Se chiediamo a ciascuno di noi qual è la cosa che più desidera, otteniamo quasi sempre risposte scontate. Si vogliono realizzare risultati concreti, una carriera soddisfacente oppure più soldi, la casa dei sogni, un matrimonio d’amore, la salute. Ma forse oggi, dopo tanti anni di speculazione psicologica, è ancor più di moda il desiderio di “essere se stessi”.
In qualche modo sappiamo che siamo unici nel mondo e che a ciascuno di noi spetta il compito di realizzare la propria natura. Ma spesso confondiamo ciò che siamo con ciò che crediamo di essere. Eppure sentiamo che in noi abita un’atmosfera speciale, un modo unico di essere nel mondo. Quasi sempre questa unicità è coperta e sovrastata dalle maschere che indossiamo, dai ruoli che recitiamo, dagli ingannevoli luoghi comuni che facciamo nostri. Finiamo per credere di essere quello che non siamo, qualcosa che con noi non c’entra proprio niente. Ce lo spiega molto chiaramente Krishnamurti.
Ciascuno di noi ha un’immagine di quello che crediamo di essere o di quello che dovremmo essere, e quella immagine, quel ritratto, ci impedisce nel modo più assoluto di vedere come realmente siamo.1
Ma accanto alla falsa immagine di sé di cui parla Krishnamurti, nel profondo, nell’invisibile, qualcosa “sa” fare il mio essere, il mio corpo, la mia unicità. Mentre passo la vita a inseguire un falso Io, in me c’è un’Immagine profonda, che vede il mio destino, che fa il mio destino. Qualcosa che “sa” scegliere gli interessi, le passioni, gli incontri, le relazioni adatte solo a me, come le radici della pianta, nel profondo della terra, selezionano le sostanze che l’albero deve assorbire. Solo quelle che vanno bene per lui. Se lo sa fare una pianta, figurarci un uomo o una donna…
Se facessimo un sondaggio, quasi nessuno rinuncerebbe a “essere se stesso”. Possono farci gola i soldi facili, gli amori giusti, il successo, ma vogliamo essere noi, proprio noi i protagonisti di tutto quello che ci può arrivare di concreto dalla vita. Si sente spesso dire: “So cosa voglio, so cosa mi serve, so cosa è bene per me” e, anche quando andiamo in psicoterapia per parlare dei disagi, noi crediamo di sapere bene che cosa ci fa star male o chi ci ha causato o ci causa danni esistenziali.
Come psicoterapeuta e come psichiatra ho la sensazione che sappiamo troppe cose di noi stessi, che abbiamo troppe certezze sul da farsi e che ignoriamo completamente il lato invisibile della nostra anima. Ne ignoriamo le leggi, e per la verità queste stesse leggi sfuggono persino a chi le dovrebbe conoscere meglio, cioè a quelli che dovrebbero essere gli specialisti dell’anima, come gli psicologi, gli psichiatri, e gli altri operatori della psiche.
Cosa vuol dire “essere me stesso”, se sono un processo in continuo mutamento, se la persona che va a dormire la sera non ha quasi nulla a che vedere con quella che si sveglia al mattino? Ci risponde ancora Krishnamurti.
Vuol dire morire a tutto ciò che appartiene a ieri, dimodoché la vostra mente sia sempre fresca, sempre giovane, innocente, piena di vigore ed entusiasmo.2
In realtà quasi tutti i nostri progetti di autorealizzazione non vengono da quella Immagine profonda, ma da quello che crediamo di essere, che è il nostro vero e unico nemico.
Insomma, nella vita di ciascuno di noi la “falsa immagine” prende il sopravvento. Quando sogniamo siamo noi stessi? E se è così, perché non comprendiamo, se non a sprazzi, la ragione dei sogni e che cosa vogliono dirci? E perché il sogno usa un altro linguaggio, lontanissimo dai modi di parlare che ho con me stesso e con gli altri? Sono me stesso quando sono lucido, cosciente o anche quando dormo, assorto nel mio buio più profondo, nella notte cosmica, che abita tutti gli esseri del mondo?
Sono abitato da mondi invisibili che non sembrano affatto perseguire le vie della conoscenza che utilizzo per fare di conto, per dare appuntamento alle persone, per leggere un libro, per dare un’educazione ai figli, per scegliere chi votare. Era ed è invisibile il processo che da una cellula fecondata mi ha portato sino a qui, mentre scrivo questo libro. Ho scelto io le mie passioni, i miei talenti, le mie capacità, i miei amori, gli incontri che hanno cambiato la mia vita, che hanno dato una svolta al mio percorso? Ho scelto io la mia vita e le sue trame? Le mie decisioni sono state proprio mie, ammesso che ciascuno di noi abbia veramente preso una qualche decisione degna di tal nome?
Lo sconosciuto che ci abita
Se non sono io a fare l’essere che sono, ad avere scelto questo corpo e l’insieme delle sue funzioni, ad avere creato e a creare, oggi come allora, il mio cervello, allora diviene fondamentale conoscere le leggi che il mio Io non vede e che pure sono la base del mio essere nel mondo.
è invisibile la trama del mio corpo, è invisibile il suo formarsi e il suo tramonto… Le leggi scientifiche, al di là della loro hybris, della loro superbia, hanno detto ben poco di come funziona il nostro corpo, e non hanno detto assolutamente nulla dell’invisibile che ci abita, delle sue funzioni profonde, dell’eventuale contatto (ammesso che sia possibile) tra il mio Io e quel processo nascosto che sembra agire del tutto a mia insaputa.
Certo posso decidere l’ora in cui andare a dormire, ma se poi il sonno verrà o meno non dipende da me, come ben sa chi soffre di insonnia. Cosa desidera l’invisibile che mi abita e mi crea, che cosa gli piace, chi vuole amare, quale lavoro gradisce: questo non appartiene a me, non sono io il protagonista. La mia essenza vive agli antipodi dell’idea che mi sono fatto di me.
L’invisibile che mi abita che cosa ha a che vedere con ciò che credo di essere, con ciò che voglio essere? L’invisibile comunica, parla alla mia identità, al viso che riconosco allo specchio, a ciò che mi dico, a ciò che penso di me? Le mie decisioni lo riguardano? Oppure viviamo in una costante illusione, come se uno specchio deformante ci facesse vivere una vita che non ci appartiene, modellata su una delle tante maschere che indossiamo con noi stessi e con gli altri? Il “voglio essere me stesso”, se non viene dalle radici, è solo un’illusione.
Il mio lavoro mi ha insegnato che tutto ciò che crediamo di essere è solo una maschera che quasi mai corrisponde all’essere invisibile che ci fa sognare, che trasforma incessantemente il nostro corpo, e che pure è la base della nostra unicità.
Paradossalmente, catturati come siamo dalle mille identità che indossiamo, l’invisibile è lontano da noi miliardi di chilometri. Ci è sconosciuto più di qualsiasi altro essere del cosmo: il paradosso è che ciò che ci crea è distantissimo dal nostro sistema di riconoscimento. Non a caso Nietzsche ricorda che per noi uomini vale in eterno la frase: “Ognuno è a se stesso il più lontano”.3 Dunque dire: “Voglio essere me stesso” è veramente una sciocchezza.
Come possiamo condurre la nostra vita, essere noi stessi, se l’invisibile che ci abita e che ci crea non ha alcun rapporto con nessuna delle maschere che indossiamo? Se è così, tutte le volte che “dico” me stesso, che mi definisco, che credo di sapere come sono, in realtà sto precipitando in un’illusione ancora più grande.
Conoscere i codici di questo invisibile può cambiare la partita.
L’anima non pensa, immagina
Ma qui si deve fare una premessa decisiva: come il seme sta nascosto nella terra, come le radici vivono occultate alla pianta, la mia essenza vuole restare nascosta, rifiuta di entrare nel regno del visibile, dell’apparenza. Esattamente il contrario di quello che accade oggi, dove cerchiamo di capire tutto, di spiegare tutto, di portare alla coscienza le “cause” di ciò che siamo o almeno crediamo di essere.
L’essere sconosciuto da cui prende sostentamento il mio Io ragiona in modo nascosto, sotterraneo, non vuole essere messo sotto i riflettori dei miei giudizi, della mia visione del mondo, delle mie opinioni, delle mie aspirazioni. Vuole restare sconosciuto: solo da questo stato può operare al meglio, può creare il mio essere, il mio divenire, il mio destino.
Bisogna imparare a non dirsi niente, a non avere parole da pronunciare verso se stessi, a non commentare le proprie azioni, ma a guardarle e basta. Nei gruppi del giovedì, gli incontri di psicoterapia che conduco settimanalmente, insegno una tecnica semplice: socchiudere gli occhi e immaginare le cose che disturbano o che credo disturbino la propria vita. Bisogna visualizzare le scene sgradevoli della propria esistenza e lasciarle depositare nel buio che c’è dentro i propri occhi. Poi invito il gruppo a scrivere, come su una lavagna interiore, questa frase: “Non devo dirmi nulla”. Guardare le cose dentro di sé, senza commentarle, senza dirsi nulla, significa stare con se stessi e con le immagini che si visualizzano, senza esprimere alcun parere.
È un modo di dire allo Sconosciuto: “Queste sono le immagini che sono venute a trovarmi… Fa’ tu, provvedi tu, non dipende da me, rimettimi le cose a posto, se credi e se vanno rimesse a posto…”. Per Sconosciuto intendo un’Immagine interiore, originaria che vive nelle cose dell’essenza, cioè dell’essere che sono davvero. Credo che i nostri disturbi peggiorino in modo significativo, ogni volta che cerchiamo di cancellarli, considerandoli un segno di imperfezione del nostro essere. Lo Sconosciuto ama le Immagini? Questa è una buona domanda, perché se il suo linguaggio vivesse di Immagini e non di pensieri e di parole, l’unico modo per stare bene sarebbe quello di usare l’immaginazione invece di ragionare su di sé come fa la stragrande maggioranza delle persone.
L’essere invisibile che mi crea può agire contro di me? Può il seme essere contro la pianta che genera? Può lo Sconosciuto detestarmi e mandarmi dei disagi? Oppure i disturbi che vengono a visitarci sono modi della nostra essenza sconosciuta di spazzare via le false identità, le maschere che hanno preso il sopravvento, ciò che crediamo e che ci siamo messi in testa di essere, che ci impediscono di fare la nostra vera strada?
Lo Sconosciuto che ci abita detesta i pensieri: perciò pensare e ripensare a come mandare via i disagi dall’anima è proprio il modo migliore per rinforzarli e magari cronicizzarli. Peggio ancora gli psicofarmaci! Perché se la mia essenza, attraverso un attacco di panico, mi sta curando, allontanandomi da strade che mi distolgono dall’essere particolare che sono, finisco nel vedere magari ridursi i sintomi, ma avrò perduto la sola cosa per cui sono al mondo: la mia unicità.
Insomma c’è uno Sconosciuto che fa di me l’essere che sono, che ama restare nascosto, che non vuole essere visto, che non desidera che si ragioni su di lui, che detesta essere catapultato all’esterno, e che pure “sa” cosa fare di me, dove portarmi, quale sentiero farmi percorrere.
“Certe anime hanno imparato tutto da guide invisibili”4 sosteneva Abu’l-Barakat al-Baghdadi.
Se si dimentica tutto questo, allora sì, siamo veramente perduti e condannati.
C’è bisogno di formare dentro la nostra interiorità un senso di incertezza, un non sapere, un non pensiero, perché lo Sconosciuto possa veramente portarmi dove devo andare. È un paradosso la nostra vita: siamo unici, ma il fondamento della nostra unicità non ci appare direttamente, non appare ai nostri occhi, e men che meno è alla portata dei nostri ragionamenti e dei nostri pensieri.
“Oscura e misteriosa è la vita umana” scrive Filip David “e nulla in essa è facilmente comprensibile.”5 Allo stesso modo in cui le radici della pianta sono invisibili alle foglie: eppure tutto il “sapere” di ogni albero è nelle radici. Così siamo “noi stessi” solo se siamo lontani dalla superficie dell’anima, e quindi prima di tutto dai pensieri.
Così c’è in ognuno di noi un “amico invisibile”, la nostra “radice”, che sa molte più cose di noi, ha un senso pratico del tutto unico, visto che sa fare la cosa più concreta che esiste: il mio corpo, il mio volto, che è l’impronta dell’essere che sono davvero e che gli altri vedono e riconoscono. Essere unici non dipende da noi… ma da un essere Sconosciuto che conduce incessantemente la mia esistenza.
Se queste premesse sono vere, il sistema di approccio allo Sconosciuto è la base della conoscenza del mio essere ed è la base della mia autorealizzazione, che non sarà quella delle identità che assumo, ma proprio quella del seme che sono: e una sola goccia di seme sa fare un bambino, sa creare il volto irripetibile di ogni essere umano. L’intelligenza del seme ragiona per Immagini… Se non sviluppo l’essenza del mio seme, allora sono solo somiglianza, cioè un’illusione, un aborto della vita. Come se una rosa per tutta la vita recitasse il ruolo del garofano: avrebbe tradito tutta la sua esistenza e forse anche quella delle rose del suo campo.
Qualche giorno fa un giornalista mi domandava perché sono contrario al lifting. “Che male c’è” mi ha chiesto “se una donna si rifà le labbra, si gonfia gli zigomi col silicone, si spiana le rughe col botulino?” A ben guardare, le donne e gli uomini “rifatti” finiscono per avere lo stesso aspetto, si assomigliano tutti, come i “personaggi” dellaTV. Ma se la semenza di ognuno di noi contenesse un’Immagine primordiale, che si incarna soprattutto nel viso, modificare quell’immagine per farla assomigliare a un modello giovanilistico comune significherebbe allontanarsi più che mai dalla nostra essenza. Per questo le persone superficiali hanno paura di invecchiare: non conoscono l’immagine che le abita, perciò non sanno più chi sono, cosa vogliono davvero, non sanno neppure più in che stagione della loro vita si trovano.
Le leggi dell’anima sono prima di tutto leggi naturali, cioè del tempo in cui si vive, della stagione che ci appartiene. Chi è nell’autunno dell’anima h...