La serenità
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La serenità

  1. 80 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La serenità

Informazioni su questo libro

Una moderna rappresentazione delle inquietudini dell'uomo contemporaneo, in un dialogo sorprendente che rivela un approccio psicanalitico ante litteram.
"L'insostenibile leggerezza" del vivere, gli pseudobisogni che ci alienano, il sottile inappagamento di chi sperimenta continui cambiamenti ma non riesce a colmare il vuoto interiore.
La riflessione, l'autoanalisi, la conoscenza di sé: è questa la via per raggiungere la serenità, come ci insegna il più grande filosofo della latinità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804547891
eBook ISBN
9788852013102

Le domande di Sereno

Da qualche tempo scruto con attenzione dentro di me, Seneca, e ho scoperto diverse categorie di difetti: gli uni assai evidenti, che si possono, per così dire, toccare con mano, altri meno evidenti e più nascosti, altri ancora discontinui, che si ripresentano a intervalli; questi ultimi sono forse i più molesti, e assomigliano a nemici sparsi qua e là, pronti ad assalirmi alla sprovvista, nei confronti dei quali non so mai che comportamento adottare, se tenermi sempre all’erta, come si fa in tempi di guerra, o disarmato e tranquillo, come in tempo di pace.
C’è un mio atteggiamento, in particolare, che detesto (perché non dovrei dirti la verità come farei con un medico?): di non sentirmi né del tutto libero da ciò che temo e odio, né del tutto sottomesso al suo dominio. Mi trovo in una situazione non certo disperata, ma certamente sgradevole e fastidiosa: non sono propriamente malato, ma non sto nemmeno bene.
Non occorre a questo punto che tu mi ricordi che tutte le virtù all’inizio sono fragili e solo col tempo acquistano consistenza e solidità. So benissimo che anche le attività che mirano alla pura apparenza, come la fama e il successo nell’eloquenza e tutto ciò che dipende da un consenso popolare, acquistano vigore col passare del tempo: sia ciò che procura autentiche forze sia ciò che ha l’intento di piacere solo per una vernice esteriore abbisogna di anni perché a poco a poco il tempo gli conferisca colore; ma c’è una cosa di cui ho paura: che l’abitudine, sempre in grado di indurre stabilità e costanza a tutto, radichi in me troppo profondamente questo difetto: la frequentazione troppo prolungata sia dei mali che dei beni ti induce ad amarli, gli uni come gli altri.
Di che natura sia questo disagio dell’animo, che non sa decidere fra due diverse inclinazioni e non si volge con fermezza né al bene né al male, non riesco a mostrarlo nell’insieme, ma piuttosto nei particolari. Io ti dirò punto per punto quello che mi accade e tu troverai il nome della malattia.
Amo sopra ogni cosa la semplicità, e non mento nel dirlo: mi piace un letto senza inutili baldacchini o ornamenti di sorta, un abito non necessariamente tirato fuori da un armadio né stirato sotto mille pesi o strumenti che esaltino la vivacità dei suoi colori, un vestito da casa, semplice e modesto, che si possa conservare e soprattutto indossare senza eccessivi riguardi; quanto al vitto, preferisco una qualità di cibo che non richieda lunghi preparativi da parte dei servi né la loro sorveglianza mentre lo consumo; non desidero prelibatezze da ordinare molti giorni prima e servite da molte mani, ma di facile preparazione, che non costino soverchie fatiche; niente di raro o ricercato, ma che si trovi dovunque, non pesi né sul patrimonio né sullo stomaco, che non ritorni fuori da dove è entrato.
Il mio servo ideale non dev’essere un damerino schizzinoso, ma uno schiavetto rustico, non ammaestrato; l’argenteria che si addice alla mia casa è quella massiccia di un padre campagnolo, senza firme d’artista, e non m’importa che la tavola sia di gran pregio, intagliata con varietà e ricercatezza, o rinomata in tutta la città per esser passata fra le mani di un gran numero di nobili padroni: la preferisco adatta all’uso quotidiano, che non attiri, per il piacere che offre, l’eccessiva ammirazione o l’invidia di alcun convitato.
Ebbene: pur essendo convinto della convenienza di tutto questo, e che in ogni caso la semplicità sia la scelta migliore, non posso fare a meno di restare colpito alla prima occasione in cui mi trovo dinnanzi lo spettacolo fastoso di un corteo di paggi o di una schiera di paggi abbigliati splendidamente e adorni d’oro con più cura che per una processione, e alla stessa maniera, quando mi trovo in case sfavillanti di luci preziose anche dove poggio i piedi, di fulgidi soffitti intarsiati, traboccanti di ricchezze sparse in ogni angolo e di gente che corteggia patrimoni effimeri, non rimango indifferente a tanto lusso. E come si potrebbe del resto rimanere indifferenti di fronte a spettacoli di tale bellezza, ad acque trasparenti fino al fondo, che addirittura scorrono fra le mense gremite di convitati?
Che dire poi dei banchetti, degni degli scenari che fanno loro da sfondo? Dopo il triste rigore di un lungo periodo di temperanza, mi assale col suo fascino irresistibile il fulgore di quello sfarzo, e mi frastorna da ogni parte: i sensi vacillano, e in simili circostanze, attratto e quasi rapito da tanta luce, mi riesce più facile appellarmi al ragionamento che allo sguardo; ritorno da queste feste non certo più cattivo ma più amareggiato, e quando rientro nel mio regno disadorno non mi sento più tanto superbo della mia condizione, che tutt’a un tratto mi pare misera, e tacito e insidioso subentra l’assillo del dubbio: dubito se per caso non siano preferibili quelle magnificenze che solo teoricamente disprezzo.
Nulla di tutto questo mi altera, ma sicuramente sono tutti pensieri che mi turbano.
Mi sento sinceramente intenzionato a mettere in pratica la sostanza delle nostre dottrine filosofiche e a entrare, ad esempio, nel vivo dell’attività politica: sono deciso ad aspirare alle cariche e ai fasci, non certo per vanità o per amore di porpora e verghe, ma per poter essere d’aiuto agli amici, ai congiunti, ai concittadini e insomma a tutti gli uomini. Mi sento risoluto ed entusiasta come un novizio nel seguire Zenone, Cleante, Crisippo, anche se nessuno di loro si dedicò in effetti alla vita pubblica ma vi indirizzavano i discepoli. Quando il mio animo, così poco avvezzo agli urti, riceve qualche brutto colpo, quando mi trovo dinnanzi qualche situazione spiacevole o indegna (e se ne presentano parecchie nel corso di una vita), o qualcosa non va come dovrebbe andare, quando occupazioni di scarsa importanza mi portano via troppo tempo, allora mi rivolgo alla vita contemplativa e mi comporto come i greggi che, per quanto stanchi, affrettano il passo vicino all’ovile.
Così torno di nuovo a godere delle gioie di una vita ritirata tra le pareti domestiche, impedendo a chiunque di rubarmi anche solo una giornata, giacché nulla mi si può dare in cambio di tale perdita; ecco che il mio animo torna di nuovo padrone di sé, si chiude in se stesso e non pensa più a nulla di estraneo, a nulla che possa dipendere dal giudizio altrui: sono assetato di una serenità completamente aliena da ogni preoccupazione pubblica o privata.
Ma basta che una bella lettura mi infiammi lo spirito con nobili esempi di attività che subito mi sento spronato in senso opposto, e di nuovo sono assalito dalla brama di correre nel foro, di mettere al servizio del prossimo la mia opera e la mia parola, magari anche solo per un tentativo di far trionfare la giustizia, di frenare la superbia di qualche personaggio che il successo ha reso troppo audace.
Passando all’argomento dello studio, sono convinto che sia meglio mirare ai contenuti, parlare solo in vista di questi e adeguare le parole ai concetti, in modo che, in qualunque direzione vadano, il discorso li segua senza sforzo.
Che bisogno c’è di affannarsi per comporre capolavori che durino immortali? Non è da stolti darsi tanto da fare per passare ai posteri? Siamo nati per morire: è preferibile a tanti inutili sfarzi un funerale modesto e silenzioso. Scrivi dunque in modo semplice, per occupare il tempo e per tuo uso, non per ostentazione: si affatica meno colui che si impegna con misura, un poco ogni giorno; quando poi l’animo si innalza a pensieri sublimi anche il modo di esprimersi si raffina: non solo il pensiero, ma anche lo stile si eleva. Accade anche a me: non trovo più congeniali al mio stato interiore piacevolmente esaltato le forme d’espressione usuali e mi trovo a parlare in un linguaggio che non è il mio. Non voglio dilungarmi in elenchi minuziosi, ma sappi che in ogni situazione mi accompagna immancabilmente questa debolezza di propositi; ho la spiacevole sensazione di trovarmi sull’orlo di un precipizio, di essere prossimo a cadervi, con conseguenze più gravi di quanto possa sembrare superficialmente. Infatti si guarda sempre con molta indulgenza ai nostri difetti, non è mai del tutto imparziale il giudizio del nostro comportamento. Sono certo, ad esempio, che molti avrebbero potuto raggiungere il traguardo della saggezza se non avessero pensato di esservi già arrivati e non avessero dissimulato alcuni loro difetti, scavalcandone altri a occhi chiusi. Non c’è ragione di credere che la nostra adulazione, quella nei confronti di noi stessi, ci rechi meno danno dell’adulazione altrui. Chi ha veramente il coraggio di dire tutta la verità a se stesso?
Insomma, se tu sei in grado di proporre qualche rimedio, o un antidoto a questa mia insicurezza, sappi che ti riterrò per sempre il mio salvatore, colui al quale devo la mia serenità.
So che lo stato in cui mi trovo non è di una gravità irrimediabile e non comporta ancora turbamenti insostenibili: per chiarirlo con un paragone che mi sembra appropriato, ti dirò che mi sento come chi naviga in preda al mal di mare, e benché non vi sia una vera e propria tempesta ha ugualmente paura.
Se puoi liberarmi da questo malessere, qualunque sia, ti prego di farlo: sono un viaggiatore afflitto anche se non lontano dalla costa, che mi sembra già d’intravvedere.

Le risposte di Seneca: come raggiungere la serenità

Mio caro Sereno, è già da parecchio tempo che mi domando, meditando fra me mentre ti ascolto, a cosa potrei paragonare lo stato d’animo di cui parli; l’esempio che mi pare più appropriato è quello di chi, guarito da una grave e tediosa malattia, si sente ancora scosso di tanto in tanto da brividi e leggeri malesseri, e, pur avendo superato il peggio, anzi essendosi già ristabilito in buona salute, è sempre assalito dal sospetto di una ricaduta e si fa tastare di continuo il polso dal medico, impressionandosi al minimo rialzo di temperatura.
Chi si trova in simili condizioni, mio caro Sereno, è ormai sano dal punto di vista fisico, ma non s’è ancora, per così dire, abituato alla sanità, proprio come accade quando il mare, quietatosi da una tempesta che l’ha sconvolto, presenta ancora sulla sua superficie qualche fremito e qualche movimento quasi impercettibile.
Nel tuo caso non occorrono quelle cure energiche, né quegli aspri rimedi di cui abbiamo già parlato, cioè che tu ti opponga a te stesso e ti autopunisca irosamente; bisogna invece ricorrere al rimedio che viene da ultimo: che tu abbia fiducia in te stesso, che tu sia convinto di essere sulla retta via, e non ti lasci depistare dai passi falsi di tutti quelli che vanno errando – e sono molti – senza una precisa meta, né tantomeno dai pochi che procedono decisamente fuori strada.
Ciò di cui senti la mancanza è qualcosa di grande e sublime, quasi di divino: l’assenza di turbamento. Questa condizione di equilibrio spirituale fu chiamata dai Greci euthymía, e Democrito le dedica un intero libro, bellissimo; io la chiamo tranquillità, giacché non siamo obbligati a esprimerci in modo identico a loro e a usare gli stessi vocaboli: l’importante è capirsi sul concetto fondamentale del discorso, e il nome che usiamo deve avere il significato di quello greco, non necessariamente la stessa forma.
Dunque, noi stiamo impegnandoci in una ricerca: come possa l’animo procedere sempre in modo equilibrato e vantaggioso, sereno con se stesso, disposto ad analizzare con calma equità tutto ciò che lo riguarda e come possa mantenere questo stato di tranquillità senza turbarla, evitando sia di cadere in depressione sia di esaltarsi senza motivo. Questa sarà dunque la vera serenità. Incominciamo a porci il problema in generale, per vedere come si possa giungervi; poi da questo criterio generale tu prenderai quel che ti sembra più adatto a te.
Prima di tutto conviene chiarire i termini del problema nella sua completezza; ognuno potrà riconoscervi abbastanza facilmente l’aspetto che lo riguarda. Allo stesso tempo tu potrai capire il tuo privilegio: avrai molto meno motivo di insoddisfazione tu di coloro che, vincolati da una professione impegnativa e travagliati pur sotto l’apparente vantaggio di un nome famoso, sono incatenati alla loro finzione dalla vergogna più che da un preciso convincimento.
Si trovano tutti nella stessa condizione, mio caro: sia quelli che sono tormentati dalla volubilità, dal tedio e dal continuo cambiamento di propositi, a cui piace sempre di più ciò che si sono appena lasciati alle spalle, sia quelli che se ne stanno sempre inattivi a poltrire e a sbadigliare. Aggiungi a questi la schiera di coloro che assomigliano a chi soffre d’insonnia e continua a rigirarsi cambiando di continuo posizione finché trova riposo solo perché la stanchezza l’ha sfinito: questi mutano sempre la loro condizione di vita, e alla fine rimangono in quella in cui li stabilizza non la volontà di restarvi ma la vecchiaia, restia a ogni genere di novità.
Dovrai inoltre aggiungere a queste un’altra schiera, quella di coloro che sono poco volubili non in virtù di costanza, ma semplicemente per inerzia e vivono non la vita che si sono scelti ma quella che il caso ha sorteggiato per loro da principio.
Innumerevoli sono le sfumature del male, ma una sola è la conseguenza: tutti sono in disaccordo profondo con se stessi. Ciò deriva dalla debolezza dello spirito o da desideri non pienamente espressi o inappagati, per cui o non si osa o non si riesce a soddisfare aspirazioni e desideri ardenti o si resta vittime di una disperata speranza. Soggetti del genere oscillano sempre in una dubbiosa instabilità, com’è inevitabile che accada a chi non ha un equilibrio interiore: in ogni modo tendono alla realizzazione dei loro sogni, si costringono anche ad azioni ardue e disoneste, e quando constatano la vanità dei propri sforzi, l’insuccesso li mortifica come un disonore: non soffrono per aver desiderato cose fuori luogo, ma per averle desiderate inutilmente. Così li invade il pentimento di ciò che han fatto, e insieme il timore di ricominciare tutto da capo, nonché l’agitazione di chi non trova una via d’uscita, giacché non sono in grado né di porre un freno alle loro passioni né di appagarle; ne deriva insomma quella spiacevole inerzia di chi vive una vita che non si realizza mai ed è lentamente soffocata dall’amarezza dell’insoddisfazione. La situazione si aggrava se, per il disgusto della propria sfortuna, ci si rifugia in una vita solitaria e ritirata, insopportabile per chi sia abituato a un’esistenza attiva, ricca di eventi mondani: tutta questa gente, inquieta per natura, non riesce a trovare conforto nell’introspezione o nella dimensione contemplativa. Pertanto, quando vengono a mancare quei futili piaceri procurati da una vita di intense relazioni, non sopportano la solitudine di un’esistenza costretta nello spazio di quattro mura e si sentono dolorosamente abbandonati a se stessi. Ne deriva un gravoso senso di tedio e quell’ondeggiare dell’animo che non trova pace da nessuna parte, un’inerte e stizzosa malinconia per quest’inettitudine, specialmente quando ci si vergogna di confessarne la vera ragione e il ritegno costringe l’angoscia dentro di noi, dimodoché le passioni, occultate senza possibilità di manifestarsi, si strangolano per così dire da sole; ed ecco la cupa depressione che s’impadronisce dello spirito sempre più fragile e vacillante, ora illuso dalla speranza ora afflitto dalla delusione; ecco l’aspra intolleranza nei confronti della propria inerzia e del vuoto di ogni giorno, aggravata dall’invidia nei confronti dei successi altrui (l’inerzia infatti alimenta il livore, chi non ha avuto successo vorrebbe vedere in difficoltà il mondo intero). Da questa invidia per i successi altrui e dalla mortificazione per il proprio stato deriva anche uno sdegnoso risentimento nei confronti della sorte, un lamentarsi continuamente del proprio tempo, la tendenza a mettersi in disparte rimuginando sui propri mali, tra vergogna e pentimento.

L’inutile fuga

L’animo umano è per natura portato all’azione e al movimento. Ogni minima causa di eccitazione e distrazione gli è sempre gradita, particolarmente nel caso di ingegni poco nobili che volentieri si lasciano consumare da ciò che fanno; come certe ferite attirano irresistibilmente le mani che pure faranno del male, e godono d’esser toccate, e come l’odiosa scabbia trae piacere dall’essere irritata, allo stesso modo per certi individui, in cui le passioni si esasperano e vengono esulcerate, l’angoscia e la sofferenza sono una sorta di perverso piacere.
Anche per quanto riguarda il corpo, in effetti, alcune cose gli arrecano piacere e insieme sofferenza: basti pensare a quando ci si rigira ora su un fianco ora sull’altro cambiando continuamente posizione e ci si sfinisce, come l’Achille del famoso passo di Omero, ora bocconi, ora supino, ora in altre svariate posizioni: è proprio di c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Nota biografica
  5. LA SERENITÀ
  6. Le domande di Sereno
  7. Copyright