tre mesi più di me, Libia.»
«Ma non ho la prostata.»
«Le femmine non hanno la prostata, e tu sei una femmina, Libia, anche se non lo si nota più, da almeno venticinque anni.»
«E non ho neppure un grosso fegato marcio.»
«Anche tu bevi, Libia.»
«Solo gin, e il gin non puzza.»
«Siamo vecchi e siamo ancora insieme. Ci avresti scommesso?»
«Neppure una melanzana.»
Scese un grande silenzio tra loro. E per il resto della mattinata, nella cucina, si udì solo lo sfrigolio dell’aceto. Verso le due del pomeriggio, papy scosse la testa e disse: «È strano».
Mamy lo guardò perplessa: «A cosa stai pensando?».
«Al tuo piccolo naso, Libia. Mi chiedo che fine abbia fatto.»
«Vinicio, non ti capisco più.»
«Dove hai pescato questa proboscide sfranta piena di comedoni? Dimmi la verità, in questi anni hai fatto del pugilato?»
«Non che io ricordi.»
«Allora dev’essere un naso di carnevale, Libia.»
Mamy guardò fuori dalla finestra. Nella fontana galleggiavano le prime foglie d’autunno. «Sta finendo l’estate» sussurrò.
«Siamo vecchi, Libia» disse papy scrutando la moglie.
«Tu sei vecchio, Vinicio. Hai tre mesi più di me.»
«Meno di te Libia, meno.»
Mamy gli tirò un canovaccio sporco in faccia, e sorrise dicendo: «Sono stanca di sentirti ripetere sempre le stesse cose, dev’essere quel tuo morbo».
Papy invece era serio. «Tu hai il cancro, Libia» disse.
«Un piccolo cancro molto pigro.»
«La terza età è molto indulgente, Libia.»
«Tra poco non ci saranno più melanzane, comincerà un periodo molto duro.»
«Vuoi fare l’amore, Libia?»
«Sei sicuro di farcela?»
«E tu sei sicura di farcela?»
«Ce l’abbiamo sempre fatta, Vinicio.»
«Grazie, Libia.»
«Lo sai che mi fai schifo quando mi ringrazi, Vinicio.»
«Non importa.»
Ma mamy cominciava a guardarlo con sospetto. «Hai la coscienza sporca?» disse, strofinandosi le mani sul grembiule.
«No» rispose papy.
«Di cosa volevi ringraziarmi, allora?»
«Di avermi tenuto con te.»
«E dove potevi andare?»
«Non lo so, in un altro albergo.»
«Ti sarebbe piaciuto?»
«No. E a te, Libia, sarebbe piaciuto?»
«Come posso saperlo? Quello che è fatto è fatto.»
Papy s’alzò e baciò mamy con passione, poi sussurrò: «Sei una donna così intelligente, Libia. Fatico a starti dietro…».
«Non hai bisogno di starmi dietro, Vinicio» disse mamy schiaffando nella friggitrice una manciata di melanzane.
Papy si asciugò uno schizzo d’aceto sul sopracciglio. «Dici davvero, Libia?»
Da quel giorno il mio vecchio non si sedette più accanto alla friggitrice. Si ricavò un cantuccio in giardino. Prosciugò la piscina e si rinserrò lì dentro insieme ai zanzaracci e ai rospi residui. Il cambio d’aria giovò alla comunità d’insetti che dimorava nel suo pelo. Nel giro di pochi giorni si riprodussero con fanatismo, fortificando le razze, e papy non ebbe più un solo millimetro di pelle di sua proprietà.
Era davvero triste vedere un uomo della sua età ridotto in simile schiavitù. Ormai anche la più piccola grattatina lo costringeva quotidianamente al genocidio. Gli insetti entrarono in sommossa, s’armarono contro di lui. Il formicaleone Sfrugo – uno dei più anziani abitanti di mio padre, che da ben otto anni dimorava nel quartiere residenziale del pube alto, alle porte del borgo storico del vello ombelicale – prese le sue difese, insieme a buona parte della nobiltà calabronense, dei ceti abbienti aculeati, e delle zecche ecclesiali. Si scatenò una violentissima guerra civile che insanguinò mio padre per diversi mesi, abbandonandolo infine solitario e devastato.
Si prospettava per il malconcio patriarca una vecchiaia umida e attufata; invece, con nostra meraviglia, papy rinfanciullì. Una mattina, al levar del sole lo vedemmo, completamente nudo, arrampicarsi lungo le pareti muschiose della piscina e issare la bandiera, brandendo il tridente di Nettuno, fatto di girini intrecciati. Nottetempo strappò le amache e gli ombrelloni, sradicò buona parte degli alberi circostanti, e si costruì un fortino sommerso nella palude, rigoglioso e pieno di vapori acquei come un rifugio tropicale. Nel buio armava fuochi altissimi, che sfioravano il firmamento.
Quando Vilde, ormai vedova del colonnello imperatore Rolanduccio Imparato, fiore all’occhiello dell’albergo, inquilina da più di trent’anni della suite royale, fece scendere i suoi bauli nella hall, e spedì la fedele governante Tituccia a saldare l’annoso conto, capimmo che era davvero la fine.
«Il puzzo d’aceto mi mantiene in vita, ma la piscina trasformata in un braciere mi ricorda l’inferno. Adieu!» sussurrò Vilde, sfiorandosi sul petto, con le manucce di cotone traforato, il piccolo dagherrotipo ovale del defunto Rolanduccio.
Papà prese gusto nel costruire trappole. Di tanto in tanto catturava qualche turista di passaggio nell’albergo e se lo tirava di sotto con sé. Non faceva nulla di male, giocava agli indiani. Legava le sue prede al totem, e gli girava intorno battendo le mani e spernacchiando. Era davvero un gran tipo, mio padre, Manola. Non ne nascono più uomini di quella fatta, capaci di reinventarsi la vita a settant’anni.
Andavo a trovarlo spesso, laggiù in laguna. E una notte, mentre la luna bagnava le acque purulente e le felci, papy si confidò con me. Venni a sapere che verso i dodici anni, alle soglie della pubertà, il mio vecchio aveva subito un terribile trauma: era stato espulso dagli scout per aver infilato un petardo in un nido di calabroni. I calabroni s’infurentirono e punsero tutto il suo drappello, deturpando due coccinelle di buona famiglia. All’epoca mio padre era solo un garzone di forno, e a nulla valsero le sue proteste. In quattro e quattr’otto, fu cacciato fuori dagli scout. Papy restò murato dentro quel dolore per anni, e neppure un’intera vita volta ad albergare bestiole aveva placato la sua ansia espiatoria.
Usciva di rado dal fortino. Mamy per stanarlo saliva sul nespolo: «Ehi, dico a te, Vinicio! Cerca di coprire quel tuo deretano budinoso ed esci in fretta da lì sotto, mi sono rimasti solo mille litri d’aceto…»
Accadde una mattina all’alba. Ricordo che mi svegliai e aprendo la finestra pensai che era una giornata troppo bella per essere sciupata. Il cielo brillava come un calice di cristallo e la nebbia che era ancora ferma sull’erba pareva zucchero filato. Fu Grogo a raccontarci gli ultimi attimi dei nostri genitori. Il tacchino psicopatico quel giorno aveva deciso di farsi una giratina, e riuscì a seguire la scena appostato sul tetto della camionetta. Era il ventiquattro luglio, la festa del dio Nettuno. Il capitano papy stava accompagnando mamy in città. Pare che per l’euforia lui guidasse con il tridente di girini infilato in un orecchio, e con tutti e due i piedi fuori dal finestrino, tamburellando le mani davanti alla bocca. Se la stavano spassando un mucchio, i miei vecchi. Mamy faceva la candela sul sedile, indossava solo un paio di mutandine a pois, da Minnie. Ridevano a crepapelle. Oh, sono sempre stati una coppia schifosamente affiatata, quei due! Mi piace pensare che abbiano scelto di andarsene così, ridendo. Manola, devo farle una confidenza: io quando ho l’orgasmo rido, rido a crepapelle, e subito dopo piango perché mi tornano in mente le barzellette di mia madre.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Manola
  4. Ortensia
  5. Anemone
  6. Ortensia
  7. Anemone
  8. Ortensia
  9. Anemone
  10. Ortensia
  11. Anemone
  12. Ortensia
  13. Anemone
  14. Ortensia
  15. Anemone
  16. Ortensia
  17. Anemone
  18. Ortensia
  19. Anemone
  20. Ortensia
  21. Anemone
  22. Ortensia
  23. Anemone
  24. Ortensia
  25. Anemone
  26. Ortensia
  27. Anemone
  28. Ortensia
  29. Anemone
  30. Ortensia
  31. Anemone
  32. Ortensia
  33. Anemone
  34. Ortensia
  35. Anemone
  36. Ortensia
  37. Anemone
  38. Ortensia
  39. Anemone
  40. Ortensia
  41. Anemone
  42. Ortensia
  43. Anemone
  44. Ortensia
  45. Anemone
  46. Ortensia
  47. Anemone
  48. Ortensia
  49. Anemone
  50. Ortensia
  51. Anemone
  52. Ortensia
  53. Copyright