OH! GLI ORRIBILI VIAGGI che ho dovuto fare in lungo e in largo per tutto il paese con tetri binari e stazioni ferroviarie che non vi siete mai sognati — uno di questi un’orribile pestilenza di pipistrelli e buchi merdosi e parchi incomprensibili e piogge, non riesco a scorgerne la fine per l’intero orizzonte, questo è il libro dei sogni.
Gesù la vita è desolata, come fa un uomo a vivere figuriamoci a lavorare — dorme e si sogna dall’altra parte — ed è lì che il tuo Lupo è dieci volte peggiore di quanto creda il paparino — e come, guarda, mi ero interrotto — come fa un uomo a mentire e a dire stronzate quando ha l’oro in bocca. Cincinnati, Philarkadelphia, Frohio, stazioni nella metropolitana — città di pioggia, casino, Belzebur e Spinellopoli le ho viste tutte e ho letto Finnegain’s Works a che mi servirà se non la smetto e non raddrizzo la ruota storta nel mio povero agghindato cer… — qual è la parola? — cranio…
Parla, parla, parla —
Ci sono andato e ho visto Cody ed Evelyn, tutto è cominciato in Messico, sul vecchio divano logoro di Bull ho sognato semplicemente di cavalcare un cavallo bianco su una strada secondaria in quella città del Nord come nel Maine ma in realtà fuori dall’Highway Maine con i piovosi portici notturni su e giù per l’America, voi li avete visti tutti voi papponi ignoranti che non riuscite a capire quello che leggete, laggiù, stradine laterali, alberi, notte, nebbia, lampioni, cowboy, stalle, canestri, ragazze, fogliame, qualcosa di così familiare e mai visto da strapparvi il cuore — mi precipito giù per la strada, cloppete cloppete, appena lasciati Cody ed Evelyn al tavolo di uno spettrale ristorante di San Francisco o di una caffetteria tra la Market e la Terza dove abbiamo discusso animatamente i piani per un viaggio all’Est era (come se!) (come se ci potessero essere Est o Ovest in quella ondeggiante vecchia bussola della sacca da viaggio, vile trappola sul cuscino, gente stupida gente folle che sogna, il mondo non si salverà di questo passo, questi sono i vaneggiamenti notturni di una — pecorella — smarrita) — la Evelyn di questi sogni è docile, una conformista — Cody è — (freddo e geloso) — qualcosa — non so — non m’importa — Solo che dopo aver parlato con loro — Santo cielo mi ci è voluto tutto questo tempo per dirlo, cavalco giù per la collina — diventa Bunker Hill Street di Lowell — mi dirigo al fiume nero su un cavallo bianco — mi si è spezzato il cuore quando mi sono svegliato, rendermi conto che stavo per fare quel viaggio a Est (patetico!) — da solo — solo nell’eternità — verso cui ora mi avvio, su un cavallo bianco, senza sapere cosa accadrà, predestinato o no, se predestinato perché darsene pena, se no perché provare, non se provare perché, ma provare se perché no, o non perché — Al momento non ho nulla da dire e mi rifiuto di proseguire senza saperne di più.
E CITTÀ DEL MESSICO, CITTÀ SPETTRALE DAGLI AGOGNATI MOLI seduti sulla massicciata di un tetro grigio Ferrocarril tipo Liverpool — io e un’orda della giovane generazione in abiti eleganti con ragazze che sfoggiano fiori da ballo studentesco prendiamo parte a un grande pasticcio, un raduno, in un edificio, una torre — così affollata, che io, tra matricole, devo aspettare fuori — applausi calorosi, discorsi, musica all’interno — Strano come nei miei sogni non sembri che tutto sia già accaduto in modo più interessante, ma resta un timore, un dolce timore reverenziale — perché la rabbia mi sbrana il cuore. Che ci faccio in questa sinistra North Carolina impiegato che si alza alle sei del mattino — impiegato fra sinistri impiegati dalle facce avvizzite in un vecchio desolato ufficio delle Ferrovie — nessun sogno potrebbe essere più spaventoso e più simile all’inferno. — Finalmente riesco a unirmi alla festa — no, quello stupido cane mi ha svegliato proprio nel momento in cui avrei potuto ricavare da tutta la faccenda una storia — e negli ultimi tempi comunque mi sveglio in preda all’angoscia. A New York mi rubano le idee, si fanno pubblicare, celebrare, si fottono le mogli degli altri, ricevono ghirlande d’alloro da vecchi poeti — e io mi sveglio in questo letto di orrore in un incubo che solo la vita avrebbe potuto escogitare. All’inferno.
IN UNO STRANO SOGGIORNO presumibilmente a Città del Messico ma stranamente molto simile a un soggiorno in un sogno di ma’ e pa’ a Lowell o nell’inquieta Città Onirica — June (Evans) mi dice il nome di un grande ignoto scrittore greco, Plipias, Snipias, di come suo padre fosse fuggito con i risparmi di famiglia perciò Plipias, frocio, se n’era andato a vivere su un’Isola col ragazzo che amava; e aveva scritto “Non sciopero mai contro l’uomo, perché lo amo” — June raccomandava caldamente questo scrittore, e diceva: «Puoi passare un’ora al giorno a preoccuparti per cose di scarsa importanza ma in senso lato puoi capire ciò che intende, non scendere mai in sciopero contro l’uomo —». Nel frattempo, sto per infilarmi in bagno ma c’è già Bull dentro — non ha fatto alcun commento —
SCAVANDO NELLA CANTINA DI QUESTA DONNA per piantare, o trapiantare, la mia marijuana — sotto mucchi di carte (soltanto un minuto prima passavo in rassegna le mie cose, in un’enorme stanza nuova, che Peaches aveva appena lasciato ad Hal) — montagne di elastici, eccetera, e scavavo nel terriccio per fare un letto alle piante ma mi sono reso conto di quanto fosse profondo il suo buco sotto i rifiuti, ho pensato fra me e me “La vecchia — più si diventa vecchi più la nostra cantina diventa fonda, come una tomba — più la tua cantina sembra una tomba —”. C’era una buca particolare a sinistra — un detto particolare —
Io rovistavo a caccia dei miei racconti e di carta per Peaches — prima ero in una stanza, facevo il segretario per un tizio, lui era un impostore, un imbroglione — e un genio maligno e truffaldino da pessima rivista pulp a capo di qualche cospirazione — Mia madre era venuta a trovarmi come fossi in prigione — mi rigiravo nel letto, nella branda, interessato a queste cose —
ORRIBILI SCOCCIATURE A CHICAGO — con giovani marinai e Deni Bleu, in macchina, traffico luminoso che va su e giù come a Boston — fermati dagli sbirri, il più giovane lancia due bottiglie di birra fuori bordo fracassandole — «Che Dio ti maledica!» bestemmiamo tutti — mi esamino le tasche, nient’altro che un preservativo — Ma gli sbirri trovano l’avanzo di uno spino, ma dirò che è solo timo, o una zolletta di zucchero con LSD, e si tratta davvero di questo, — timo non prezioso ma doloso — uno sbirro tassista in borghese mi ordina di tirare fuori la lingua per controllare la zolletta, obbedisco, quasi mi prende a schiaffi ma non lo fa — Alla radio avevamo sentito lunghi comunicati del sindacato dei marittimi con quello stupido assassino della President Adams che ridacchiava in onda — teneva persino arrabbiati discorsi sindacali — Deni cupo come sempre — esausto come sempre —
Poi di nuovo nella Frisco delle colline del vecchio sogno ma ancora legata in qualche modo alla Bunker Hill del cavallo bianco e sebbene non sia successo da quando sono tornato davvero a Frisco — Cody guida una carcassa, una collina sbruffona di case e appartamenti di lusso (schiaccia l’acceleratore a tappeto senza sforzo apparente) mi dice qualcosa ma in modo sgradevole, adesso tutto è sgradevole, tutti vogliono soldi o ottenere qualcosa da me, la dolcezza è svanita — Cody ha un’espressione tormentata, antipatica, accigliata — la carcassa mi ricorda quella che ho parcheggiato in una strada tranquilla di Ozone Park la settimana scorsa, un amico che dormiva al volante, e un tizio che ha cominciato a spararci con una doppietta da una finestra al secondo piano della frondosa casa dei Calabrese e mi sono accucciato nel canale di scolo stringendo i denti per la sensazione dello sparo che mi bruciava ma mi ha mancato — allora mi metto a correre per la strada, lui comincia a spararmi con premeditazione (il primo colpo era destinato a una donna, una June Ogilvie sul marciapiede) — ora vuole me — corro — sono in lacrime e terrorizzato all’idea che mi stia braccando — La carcassa è mia — ci salta dentro lui, «Mi fregherà il furgone, adesso!» piagnucolo — “Porco mondo!” — e il mio amico non si muoveva da dietro al volante — forse perché era stato fatto fuori al primo colpo? Era Don Jackson di Città del Messico — Se soltanto non avessi lasciato le chiavi nel cruscotto — avevo guidato e guidato, in quella spettrale stazione ferroviaria Città della Pioggia — il folle ha sparato ancora — Ero in quell’Ozone Park che a volte di notte attraverso in autobus percorrendo un ampio viale fino al divano letto portico casa di mia madre — tutto sconquassato, infestato di morti — perso perso perso nell’infinita eternità della nostra rovina —
IERI SERA MIO PADRE È TORNATO a Lowell — O Signore, o vita ossessionata — e non era granché interessato a nulla — Continua a tornare in questo sogno, a Lowell, non ha bottega, neanche un mestiere — si dice in giro che alcuni fantomatici amici lo stiano aiutando, cercando contatti, ne ha molti soprattutto nella schiera dei placidi vecchi misantropi — ma è debole e si suppone che non debba vivere ancora a lungo perciò non conta molto — Da tempo ha abbandonato i vivi — le sue emozioni di una volta, lacrime, liti, tutto è finito, resta soltanto il pallore, non gli importa più di niente — ha un’aria perduta e distante — Lo abbiamo visto in una caffetteria, sull’altro lato della strada davanti a Paige ma non al Waldorf — mi parla a malapena — più che altro è mia madre che mi parla di lui — «Ah be’, ah bien, lui vivra pas longtemps ce foi ici!» — «Non vivrà a lungo stavolta!» — non è cambiata — seppure anche lei si lamenti nel vederlo cambiato — ma Dio oh Dio questa vita ossessionata continuo a sperare contro la speranza contro la speranza che lui sopravviva comunque anche se so non soltanto che è malato ma che questo è un sogno e che lui è morto nella vita reale — COMUNQUE — sono in ansia… (Quando scrivevo La città e la metropoli volevo dire “Peter era bianco di ansia” — perché l’ossessionante tristezza che provo in questi sogni (PA-G-X-4327) è bianca —) Forse pa’ se ne sta tranquillamente seduto su una sedia mentre parliamo — gli è capitato di venirsene a casa dal centro per sedersi un po’ ma non tanto perché è casa sua quanto perché al momento non ha altro posto dove andare — infatti bazzica tutto il giorno per le sale da biliardo — legge un poco il giornale — è lui il primo a non voler più vivere — questo è il punto — È così diverso da come era nella vita reale — nella vita ossessionata adesso penso di vedere la sua vera anima — che è come la mia — la vita non significa nulla per lui — oppure, io stesso sono mio padre e questo sono io (soprattutto nei sogni di Frisco) — ma è pa’, l’uomo grande e grosso, tuttavia fragile e pallido, ma così misterioso e così non-Kerouac — ma sono io quello? Vita ossessionata, vita ossessionata — e tutto questo avviene a pochi centimetri di distanza dal sogno di nubidacciaio del 1946 che mi salvò l’anima (il ponte oltre la Y, a dieci isolati dalla caffetteria —) Oh Dio maledizione —
UNA LUNGA TRANQUILLA CHIACCHIERATA NEL DORMIVEGLIA CON EVELYN — quasi reale — su quanto il suo amore sia “senza speranza” e quel che accadrà e non accadrà — non capisco affatto l’amore — ma sto seduto là discutendo infervorato e tracannandomi le ore degli angeli — orologio alla mano —
IL POSTO PIÙ STRANO DEL MONDO è quella piccola vecchia casa coloniale da regno delle fate su un vicolo stretto sul retro della vecchia tipografia di mio padre vicino al Royal (quindi in Market Street) ma anche in Inghilterra e grigia — acciottolato — molti sogni lì, vaghi matrimoni, ragazze, forse qualcosa a che fare con l’altra vita percepita nella Visione di Market Street di Frisco — (Market Street? Dei greci?) — Su un’altra strada stranissima quasi la Aiken o la Lilly a Centralville ma anche una grande misteriosa via dello struscio in una città terribilmente importante come New York (Bronx Street?) o Montreal — ma in realtà Aiken Street — ma veramente Juarez al Prado (New Haven!!! Ecco dov’è) — un ragazzino, un ragazzo, vestito bene, tipo giro delmondo-con-ottanta-dollari-in-autostop, cavalca lungo i binari del tram ma tiene le redini così allentate che io, dal marciapiede del negozio di Scoop, dico «Ehi, quelle redini sono troppo allentate — perderà il controllo del cavallo —». Ma il ragazzino trotta solennemente lungo la strada, nel traffico, poi però comincia a galoppare, o per farsi vedere o perché ha perso il controllo, e mentre galoppa le redini gli scappano sempre più dalle mani finché non si lascia andare all’indietro e si impenna per poi cadere sulla schiena con le mani sollevate che stringono futili lunghe briglie sventolanti mentre il cavallo attraversa al galoppo un incrocio pericoloso dove il semaforo è appena scattato ed eserciti di auto e camion che avevano rombato in attesa del verde premono l’acceleratore minacciosamente fino a cento chilometri orari e ora sfrecciano a tutta birra e mancano appena cavallo e cavaliere ma io capisco che finirà presto ammazzato per strada — e grido «Tieni quelle briglie! Tira!» — non è un bambino, dico a me stesso, ha abbastanza forza per far impennare quel cavallo se vuole — non ha un po’ di giudizio? QUESTO NON SONO IO
Inoltre c’era Garden e c’erano scuole sugli orli crudi laterali, ma non ho prestato molta attenzione e non ricordo, tranne che, un’alba, al risveglio, ho avuto nella mia mente la visione di tre parole … «ancora vomitevole pioggia» … ritorna ancora la vomitevole pioggia —
(«Ti sei beccato una pallottola» dice Little Paul)
NON VOLEVANO LASCIARMI LAVORARE sulla nave anche se era appena salpata dal molo North River dove Joe e io avevamo passeggiato molte volte — un molo grigio, lugubre — pericolante, crivellato come un alveare, con il “riformatorio di Julien”, come chiamo uno strano caseggiato arabeggiante e il punto in cui ma’ e io stavamo in piedi sul ponte di una nave da guerra nel famoso sogno dei granchi grandi come asciugamani per la faccia che galleggiavano nell’acqua che Hubbard ha analizzato nel 1945 — sono nel mio alloggio, siamo già al largo, mi sento solo, malissimo, perso in labirinti di stanze tinte di fresco e armadietti e cuccette e preoccupato per il gelido mare grigio e vengono gli ufficiali a controllare i miei documenti e lui, il capo, giovane, sorride — lo chiamo Secondo, intendendo Primo Ufficiale, dimenticando il “Signore” — «Non può navigare senza il tal documento» dice, con un sorriso stupito, «Dovrà fare questo viaggio ma non può lavorare» — in porto avevo dato una mano a mollare gli ormeggi — ero saltato a bordo all’ultimo minuto mentre la nave si allontanava lungo il canale affollato, vedevo il fumaiolo levarsi oltre i tetti — come sia salito non è chiaro, tornavo da un ballo spettrale in luoghi dai saloni immensi come la Torre Cittadina della Baia del Messico con una gran confusione di gente qualunque — o povero ragazzo ossessionato povero John Kerouac ma hai fatto rotta per un lungo triste sogno —
Il fumo è sul Fiume di Catrame, il passero batte le sue fragili ali —
ADESSO A DENVER — sogno di andare in un magazzino e ci sono Joe Gavota e Joe Melis e mi alzo in modo teatrale distribuendo gomitate a Melis sulla sua pesante felpa della Lowell High School e lui non è affatto sorpreso ma è come se sapessero che sono lì in giro e infatti Gavota (che mi ha consegnato su un piatto d’argento la partita di football del ’38 a Lawrence) non solleva neanche lo sguardo — sono tranquilli ma in un certo senso consapevoli, e mi sento colpevole e stupido per qualche motivo — a una grande festa da delirio, dopo gli amori nel letto di una stanza secondaria con le veneziane alle finestre (penso in una casa su una strada sterrata, lo stesso perfetto amore coniugale futuro che ho sognato tanto tempo fa, la chiarezza è perfetta) — noi, amore e io, ragazza dal bellissimo giovane corpo abbronzato che mi fa impazzire, sediamo sul pavimento, il nostro amore forse dovrebbe restare un segreto, lei mi viene vicino, io dico «Non qui non pensi?» (si svolge tutto in Australia!) e come Edna lei squilla una risata e si butta indietro sollevando il suo culetto senza mutande nuda fessura e tutto verso il gruppo di donne gelose che osservano mentre danzano con uomini che se ne fregano — in un modo o nell’altro — oppure un corteggiatore geloso nella cucina sul retro — la stradina sterrata dell’Arabo Velato e della scuola nel tardo pomeriggio dorato in cui mia madre mi comprò una mazza da baseball e Gavota e Melis (della squadra di football della Lowell High School) erano lì —
Appare Deni Bleu, scivoliamo giù per una collina ma non sulla neve, D è di buon umore — rompe una finestra — intera sezione del muro — le stecche cadono come la malandata casa tugurio di ieri sotto il viadotto di Denver — Deni su per una scala a libretto — che se la ride — e il mio amore di ragazza là — somigliante a Edna più di ogni altra — ma il suo culo è esattamente come quello di June Evans! (e ieri al telefono dicevo «Evelyn Pomeray somiglia a June Evans più di ogni altra») (a Mannerly) — misteri a profusione proprio qui. (Devo sopravvivere a loro e amarli oppure loro mi amano o è odio, guerra & morte —)
ADESSO A SAN JOSÉ...