
- 352 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La Ragazza Drago - 1. L'eredità di Thuban
Informazioni su questo libro
Sofia guarda Roma attraverso il cancello dell'istituto dove è cresciuta e pensa che ormai non verrà più adottata da nessuno. Finché un eccentrico professore di antropologia non la prende con sé e la porta in una casa sul lago costruita intorno a un albero antico. Molto antico.
Il professore sembra conoscere molte cose del passato di Sofia. Un passato lontano, oscuro e magico che le ha impresso sulla fronte un neo, il segno dell'eredità dell'ultimo dei draghi: Thuban, colui che ha sconfitto e imprigionato Nidhoggr, la feroce viverna alata, nelle viscere della Terra.
Dopo trentamila anni la viverna si sta risvegliando, e tocca alla ragazza con il neo sulla fronte difendere la stirpe di drago.
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Informazioni
Print ISBN
9788804591887eBook ISBN
97888520123651
Un giorno fra tanti
Tirava vento. Ma non un vento cattivo di quelli che scompigliavano i capelli ricci di Sofia fino a trasformarli in un cespuglio inestricabile. Un vento piacevole, fresco, come quello che soffia sui ponti delle navi.
La città era immersa nel blu innaturale di un cielo limpidissimo. Le sue torri bianche risplendevano sotto la luce del sole, con le fontane di marmo e i giardini lussureggianti che adornavano le piazze e i vicoli stretti. Sofia li guardava con ammirazione, ma nel fondo del cuore sentiva una punta di nostalgia. Era tutto troppo bello e splendente per poter durare, e lei sapeva con certezza che quello spettacolo meraviglioso presto o tardi sarebbe svanito nel nulla come se non fosse mai esistito.
Si affacciò a una balconata di vetro e vide sotto di sé le nuvole. Stava volando, ma stranamente non aveva paura. Lei soffriva di terribili vertigini anche quando saliva sul primo gradino di una scala. Eppure là sopra, con la brezza che le accarezzava la faccia, si sporse nel vuoto con tutto il busto. Terre e fiumi scorrevano sotto i suoi occhi, mentre la città si spostava rapida in cielo. Poi un’ombra immensa si disegnò sul verde sottostante: Sofia alzò d’istinto lo sguardo verso il blu per capire cosa fosse. La luce del sole l’accecò, impedendole di distinguere qualsiasi forma.
«Allora, ti alzi o no?»
Freddo. Alle gambe, alle spalle.
«Sono stufa di doverti chiamare due volte ogni mattina e salire fin qua quando tutti gli altri ragazzi sono già scesi.»
Sofia strizzò gli occhi. Niente meravigliosa città piena di sole, niente ombra immensa. Come sempre, invece, un soffitto bianco macchiato d’umidità.
«E allora?»
Nel suo campo visivo apparve la figura secca e allampanata di Giovanna. Giovanna non aveva età, o forse era semplicemente nata vecchia. Lavorava all’orfanotrofio da prima che Sofia nascesse. Faceva un po’ di tutto: lavava, stirava, cucinava. Girava voce che fosse orfana anche lei, e che lì dentro ci fosse entrata da bambina per non uscirne mai più. Sofia, quando la guardava, pensava che quello sarebbe stato il suo destino: crescere dentro l’istituto, guardare Roma dalle sbarre del cancello, e un giorno diventare segaligna e acida come lei.
Del resto gli altri non mancavano occasione di ripeterglielo. «A tredici anni non ti adotta più nessuno, poco ma sicuro. Tu qua dentro ci resterai per sempre» sentenziava Marco, che era persino il più amichevole dei ragazzini dell’orfanotrofio.
«Scusami» bofonchiò Sofia tirandosi su e poggiando a terra i piedi nudi. Il contatto con il pavimento freddo la fece rabbrividire un istante appena.
«“Scusami, scusami”… me lo ripeti ogni mattina, e ogni mattina devo venire a buttarti giù dal letto!»
Sofia non ci fece caso; Giovanna lo diceva sempre, e la loro era ormai una pantomima collaudata.
«Vatti a lavare, va’, al limite dopo ti porto un cornetto di nascosto.»
Anche questo Giovanna lo faceva sempre.
Sofia si affrettò verso i bagni. Se c’era una cosa positiva nello svegliarsi tardi era che almeno aveva i bagni tutti per sé. Le piaceva la solitudine. Se le avessero chiesto quale fosse la cosa peggiore del vivere in un orfanotrofio, avrebbe detto la mancanza di privacy. C’era sempre gente ovunque. Dormivi con dieci persone in una camerata, mangiavi assieme ad altre cento, studiavi con altre trenta e così via. Unico momento per stare da soli, la mattina nei bagni.
Scelse uno dei lavandini e iniziò a lavarsi la faccia. Si contemplò allo specchio e, com’era prevedibile, i suoi capelli rossi e ricci erano un unico cespuglio aggrovigliato. Ecco perché tutti lì dentro la chiamavano Zucca. Sospirò. Si contemplò le lentiggini attorno al naso, nella speranza di non trovarne di nuove. Era una storia vecchia; quando aveva cinque anni, un ragazzino dell’orfanotrofio le aveva raccontato di una ragazza le cui lentiggini avevano iniziato a moltiplicarsi sempre di più, finché le avevano riempito tutta la faccia e il corpo. La poveretta si era ritrovata con la pelle di uno sgradevole rosso pomodoro, e da allora non era più uscita di casa. Ora, Sofia sapeva perfettamente che quella storia era uno scherzo per prenderla in giro, ma la paura che potesse accadere anche a lei continuava a tormentarla. Per questo ogni mattina non riusciva a evitare di controllarsi allo specchio. Del resto, si disse con tristezza, c’erano ben poche cose a cui riusciva a opporsi. Credeva a quella storia senza senso, soffriva di vertigini in un modo a dir poco vergognoso ed era il capro espiatorio prediletto di suore e istitutori. Per non parlare, poi, degli altri ragazzi. Si vergognava a parlare anche con quelli più piccoli, e tutti si burlavano di lei.
Finì l’analisi mattutina studiandosi gli occhi verdi e soprattutto il piccolo neo che aveva sulla fronte, poco discosto dalle sopracciglia. Era piuttosto curioso: aveva un colorito quasi azzurrino e sporgeva lievemente. Qualche tempo prima le suore avevano portato tutti dal medico per il controllo periodico, e il dottore che aveva visitato lei si era soffermato a lungo su quello strano neo.
«Ce l’hai da sempre?»
Sofia aveva annuito timorosa. Neanche a dirlo, aveva paura dei medici, e quello poi la considerava con troppo interesse. Si convinse all’istante di avere qualche malattia gravissima.
«Ed è sempre stato così?»
Annuì di nuovo.
«Uhm…»
Quel mugugno Sofia l’aveva preso come una condanna a morte.
«Tienilo controllato.»
«Ma è grave?» La voce già le tremava.
Il dottore aveva riso. «No, no… tutti i nei vanno controllati. Se lo vedi crescere, avvisa qualcuno e fatti portare da me, d’accordo?»
Da quel giorno, ovviamente, lo aveva sempre fatto.
Una volta convinta che tutto era a posto, Sofia s’infilò sotto la doccia e cercò di assaporare fino in fondo quel momento di solitudine.
La voce imperiosa di Giovanna, però, la riportò crudelmente alla realtà. «E allora! Quanta acqua vuoi consumare? E muoviti, che la scuola ti aspetta!»
Sofia sospirò. La sua vita era un libro in cui c’era una sola pagina che si ripeteva all’infinito. Persino i sogni erano sempre gli stessi. La città bianca che volava la sognava quasi tutte le notti; cambiavano solo piccoli particolari. Ogni volta che la vedeva, si sentiva felice e malinconica al tempo stesso. Era bello essere così diversa, in quei sogni. Era un’altra persona mentre guardava il mondo sottostante dalle balconate della città, e non solo perché non aveva le vertigini. Si sentiva sicura e con la testa sgombra da pensieri e preoccupazioni. Si sentiva nel proprio elemento, come se quella città fosse la sua vera patria, il luogo cui apparteneva.
Si infilò il maglione e i calzoni facendo i gradini a due a due. Andò nel refettorio di volata, quasi travolgendo Giovanna e il suo vassoio con sopra cappuccino e cornetto. Il silenzio del salone era perfetto, le panche ancora smosse dalla turba di ragazzini che era passata di là, la lunga tavolata ingombra di tazze e molliche.
«Questa volta suor Prudenzia ti ammazza, e io starò là a guardarla con piacere» bofonchiò Giovanna.
A quelle parole Sofia bevve in un sol sorso il suo cappuccino, poi prese il cornetto al volo e corse verso le aule.
Non appena varcò la porta, la direttrice la fulminò con uno sguardo. Era incredibile, ma una delle sue occhiatacce era capace di far scendere la temperatura nella stanza, letteralmente. Suor Prudenzia doveva essere piuttosto anziana, ma aveva un corpo vigoroso e ritto come un giunco. Teneva quasi sempre le mani nascoste nella tonaca nera e le sopracciglia aggrottate in un’espressione di solenne gravità. Quando era proprio arrabbiata, ne sollevava lievemente una, e allora tutti abbassavano lo sguardo. Dalla cuffia nera e bianca non sporgeva neppure mezza ciocca di capelli, e persino le rughe sulla fronte erano dritte e parallele, quasi disciplinate. La stessa disciplina che imponeva a se stessa e a tutti nell’istituto.
Guardò l’ora sull’orologio di cuoio nero che teneva al polso. «Venti minuti» disse.
Sofia stavolta sapeva di averla fatta grossa. Desiderò di potersi dissolvere nell’aria, mentre sentiva le orecchie infiammarsi e il volto arrossire.
«Vedo che non riesci proprio a capire, e insisti pervicacemente nel tuo comportamento maleducato.»
«Mi scusi…» disse la ragazzina con un filo di voce.
Suor Prudenzia alzò una mano interrompendola subito. «Lo dici ogni mattina, è un’espressione di rammarico che ormai si è svalutata.»
Lei era così. Parlava col vocabolario in mano, come diceva Giovanna.
«A pranzo avrai modo di fare ammenda e di riflettere sul tuo errore.»
Sofia sapeva bene cosa significava. Non provò neppure a protestare.
«Farai il turno in cucina per tutta la settimana.»
La ragazzina aprì la bocca, ma non proferì parola. Sarebbe stato inutile. L’enormità del castigo, però, la colpì come un pugno.
«Siediti.»
Raggiunse a capo chino il suo banco, restò in piedi per la durata della consueta preghiera mattutina, quindi si dispose a seguire le lezioni.
Non fu una giornata più umiliante del solito. Sofia non andava male a scuola, era piuttosto nella media. Si impegnava quanto poteva, ma era affetta da distrazione cronica. Non era colpa sua. Dopo mezz’ora passata con la guancia appoggiata al palmo a cercare di memorizzare ogni parola che veniva detta, cominciava a sognare e a vagare con la mente. Spesso costruiva trame alternative a quelle lette sui libri, inventava personaggi e si immedesimava nelle loro storie. La notte leggeva sotto le coperte, con la pila tra i denti e le orecchie tese a sentire se Giovanna o qualche suora venisse a fare la ronda. I libri che le piacevano, fantastici o dell’orrore, non andavano molto a genio ai suoi insegnanti, ma lei continuava a procurarseli di nascosto. Tutto diventava spunto per le sue sfrenate fantasie, che la portavano lontano dalla piccola aula fredda d’inverno e rovente d’estate, in cui studiava con altri orfani come lei.
«Sofia!»
Scattò in piedi. Ecco, ad esempio. Era appena capitato. Un attimo prima era lì nell’aula a sentire il prof di musica che parlava di Mozart, e un attimo dopo era persa alla corte viennese, tra trine e merletti, in un palazzo da favola.
«Allora? Me la dai questa risposta, sì o no?»
Sofia cercò disperatamente un appiglio che le facesse capire di cosa si stesse parlando. Vagò con lo sguardo sulla lavagna, poi sui suoi compagni di classe. Le loro espressioni non le dicevano niente.
«Saliera» sentì sussurrare. Forse era Marco, nel banco dietro al suo. «La risposta è la saliera.»
Sofia accolse quel suggerimento come un’ancora di salvezza. «La saliera!» si affrettò a dire.
La classe scoppiò a ridere, mentre il professore la guardava gelido. «Be’, davvero, non sapevo che le saliere se ne intendessero così tanto di musica e che una di lo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Prologo
- 1. Un giorno fra tanti
- 2. La fata in riva al fiume
- 3. L’esame del professore
- 4. Voltare pagina
- 5. Il cuore di Mattia
- 6. La nuova casa
- 7. Ali metalliche
- 8. Una sera al circo
- 9. La rivale di Sofia
- 10. Una storia incredibile
- 11. Giorni di confusione
- 12. Segreti sotterrannei
- 13. La visione
- 14. Sotto il lago
- 15. Una bussola
- 16. Convalescenza
- 17. Missione segreta
- 18. Una lotta disperata
- 19. Senso di colpa
- 20. L’Assoggettato
- 21. In casa del nemico
- 22. Thuban
- 23. Lidia e Sofia
- 24. L’inizio di ogni cosa
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